Le mani insanguinate dello Stato
una recensione in ritardo (*) per «La tortura in Italia» ovvero «Parole, luoghi e pratiche della violenza pubblica» (DeriveApprodi: 144 pagine, 15 euri) di Patrizio Gonnella; prefazione di Eligio Resta e postfazione di Mauro Palma.
Il primo fu Nereo Battello, il 4 aprile 1989. Il secondo fu Domenico Modugno il 19 febbraio 1991. Seguiranno Stefano Semenzato, Salvatore Cicu, Franco Corleone, Ersilia Salvato. Ma in oltre 20 anni nessuno dei disegni di legge per introdurre il crimine di tortura nel nostro Codice penale è arrivato in porto, nonostante l’Italia abbia ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite (approvata il 10 dicembre 1984 ed entrata in vigore il 26 giugno 1987, cioè dopo la firma del 20esimo Stato). Uno scandalo a dir poco.
Un paio di volte il Parlamento italiano è sembrato vicino a un accordo ma all’ultimo minuto è bastato il tremolio di una foglia a scuotere tutto l’albero: come ricorda il libro di Gonnella fu la leghista Carolina Lussana «a far passare un suo emendamento» nell’aprile 2005 secondo cui «il reato di tortura si consuma alla seconda volta». Prima di andare avanti pensateci su un attimo: applicate la logica della Lussana (e di chi l’ha presa a pretesto per bloccare tutto) al mondo. Da allora un rinvio continuo, che è al solito bipartisan: protagonisti a esempio «il senatore del Pdl Filippo Saltamartini, segretario generale del Sap (Sindacato autonomo di polizia) e il senatore Achille Serra, eletto nelle file del Partito Democratico, ma poi trasmigrato altrove, di mestiere prefetto»,
In Italia dunque non esiste il reato di tortura. Nella introduzione Patrizio Gonnella segnala lo stupore degli universitari (magari di Giurisprudenza) quando apprendono che «in Italia si rischia di finire in carcere se si tortura un animale o se si fa qualcosa di analogo e truce a un cadavere. Non è invece delittuoso torturare un essere umano in vita».
Chi si oppone a introdurre questo reato nel Codice penale italiano accampa vari pretesti; «i più sinceri motivano la loro contrarietà affermando che lo Stato deve avere sempre le mani libere e se capita sporche».
Quel «se capita» purtroppo non è in Italia un avvenimento straordinario: per molte ragioni (in testa l’impunità dei torturatori) “capita” con sempre maggior frequenza. Anche i più disinformati sanno della Diaz di Genova e poi di Bolzaneto, conoscono le tragiche vicende di Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi, forse anche di Giuseppe Uva. Ma poco altro. E’ assai improbabile che chi si informa saltuariamente conosca la tremenda vicenda del carcere di Asti (con la sentenza 78 del tribunale di Asti, il 30 gennaio 2012 che riconosce le torture ma, in mancanza di una legge, non può punire i torturatori) e pochissimi hanno sentito i nomi di Carlo Saturno, Tblisi Ama o Benedetto Labita morti “di carcere”. O il nome di Giuseppe Gulotta: 22 anni in carcere da innocente sulla base di “confessioni” estorte con torture.
Gonnella racconta il vocabolario della tortura in Italia, la sua perversa logica, spesso aiutando chi legge con utili confronti rispetto a ciò che accade in altri Paesi: per esempio, nel ragionare sulle leggi speciali contro il terrorismo, ricordando che in Germania la Corte Costituzionale nel 2006 ha dichiarato incostituzionale la legge tedesca sulla sicurezza aerea.
Come spiega l’articolo 1 della Convenzione del 1984 (adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite) ci sono 4 elementi che caratterizzano la tortura: «l’ inflizione di una acuta sofferenza fisica e/o psichica; la responsabilità diretta di un funzionario dell’apparato pubblico; la non liceità della sanzione: l’intenzionalità». Ed è questa «l’unica definizione di tortura universalmente riconosciuta» sottolinea Patrizio Gonnella.
Il principale scandalo della non legge contro la tortura in Italia è forse «nel mancato scandalo»: se però non si vuole scaricare la responsabilità sempre sugli altri senza chiamare in causa noi stessi forse bisogna impegnarsi a che la richiesta della legge diventi martellante. Il 26 giugno di ogni anno è la giornata indicata dalle Nazioni Unite per le vittime delle torture. Ma finora in quella data – o in altre – in Italia non si sono riempite le piazze per ricordare le vittime e i carnefici. Bisognerebbe farlo. Per raccontare storie, così semplicemente: «il racconto di una singola storia di tortura può avere un impatto più forte rispetto alla proposizione di un ragionamento giuridico-filosofico complesso intorno alla sua illegalità o immoralità». Per ricordare i nomi, quelli dei poliziotti condannati per le violenze della Diaz, a esempio: Giovanni Luperi, Francesco Gratteri, Vincenzo Canterini, Gilberto Caldarozzi, Spartaco Mortola, Filippo Ferri, Fabio Ciccimarra e gli altri. E per ricordare, di nuovo con nomi e cognomi, le risposte di istituzioni e politica perché, ribadisce Gonnella, «se queste sono le reazioni dei vertici istituzionali – solidarietà pubblica oppure impunità per i torturatori – di conseguenza non si può ragionevolmente e correttamente sostenere che la tortura sia questione di mele marce».
Il libro tocca molti altri punti delicati che alla tortura sono, per varie ragioni, connessi: come i cosiddetti Cie, Centri di identificazione ed espulsione, ridicoli nel nome e tragicamente illegali nella loro concretezza; come la «zona grigia» perché la tortura, come altri crimini, «non si muove all’interno di confini netti»; come quell’articolo 41 bis, nato per combattere i mafiosi, «stigmatizzato» («disumanità del trattamento») dal Cpt cioè il Comitato europeo per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa e che, passaggio dopo passaggio – come riassume Gonnella – da «sanzione legalmente prevista prende le sembianze della tortura»; come la necessità di «rendere sempre obbligatoriamente riconoscibile chi svolge compiti di ordine pubblico»; o come l’incredibile, anzi no credibilissimo, «sovraffollamento» delle carceri – per il quale siamo stati più volte richiamati e condannati in sede europea – che ovviamente «non è una calamità naturale» e neppure un fatto eccezionale, una emergenza ma una pessima abitudine, figlia di precise scelte politiche. Ed è infatti in base al «carattere sistemico e non occasionale della condizione degradante di vita nelle carceri» che i giudici di Strasburgo all’unanimità condannano (8 gennaio 2013; «caso Torreggiani e altri») l’Italia per le sue carceri con l’obbligo di «porre rimedio» entro un anno; ed è facile prevedere che nel gennaio 2014 la politica italiana sarà purtroppo in tutt’altre faccende affaccendata. E forse non sarebbe male se – fra dicembre e gennaio – le piazze italiane si riempissero per denunciare, raccontare, proporre.
Ci sono naturalmente anche buone notizie e Gonnella non si dimentica di darcele: alcune sentenze coraggiose (a partire da quelle su Genova 2001) anche in Italia, l’uscita del film «Diaz» di Daniele Vicari o quel che accade nel carcere di Bollate, per far solo un paio di esempi.
Ricordo che per inquadrare la tortura nei nostri tempi (e il suo “ritorno” dopo il 2001, con tanto di lasciapassare presunto democratico, dopo il 2001) è fondamentale il libro di Alfred McCoy: l’ho recensito qui Mc Coy e la tortura “inevitabile” dei governi Usa.
Infine una nota pignola: ormai i libri sono pieni di errori e altri refusi e neanche questo di Gonnella purtroppo fa eccezione. Tanto per dire a pagina 77 il cognome di Roosevelt per due volte appare storpiato e i «giorni tragici» di Genova 2001 vengono retrodatati di un mese. A volte i refusi sono soltanto fastidiosi ma talvolta possono indurre in confusione. Forse è il caso che le case editrici più serie ridiano spazio a un mestiere antico e glorioso: il correttore di bozze.
(*) Questa recensione si colloca nella rubrica «Chiedo venia», nel senso che mi è capitato, mi capita di non parlare in blog di alcuni bei libri pur letti. Perché accade? A volte nei giorni successivi alle letture sono stato travolto (da qualcosa, qualcuna/o, da misteriosi e-venti, dal destino cinico e baro, dalla stanchezza, dal super-lavoro … o da chi si ricorda più); altre volte mi è accaduto di concordare con qualche collega una recensione che poi rimane sospesa per molti mesi. Ogni tanto rimedierò in blog a questi buchi, appunto chiedendo venia. (db)