Mario, il fornaio

di Sergio Mambrini

Il papà di Ada amava raccontare a sua figlia le vicissitudini della propria stirpe. L’ombra dell’oblio incombeva su quella difficile storia, pervasa di tribolazioni, comuni a molti individui nelle epoche passate. Ormai sembrava consolidato il concetto che la capacità a dimenticare funzionasse come una facile e rapida scappatoia alla ben più impegnativa presa di coscienza degli sconvolgimenti economici e sociali, che avevano scombinato e mutato incessantemente il modello associativo fra le persone, facendo spesso diminuire, in maniera visibile, il loro benessere e soffocando sempre più la specifica, legittima e originale gioia di vivere. Era una distrazione che si era affermata banalmente attraverso l’uso sapiente della manipolazione propagandistica nella trasmissione delle notizie. Del resto, come farebbero, in tanti, ad accettare adesso le “guerre umanitarie”, senza l’espediente furbesco d’oscurare una parte vigile delle menti, dando origine a un adattamento passivo alle disgraziate sventure della nostra epoca?

L’intento di suo padre era riportare alla memoria anche i fatti minimi, che servissero a tramandare un senso di continuità e partecipazione. Poi, la figlia avrebbe potuto mettere in atto qualsiasi comportamento adeguato per migliorare il proprio destino. Sarebbe stata lei stessa a scegliere i tempi e i modi con i quali incidere nelle pieghe oscure delle vicende umane. Voleva che Ada sapesse tutto, anche gli episodi non indispensabili perché, a suo parere, la verità si poteva rintanare in particolari meno importanti e fin troppo trascurati. Era il gioco della memoria, quella che si usa per immagazzinare le informazioni per poi elaborarle e produrre una nuova azione, che potrebbe anche mutare e trasformare la vita. Suo padre glielo ricordava sempre.

Sai Ada? Il mio segreto è usare la memoria non per ricordare, ma per agire. Mi hanno insegnato a fare così ed è proprio da lì che sono partito.

Spesso sono gli odori che mi fanno rivivere le situazioni di allora, alcune immagini, certe parole lette. Per esempio: l’odore del pane in lievitazione, pregno di spirito vitale quasi alcolico, mi fa venire in mente il forno di Mario, il cugino della mia mamma, figlio della sorella della tua bisnonna Maria, la zia Teresa, la sarta, sposata con Ulderico, vecchio carrettiere di cui ti parlerò un giorno. Teresa era l’ultima delle sorelle e omonima della madre, per questa ragione tutti la chiamavano Teresina.

A quei tempi il pane occupava un ruolo fondamentale nel panorama alimentare individuale. Ogni nucleo famigliare era composto di diversi individui, che sembravano sempre affamati. Quel pane era un’ottima risposta al bisogno naturale di mangiare. Il lavoro nei campi era duro, persistente ed esteso a tutti i congiunti. Non si poteva barare con la fame generata da quel faticoso lavoro manuale. Siccome non si produceva più il pane direttamente nelle cascine come prima della guerra, l’esigenza ovvia di comprarlo aveva fatto la fortuna di Mario.

Fortuna è probabilmente una parola eccessiva e fuorviante. A quell’epoca il fornaio possedeva un ruolo fondamentale, sostanzioso, serio e rilevante oltre che autorevole nel panorama sociale. Spesso bastavano “pane e lavoro ” per vivere decentemente. Nessuno pensava a rinunciare a una delle due parti. Fatto sta, che Mario si alzava tutti i giorni alle due di notte per aver pronte le prime infornate poco dopo l’alba. Doveva nutrire le prime bocche affamate che richiedevano subito energia per ogni gesto: mietere, falciare, arare, zappare, seminare e più tardi irrigare a mano.

Mario continuava senza posa il proprio lavoro fin oltre l’una dopo pranzo. Poi mangiava anche lui, e alle due del pomeriggio si concedeva una colossale dormita di un paio d’ore. A dire il vero, anche queste flessibili, poiché spesso nel pomeriggio s’impegnava ad aiutare il padre Ulderico nei campi – circa un ettaro – che servivano come sussistenza: frumento, vino, frutta, erba medica per le due vacche, i pochi vitelli e le biade per il cavallo da traino, necessario per la professione d’Ulderico. Mario cenava sempre presto, perché alle sette di sera circa se ne andava finalmente a dormire. Chissà cosa sognava! Forse una bella ragazza spettinata, sorridente e nuda? Chi può dirlo! Allora nessuno confidava le proprie avventure oniriche, che a volte turbavano e in altre occasioni sembravano prive di significato. Jung non era riuscito a illuminare i cuori e le menti di questi strenui lavoratori. In definitiva, non era nemmeno compito suo. Mario, attraverso il sogno, coltivava il desiderio che non sfociava nell’amplesso. La passionalità non pesava sul suo temperamento. In realtà il sesso restava una prerogativa dei borghesi e dei giovani. Il vero evento, che disorientava gli altri e incideva sulle loro persone, era la miseria, credimi.

Tutti i fornai nei giorni di festa dovevano rispettare la chiusura del laboratorio, con la conseguente sospensione della produzione. Ogni volta, prima della domenica, Mario doveva preparare la doppia quantità di pane, perché lo stomaco dei contadini non andava mai in vacanza. Poiché i tempi delle lievitazioni non ammettevano accelerazioni, nel giorno che precedeva la festa, era costretto a sospendere una notte di sonno. Solo raddoppiando le ore lavorative riusciva a organizzare tutte le fasi della panificazione, duplicando la quantità del pane prodotto. Le cose si complicavano quando anche le feste adiacenti aumentavano, come per Natale e S. Stefano. In questi frangenti diventava necessario cuocere il triplo di pane, aggiungendo un’altra notte lavorativa a quella straordinaria già fatta.

Non c’era da stupirsi che non si fosse sposato, non fosse mai stato visto nemmeno assieme a una ragazza, non leggesse un libro, non andasse all’osteria, come tanti della sua età, a giocare una partita di briscola. Non ebbe alcuno svago, neanche un passatempo fino alla pensione. Lavoro, lavoro e famiglia. Accumulò il denaro sufficiente per acquistare una casa moderna con il giardino e uno spazioso garage. Però non possedeva la patente, per il timore che aveva manifestato al pensiero di guidare un’automobile nel traffico, anche se scarso negli anni cinquanta. Il modo con cui visse i primi momenti da pensionato si rivelò un disastro. Spendeva il suo tempo dilatato in lavoretti nell’orto e qualche partita a carte con gli scarsi amici. La notte non riusciva a dormire, per una tendenza alla veglia ormai acquisita. Anche se ti può sembrare inverosimile e paradossale, la sua vita era peggiorata e si sentiva infelice. Decise, perciò, d’accettare l’invito di un collega montanaro. Si trasferì in un paesetto delle montagne bresciane, continuando a preparare ciò che aveva sempre fatto, la sola e unica cosa che sapeva: impastare e cuocere il pane.

Tirò avanti con il solito impegno per altri quindici anni, finché anche quel forno alpino cessò l’attività. Di conseguenza tornò al suo paese, alla casa che la sorella Santina gli aveva mantenuto in ordine. Dopo cena si metteva davanti al televisore. Lo scarso interesse per la pubblicità e il distacco fisico dall’irrealtà dei programmi televisivi lo addormentavano. Rassegnato, ripeté questo rituale per qualche anno. Una sera, Santina spense il video ma Mario non si svegliò. Non si seppe mai se fosse stata proprio questa recente abitudine a essergli fatale, quasi che avesse assimilato un vizio venefico e letale. Fatto sta che scivolò via esente da clamore, senza arrecare alcun disturbo, nemmeno alla struttura sanitaria.

Non è facile tener viva la speranza nel futuro quando hai guardato il passato in profondità.

Intendo dire: aver conosciuto l’esistenza privata, di chi ha vissuto tanto prima.

Sapere quali legami l’ha rinforzato o turbato, i sentimenti d’amore falliti o quelli passionali, talmente inesauribili da provocare catastrofi nel momento fatale del loro commiato.

Sentire le parole di lontani antenati attraverso una rara lettera, scritta con una lingua non attuale.

E’ fatale chiedersi: «Io, che sono il loro futuro, ho mantenuto un collegamento libero da contraddizioni, nei pensieri e nelle azioni, con il loro presente? Ho saputo utilizzare le loro idee, i loro princìpi, le loro convinzioni per cambiare in meglio? Adesso, ho aperto gli occhi sul valore della mia vita?»

La risposta l’avete intuita perché, se avete guardato là in fondo, anche voi sentirete che la speranza cala.

Gli abissi del mare spaventano. E’ la superficie che esercita un fascino irresistibile, perché non mostra le sue pesanti profondità.

Così è il presente, che incanta, ma confonde.

E’ qui, adesso, che si scopre l’emozione della vita, pur non comprendendola. Ha radici talmente lontane che gli abissi marini possono sembrare pozze d’acqua.

 

Redazione
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