Massacro di Ayotzinapa: “È stato lo Stato”

di David Lifodi (*)

“Los auténticos vándalos, los asesinos de estudiantes, campesinos, de trabajadores, están en el gobierno y forman parte del Estado explotador y opresor”: il massacro compiuto il 26 settembre scorso ai danni dei 43 normalistas di Ayotzinapa è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Il Messico non ne può più di Peña Nieto e, più in generale, di una classe politica rivelatasi collusa a tutti i livelli con il crimine organizzato.Que sa vayan todos è il grido che risuona nelle piazze di un paese sul punto di esplodere. Gli scontri avvenuti nei giorni scontri a Città del Messico, con le solite irritanti dichiarazioni dell’estabilishment che si serve degli incidenti per reprimere la protesta e alzare ancor di più il livello dello scontro, testimoniano la stanchezza dei messicani, pronti ad arrivare alle estreme conseguenze pur di cacciare fuori dal paese i ladrones ai vertici delle istituzioni.

Lo sgombero violento dei manifestanti dello Zocalo di Città del Messico, come se fosse una proprietà privata occupata da abusivi, evidenzia la considerazione che hanno a Los Pinos della società civile. La scommessa del governo, che consiste nell’arrivare in qualche modo fino alle festività natalizie nella speranza che la protesta si sgonfi da sola, stavolta sembra persa in partenza, così come la ferma condanna degli scontri per isolare i movimenti sociali dal resto del paese. Peraltro, alcuni video testimoniano che le violenze di piazza sarebbero state pilotate: pare che alcuni degli incappucciati protagonisti degli incidenti siano stati avvistati poco prima sulle camionette dell’esercito. Una cosa è certa: Peña Nieto e il suo entourage sono nel mirino della critica, non solo di quella delle organizzazioni popolari, ma anche sotto il fuoco amico dei mezzi di comunicazione conservatori. La stampa di destra latinoamericana, i paludati The Economist e New York Times e perfino il fedele alleato statunitense, adesso cercano di prendere le distanze e dipingono Peña Nieto come un irresponsabile: in alcuni casi, vedi alla Casa Bianca, addirittura sembrano intenzionati a disconoscerlo. L’estabilishment conservatore concorda su un punto, peraltro evidente, la scalata dei narcos ai vertici dello stato, ma questo non basta. In Messico la vita delle persone vale meno di quella delle bestie, come dimostrano il massacro di Atenco, l’halconazo del 1971, la strage di Tlatelolco e molti altri episodi del recente passato, ma nessuno si preoccupa di tutelare davvero i diritti civili e umani. A Washington , memori delle forza con cui i movimenti popolari latinoamericani riescono a sollevare dal loro incarico i presidenti (è il caso delle mobilitazioni indigene in Ecuador e di quelle dei piqueteros argentini, della fuga a Miami del gringo-boliviano Sanchez de Lozada e del Caracazo venezuelano), pensano di trovare un traghettatore che gestisca un’uscita del Messico dalla crisi politica e non solo in cui si trova il paese, senza considerare che la gente non ritiene sufficiente l’eventuale punizione e/o sollevazione dall’incarico del sindaco di Iguala Abarca o del governatore del Guerrero Aguirre soltanto per essere sostituiti da un’altra classe dirigente altrettanto collusa con i cartelli della droga e a libro paga delle imprese transnazionali. In molti hanno parlato di “narcocrazia” messicana, di narcopartiti, di narcogovernatori, di narcosindaci, di narcomagistrati e di narcogiudici. Anche una parte della magistratura è ormai una pedina del sistema del narcopotere che domina il paese: difficile credere il contrario, se si pensa alla dichiarazione, offensiva nei confronti delle vittime e dei loro familiari, quanto inappropriata, del procuratore Jesús Murillo Karam, che se ne è uscito con un “mi sono stancato” in riferimento alle proteste dei genitori che rifiutavano di accettare la chiusura dell’indagine dopo la conferma che i loro figli erano stati bruciati e poi gettati in una discarica. La stanchezza di Murillo Karam fa il paio con l’irritazione di uno Stato che ha rifiutato di indagare a fondo sulla strage di Iguala, limitandosi ad arrestare alcuni narcos dei Guerreros Unidos solo perché il massacro dei normalistas era divenuto ormai un caso mondiale. Lo stesso Stato, purtroppo, non ha dato alcuna risposta alla violenza di cui è il principale promotore, attraverso le sue istituzioni. “È stato lo Stato” è la parola d’ordine degli studenti messicani in merito alle responsabilità della morte dei 43normalistas della Escuela Normal Rural Isidro Burgos. La caccia allo studente avvenuta a Iguala, con il suo carico di orrore, ha rappresentato il braccio armato di uno Stato che, nel corso degli anni, ha indebolito la società civile messicana a colpi di riforme strutturali. La Reforma Laboral ha rappresentato il cavallo di Troia per rendere precario il mercato del lavoro a danno delle giovani generazioni (e non solo), costringendole ad un futuro senza diritto alla pensione e senza alcuna garanzia sociale allo scopo di smantellare la solidarietà di classe. Il saccheggio del paese è proseguito con la Reforma Enérgetica, che ha aperto il paese alle multinazionali e certificato l’abdicazione della sovranità territoriale, con la Reforma Educativa, che impone il rigido controllo dello Stato su docenti e studenti, passando per la Reforma de Telecomunicaciones, la Reforma Fiscal e la Reforma Financiera, realizzate per i grandi monopoli transnazionali e il capitale privato. Di fronte allo scoppio di conflitti di carattere ambientale, sociale, sindacale, educativo e per la difesa della terra (solo per citare i casi più noti), lo Stato ha scelto di creare un solido blocco comune caratterizzato dal rafforzamento di un discutibile stato di diritto reinterpretato in chiave esclusivamente soggettiva e a proprio vantaggio. In questo contesto, lo Stato si è servito di ordini di governo (ad esempio la Conferencia Nacional de Gobernadores), della classe imprenditoriale (Consejo Coordinador Empresarial), dei partiti (la triade Pri-Pan-Prd, quest’ultimo mettendo ai margini le basi realmente di sinistra) e della frangia più addomesticata dell’opinione pubblica e della società civile (giornalisti accondiscendenti, intellettuali, sportivi e personaggi pubblici di orientamento neoliberista) per disarticolare la protesta sociale e imporre, con la violenza, il potere del blocco dominante. A tutto ciò va aggiunto che la crisi messicana è divenuta di dominio continentale. In un’intervista rilasciata a Foreign Affairs Latinoamérica, il presidente uruguayano Pepe Mujica ha dichiarato che il massacro dei normalistas è stato un “fatto terribile” e che il Messico “è uno stato fallito i cui poteri pubblici sono totalmente fuori controllo”. Le dichiarazioni dell’ex tupamaro hanno provocato un vero e proprio incidente diplomatico con il Messico, che ha convocato l’ambasciatore uruguayano per chiedere spiegazioni, nonostante lo stesso Mujica, in una successiva dichiarazione, avesse abbassato il tiro esprimendo piena fiducia nelle istituzioni democratiche messicane per la risoluzione del caso, pur manifestando ancora una volta la propria solidarietà alle famiglie degli studenti desaparecidos. Sull’altro versante, l’ex presidente colombiano Álvaro Uribe, noto per i suoi legami con l’estrema destra, ne ha approfittato per rilasciare una dichiarazione farneticante: i normalistas sarebbero stati uccisi dalla guerriglia delle Farc. Non solo, lo stesso Uribe ha rincarato la dose, invitando il Messico sul campo dell’interventismo militare per debellare le formazioni guerrigliere presenti nel paese. In questo caso, però, da Los Pinos non sono giunte parole di fuoco come accaduto con Mujica, anzi, né Uribe è stato invitato a smentire ciò che aveva sostenuto.

Quello che resta del Messico, come dice a ragione il presidente uruguayano, è uno Stato fallito in balia di narcos dove la borghesia e il grane capitale cercano di cavalcare l’onda per avere uno paese su misura dove non ci sia spazio per i movimenti sociali, i diritti civili e sia decretata la morte della coscienza politica del paese, ma è difficile che questa prospettiva diventi reale. La mobilitazione del Messico de los de abajo è appena cominciata e difficilmente sarà messa a tacere.

* tratto da www.peacelink.it del 26 novembre 2014

David Lifodi
Sono nato a Siena e la mia vera occupazione è presso l'Università di Siena. Nel mio lavoro "ufficioso" collaboro con il sito internet www.peacelink.it, con il blog La Bottega del Barbieri e ogni tanto pubblico articoli su altri siti e riviste riguardo a diritti umani, sindacalismo, politica e storia dell’America latina, questione indigena e agraria, ecologia.

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