«Ne me quitte pas». Jacques Brel non abbandonarci

di Fabio Troncarelli. A seguire un video su «Quella gente là»… come la cantava Brel

L’8 aprile 1929 nacque Jacques Brel. Se chiedete in giro chi era pochi sapranno rispondere. E invece è stato uno dei cantanti più famosi del Novecento, una vera e propria star che trascinava le folle. Per questo mi è sembrato giusto occuparmi di lui e rievocarlo: che c’è di meglio del ripescare un grande autore dimenticato e farlo apprezzare di nuovo, mettendosi umilmente al suo servizio, come un bravo pianista che riscopre un genio della musica trascurato e lo ripropone al grande pubblico? Così ho cominicato a leggiucchiare qualche libro e a consultare qualche blog, tanto per rinfrescarmi la memoria. Non l’avessi mai fatto! Altro che “dimenticato”! Jacques Brel è considerato il demonio o poco meno. Più leggevo e più sbarravo gli occhi. Tanto per cominciare era un mostro. Poi copiava. Poi non avrebbe mosso un dito se non avesse avuto qualcuno che gli suggeriva tutto, qualcuno che lo muoveva come un burattino, che gli faceva imparare tutto a memoria: come si parla, come si canta, come si recita, come si scrive la musica. E poi, poi, poi… Ecco a questo punto mi sono cascate le braccia e sono rimasto ammutolito. Che cosa trovate sui giornali più importanti, sui libri più premiati, sui siti web più aggiornati? Brel… era uno sfigato. Ci manca solo dire che era gobbo come Leopardi e per questo era sempre triste. Che incubo! I suoi contemporanei non sopportavano il suo pessimismo. Volevano sentire solo fanfare, squilli di tromba e gridare “L’Italia s’è desta”. Se leggete il diluvio di insulti e di ripugnanti stupidaggini che si sprecano su Brel dovete rivalutare i nemici di Leopardi. Sarebbe stato un vigliacco. Un debole. Un disonesto. Un uomo da niente. A questo punto ho deciso che la scor-data non sarebbe stata più dedicata solo a Brel maanche all’agghiacciante regressione antropologica che ci viene imposta come il migliore dei mondi possibili, al trionfo del Pensiero unico e del Neoliberismo, che vogliono solo sbarazzarsi di chi dà fastidio, fare piazza pulita di chi non è allineato, “rottamare” chi non la pensa come gli altri e coprirlo di calunnie, di scherno, di disgusto.

So bene che qualcuno di voi aggrotterà le ciglia. Dirà: «Ma che vuole questo? Ma di che sta parlando?». Cercherò di spiegarmi con un caso concreto. Nel 1959 Jacques Brel ha scritto una canzone che è divenuta famosissima: Ne me quitte pas ovvero Non mi lasciare. Il testo è pieno di parole bellissime. Chi canta (è un uomo? E’ una donna?) chiede disperato all’essere che ama di non lasciarlo e promette di fare cose straordinarie per convincerlo:

«Ti offrirò perle di pioggia

venute da un paese dove non piove mai…

Scaverò la terra fino alla morte

per coprirti di oro e di luce…

Mi nasconderò per vederti

danzare e sorridere

e ascoltarti cantare

e ridere…

Lasciami divenire

l’ombra della tua ombra…».

Come ha scritto Ezio Guaitamacchi: «Per la sua accesa drammaticità… il brano è divenuto uno standard universale di cui si calcola esistano almeno 400 versioni registrate e 22 traduzioni in altrettanti idiomi (compresi polacco, svedese, yiddish e perfino afrikaans), L’interpretazione in lingua più famosa è sicuramente quella di Nina Simone… seguita da quella in tedesco di Marlene Dietrich…. Con il titolo Non andar via Gino Paoli l’ha presentata al nostro pubblico nel 1962 , anche se la resa più efficace è probabilmente quella di Patty Pravo (1970). Nella sua trasposizione inglese If you go away la canzone ha avuto addirittura una vita parallela, diventando un classico pop capace di attraversare generazioni di intepreti, da Frank Sinatra a Dusty Springfield, da Shirley Bassey a Ray Charles, da Scott Walker a Marc Almond, dai Mokoko a Emiliana Torrini.». (Ezio Guaitamacchi, 1000 canzoni che ci hanno cambiato la vita, Milano, Rizzoli, 2011).

Accidenti, direte voi! E vi sbagliate. Anzi: si sono sbagliati tutti. Perchè questo meraviglioso poema d’amore non è altro che: «una canzone scritta da un codardo» (JULIÁN RUÍz). Cioè?

Lasciamo la parola al gazzettiere di turno: «Brel incontra… una donna meravigliosa, un’attrice comica di nome Suzanne Gabriello soprannominata “Zizou”. È sensuale e intelligente. Pochi giorni dopo, Suzanne cade tra le braccia di Brel e della sua commedia. Ma innamorarsi diventerà un dramma cupo, imperfetto e odioso. Quasi una specie di tragedia. Il problema è che Brel era diventato un codardo e alla fine si è comportato come tanti uomini schizzinosi e inaffidabili, che sono riluttanti a lasciare le loro mogli… Giornate di tournée, brevi incontri, sesso e febbre amorosa con “Zizou”, che si concludono con la gravidanza di “Zizou”. Il risultato finale di una relazione bugiarda e prigioniera. Una pessima relazione in cui entrambi hanno interpretato il ruolo di patetici amanti. Insomma, un mondo di pazza sofferenza con il destino fatale di una canzone. Brel si comporta come un codardo. Scappa da “Zizou”, dal suo grande amore, come un marito comune con un’amante. Brel litiga con “Zizou” e alla fine si rifiuta di ammettere di essere il padre, la vera persona responsabile della “gravidanza” di Suzanne. Pazza di rabbia, di frustrazione, “Zizou” minaccia di querelarlo in tribunale e di denunciarlo all’opinione pubblica. Brel si rifugia quindi dalla moglie, la sua Miche. La storia finisce male, ma Brel ne approfitta persino per creare la canzone d’amore più terribile della storia Ne me quitte pas. Un “non lasciarmi” che non aveva assolutamente senso a causa del suo comportamento con “Zizou”… In ogni caso, Brel odió sempre questa canzone, che era la sua penitenza per il dolore a Suzanne. Brel la consideró come la catarsi dei suoi peccati con la grande amante della sua vita. Ne me quitte pas lo ha perseguitato per tutta la vita come una donna offesa, una donna irritata che trionfa su un uomo umiliato». (JULIÁN RUÍz, La triste historia de ‘Ne me quitte pas‘, in «El Mundo», 25/3/2014).

Donna irritata, trionfo su uomo umiliato, peccati... Pare di leggere i verbali di un processo dell’Inquisizione. Brel vigliacco che rifiuta l’amante… E se non l’amava più? Ma si dice che Brel abbia sempre odiato la sua canzone, avrebbe confessato che era la dimostrazione dei suoi peccati…S arà. Ma nessuno è un buon testimone di sè stesso, sia che si autoaccusi, sia che si assolva. Il fatto è che “assoluzione” o “accusa” sono parole che vanno bene per il prete confessore, per il giudice, per l’Inquisitore. Non per l’amante. Come ha scritto Boezio, parlando di Orfeo ed Euridice: «Chi darà mai una legge a chi ama?».

Comunque la grettezza d’animo degli Inquisitori non è ancora niente. Il vero problma indigesto per i nostri schifiltosi contemporanei è che questa canzone “da vigliacco” è un inno alla dipendenza affettiva: un peccato che gli uomini di oggi non possono sopportare. Come hanno scritto Christophe André, ‎Alexandre Jollien, ‎Matthieu Ricard nel libro A noi la libertà (Vicenza, Neri Pozza, 2019): «La persona dipendente, così incatenata, si becca l’insopportabile sfilza di effetti collaterali e si infligge un maltrattamento inaudito… Dopo un po’ le persone che ne sono vittime si rendono conto che gli inconvenienti… sono molto più consistenti dei vantaggi. Ma i vantaggi riguardano un bisogno fondamentale: ricevere amore e sicurezza. Allora si preferisce rinunciare alla propria libertà. Pensate alla canzone di Jacques Brel Ne me quitte pas... Quando si arriva a questo stadio la libertà interiore è lontanissima. Ciò che complica ulteriormente la dipendenza è la vita semiclandestina a cui essa induce. Chi oserebbe sputare il rospo e confessare senza esitazioni…”Dò di matto per questo tizio”, “Impazzisco per quella donna”? Come non temere le reazioni di chi ci circonda… Forse il primo passo è osare la trasparenza, disfarsi dell’imbarazzo, della vergogna… Non appena si comincia a raccontar frottole, a mentire, a recitare un ruolo, a imbrogliare, tutto fa pensare che incomba un rischio… Dirigersi con decisione verso “la grande salute”, liberarsi dalla dipendenza significa forse osare una “lucidità totale”…immensamente liberatoria».

Mi fermo qui. Mi sento soffocare. Non crediate che queste idiozie siano voci isolate. Si ripetono come un’eco da un giornale all’altro, da un libro all’altro. Ecco…

Ricominciamo da capo. Innanzi tutto: della vita privata di Brel non me ne frega un picchio. E non deve fregare a nessuno. La biografia di un autore è una cosa. Il pettegolezzo da quattro soldi è un’altra cosa. Quindi facciamola finita con le frescacce. Non prima però di esserci posti una domanda che i patiti delle frescacce non considerano. Ammesso e non concesso che ce ne freghi qualche cosa, ma chi lo dice che la canzone di uno che supplica “Non mi lasciare” sia rivolta all’amante che lo sta lasciando e non invece alla moglie che lo potrebbe lasciare e magari avrebbe pure ragione di farlo? E chi l’ha detto che ammettere di amare ancora qualcuno che si credeva di non amare più sia una forma di vigliaccheria e non invece una forma di coraggio, perché significa ammettere di avere sbagliato? Ma – si dice – Brel in preda al senso di colpa avrebbe confessato che la canzone dimostrava le sue malefatte. Brel può dire quello che vuole, ma la canzone vive di una vita propria e afferma il contrario. Cari miei, l’inconscio esiste e dice cose diverse da quelle che dicono gli Inquisitori e perfino coloro che confessano i loro “peccati”…

Diamo al lettore stordito da tanti dubbi il tempo di riprendersi e andiamo avanti. Fossero solo questi i problemi! Il vero guaio è che questo è un mondo in cui bisogna disfarsi “dell’imbarazzo e della vergogna”, fare outing, “smettere di mentirsi e raccontarsi frottole” e proclamare con orgoglio – il famoso “pride” – che si è diversi, eccentrici, speciali. Poi però, in questo mondo di sfacciati, se uno dice la verità allora lo linciano. Forse questa ”Verità” è di comodo. E’ il famoso“Vero” della Controriforma, il Vero da «condire in molli versi» come diceva Tasso: un Vero Unico, un Pensiero Unico che abbaglia tutti e richiede solo adorazione e prosternazione. Solo che non è il Vero: è il Falso che ha preso il posto del Vero e annienta chi osa dire il contrario.

Torniamo al nostro caso: si blatera tanto di “non raccontarsi le frottole” e poi se uno dice francamente “non mi lasciare” non può essere vero? Ma quale outing ci può essere più chiaro di questo? “Sono disperato, non voglio perderti, non mi lasciare”. Che altro vuoi? Certo, nel mondo in cui l’uomo “non deve chiedere mai” e deve essere sempre vincente ed esultante non c’è spazio per chi dice di essere debole e di avere bisogno dell’altro. Un essere simile è uno sfigato, uno che “rinuncia alla propria libertà e dignità”. Che bugiardi! Non solo perchè negano la lezione dei poeti e degli artisti che descrivono i tormenti dell’amore e l’angoscia dell’abbandono, da Dante Alighieri a Proust. Ma soprattutto perchè non accettano che si possa essere deboli, feriti, smarriti, proclamando fanaticamente il Verbo del Pensiero Unico: esiste solo l’Uomo con la “u” maiuscola, il presuntuoso orgoglioso sempre in preda al delirio maniacale, al culto della sua onnipotenza. Il resto è fango. Miserabili! Proclamano il loro orgoglio e poi strisciano come vermi di fronte a problemi più grandi di loro. Fino a che si tratta di sbandierare sentimenti prêt-a-porter di inossidabile conformismo va tutto bene. Ma quando la realtà chiede il conto, allora bisogna solo accanirsi contro l’eretico e tornare subito al Disordine Stabilito. Pochi giorni fa una “sciura” di Palermo si è offerta con nobile slancio di ospitare a casa sua due profughi di Kiev. Quando le hanno mandato da Kiev due poveracci congolesi, che erano sopravvissuti ai massacri di Boko Aran ed erano fuggiti in Ucraina per trovarsi peggio di prima, ha proclamato con fierezza che lei i Bongo Bongo non li voleva. «Lucida, l’assassina!» come ha detto una volta Giovanna Marini. E’ un caso isolato? Manco per niente. Lunedì 28 febbraio 2022, la Nigeria ha esortato le autorità di frontiera in Ucraina e nei Paesi limitrofi a trattare i suoi cittadini “con dignità” affermando che ripetute segnalazioni mostrano che: «la polizia e il personale di sicurezza ucraini si rifiutano di lasciare che i nigeriani salgano su autobus e treni» per raggiungere la Polonia. Lo ha detto il portavoce presidenziale nigeriano Garba Shehu, aggiungendo che i funzionari polacchi hanno rifiutato l’ingresso in Polonia ai nigeriani provenienti dall’Ucraina. Stessa protesta dal Sudafrica: il portavoce del ministero degli Esteri Clayson Monyela ha anche affermato che alcuni africani venivano “abusati” al confine tra Ucraina e Polonia e che l’ambasciatore si era recato lì per aiutare un gruppo di sudafricani bloccati, per lo più studenti, che non potevano entrare in Polonia. Già la Polonia. Paese in in cui hanno costruito un muro nella foresta di Białowieża per impedire ai migranti bielorussi di entrare e hanno sbattuto quelli che hanno catturato nei lager di Biała Podlaska, Białystok, Kętrzyn, Krosno Odrzańskie, Lesznowola e Przemyśl, e Wędrzyn. Dimenticavo. C’è migrante e migrante. Come ha detto Salvini: «L’Italia ha il dovere di spalancare le porte a chi scappa dalla guerra vera. Ai profughi veri. Spesso si parla di profughi finti e di guerre finte». Vuoi mettere quei falsi di siriani o di afgani con i profughi ucraini? Le loro sono guerre finte: senza morti, senza bombardamenti, senza persecuzioni, senza diritto all’asilo politico alla faccia della Convenzione di Ginevra del 1951 che garantisce lo status di rifugiato a chi teme di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un gruppo sociale o per le opinioni politiche.

Sento qualche protesta: «Ma che vuole questo? Ma che c’entra con Brel?». C’entra, c’entra, anche se avete gli occhi foderati di prosciutto e vi fa comodo. Il punto in comune tra il rifiuto dei sentimenti inammissibili del singolo e il rifiuto dei migranti che non sono DOC e non hanno il Bollino Blu è questo: è facile sbandierare grandi princìpi e fare bella figura senza fatica, strumentalizzando perfino la sofferenza altrui, pur di ribadire il proprio squallore umano. Poi però se arriva il momento della sincerità, allora apriti cielo! Farisei ipocriti! Solo chi vi fa comodo ha diritto alla pietà! Dunque Brel avrebbe il torto di dire al mondo del Pensiero Unico e del Grande Fratello che esiste la debolezza, la dipendenza, l’abbandono, così come i poveri migranti africani hanno il torto di ricordare lo stesso ai Farisei ipocriti che ci circondano; di dire che non esistono solo i sentimenti precostituiti e la solidarietà coatta verso i profughi DOC ma esistono anche i migranti di serie B bloccati nei porti e braccari nei boschi quelli che nessuno accoglie a braccia aperte? Chi soffre come un cane, ma non è gradito al Grande Fratello, deve stare zitto e mosca.

Torniamo all’inizio. L’ aprile del 1929 naque Jacques Brel. E il mondo, per un momento, fu migliore. Lui visse una vita bastarda, randagia, selvaggia. E cantò questo: la disperazione dei perdenti. Cantò i reietti, i rifiuti umani, le puttane, i barboni, gli emarginati, i ribelli senza una causa, i dannati della terra, umiliati ed offesi. Chi non ha casa, chi non ha fortuna, chi non ha speranza, chi non ha dignità, chi non ha da perdere neppure le sue catene. Come lui François Villon cantò gli impiccati a cui i corvi cavano gli occhi. Come lui Chavela Vargas cantò vinti, ubriachi, uomini soli. Coloro che piangono e non saranno mai riconsolati. Ha detto Shakespeare: «La vita è una favola raccontata da un’idiota, piena di grida e di furia, che non significa nulla» (Macbeth, atto V, scena V). Anche Brel lo sapeva. E supplicava il Destino di non restare solo. Il Destino o una donna, l’unica donna che avesse amato, l’unica donna che l’avesse amato. Noi gli siamo grati per questo. Il resto, è il caso di dirlo di fronte allo squallore dei Farisei contemporanei, il resto è silenzio.

In “bottega” cfr Scor-data: 9 ottobre 1978 ma anche Le Far West – Jacques Brel* e Jacques Brel al cinema

«Quella gente là»

Se volete farvi un’idea dell’arte di Jacques Brel date un’occhiata a questo video: https://www.youtube.com/watch?v=O6MGGh8WUco. La canzone è un specie di litania, di preghiera, balbettata più che cantata (altro che rap!). Parla di «Quella gente là». Quale gente? Gente che si ricorda con un certo disprezzo, dicendo “quelli là” con un’aria di commiserazione. Chi canta, un po’ confuso, quasi sentendosi in colpa, prende sottobraccio il pubblico come se fosse un signore rispettabile e sussurra confusamente che esiste questo genere di persone. E’ una famiglia da quattro soldi, presumibilmente poveri o comunque male in arnese. Il padre, un vecchio con un nasone paonazzo,  non si ricorda più il nome e si ubriaca dalla mattina alla sera con  «un vino da quattro soldi». Poi c’è il figlio maggiore, brutto come la rogna ma pronto a dare la sua camicia a un povero e a sposare una ragazza perduta per darle una miserabile dignità: vorrebbe darsi l’aria di essere qualche cosa o qualcuno e invece non ha niente di suo,  neppure un po’ d’aria. E c’è la madre abbrutita, ridotta a uno straccio, quasi demente nella sua vita senza vita, che spalanca gli occhi davanti agli altri che ingurgitano la minestra rumorosamente, facendo versacci come gli ignoranti maleducati. C’è la nonna, una vecchia disgustosa e malata: tutti aspettano che tiri le cuoia perché è l’unica che ha due soldi da parte e se li tiene stretti nelle mani adunche. Ma fra loro c’è anche la bellissima Frida, che tutti vorrebbero e che anche chi canta sogna di sposare per avere finalmente una casa. Ma avrà un rifiuto … dai rifiuti umani a cui chiede. Gli dicono di no, compatti: lui è uno senz’arte né parte, sa solo seviziare i gatti. Almeno così credono. E chi canta, sconsolato, scuote la testa e non sa che dire.

Solenne eppure allucinato, pazzo, gesticolando come un esaltato, incespicando sulle parole, Brel dà voce a chi non ha voce. Parla di ciò che è innominabile. Parla del ripugnante, dell’abietto, dello sconvolgente. Di esseri che non sono più umani ma sub-umani. Non sono così perché c’è stata una catastrofe atomica, perché vivono nella Distopia che va tanto di moda. No, no, no: sono così e si sono ridotti così perché noi vogliamo che siano così. Noi vogliamo che incarnino il male, che si offrano come bersagli alla nostra insolenza di persone che si sentono mature e rette. Questi esseri che strisciano davanti a noi sono il capro espiatorio della nostra squallida sicurezza. Ci servono per dire: «Io con quella gente là non ho niente da spartire». E loro, come il vecchio Karamazov, fanno i buffoni davanti a noi perché è l’unica cosa che possono fare. Fanno i cani da Circo perché noi pensiamo che sono randagi e meritano solo un calcio,  una sassata. Sperano, ululando come cani, di racimolare una carezza oltre che sassate. Gliela vogliamo dare questa carezza? Vogliamo considerarli esseri umani? Anche se chi ce li raccomanda ha la fama di essere un “vigliacco”? Ma chi è più vigliacco? Lui che si trascina nell’abiezione e ce la fa conoscere o noi che di quella gente là  non vogliamo sentire parlare?

 

MA COSA SONO LE «SCOR-DATE»? NOTA PER CHI CAPITASSE QUI SOLTANTO ADESSO.

Per «scor-data» qui in “bottega” si intende il rimando a una persona o a un evento che il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna deformano, rammentano “a rovescio” o cancellano; a volte i temi possono essere più leggeri ché ogni tanto sorridere non fa male, anzi. Ovviamente assai diversi gli stili e le scelte per raccontare; a volte post brevi e magari solo un titolo, una citazione, una foto, un disegno. Comunque un gran lavoro. E si può fare meglio, specie se il nostro “collettivo di lavoro” si allargherà. Vi sentite chiamate/i “in causa”? Proprio così, questo è un bando di arruolamento nel nostro disarmato esercituccio. Grazie in anticipo a chi collaborerà, commenterà, linkerà, correggerà i nostri errori sempre possibili, segnalerà qualcun/qualcosa … o anche solo ci leggerà.

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