Nessuna cultura giustifica la violenza sessista

di Marina Della Rocca (*)

Il relativismo culturale dovrebbe aiutarci a superare gli stereotipi. Se applicato alla violenza di genere, può però innescare il fenomeno della “culturalizzazione”.  Un’ antropologa ci spiega di cosa si tratta a partire da un caso recente che ha riacceso il dibattito

Lo scorso 12 settembre 2023 un pubblico ministero della Procura di Brescia ha presentato una richiesta di assoluzione per un uomo originario del Bangladesh, denunciato dalla moglie per maltrattamenti. Le limitazioni delle libertà imposte dall’uomo sarebbero, secondo il magistrato, “il frutto dell’impianto culturale e non della sua coscienza e volontà di annichilire e svilire la coniuge per conseguire la supremazia sulla medesima”.

Le parole del pubblico ministero, rispetto alle quali la stessa Procura di Brescia ha ritenuto opportuno posizionarsi tramite un comunicato stampa, sono diventate oggetto di critica nel dibattito pubblico che ne è scaturito. Sarebbero, infatti, rivelatrici di una forma di relativismo culturale che, secondo la procura, non è accettabile dalla legge italiana, una legge che persegue gli atti di violenza a prescindere dalla provenienza culturale delle persone coinvolte. 

Per comprendere le implicazioni del dibattito è necessario fare riferimento a uno dei processi di stereotipizzazione più diffusi della violenza di genere, quello della “culturalizzazione“, di cui il relativismo culturale costituisce solo un aspetto.

Com’è noto a esperte e studiose, la violenza di genere è soggetta a stereotipi sulla base di provenienza geografica, appartenenze culturali e religiose, condizioni e contesti sociali, che riguardano sia chi la agisce sia le donne che la subiscono. Nonostante le campagne di sensibilizzazione per decostruirli, i luoghi comuni più diffusi vengono sistematicamente rievocati, spesso per mancanza di una conoscenza adeguata del fenomeno, dovuta a una formazione carente degli attori coinvolti nei casi di violenza sulle donne.

Quest’ultimo aspetto è sottolineato dal rapporto redatto dalla rete D.i.Re (Donne in Rete contro la violenza) e dedicato all’attuazione, in Italia, della convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, più comunemente nota come Convenzione di Istanbul.

Il concetto di “relativismo culturale” nasce nell’ambito dell’antropologia, per spiegare che esistono modi diversi di concepire le azioni e i fenomeni, in base ai contesti sociali di riferimento. È funzionale a un’interpretazione emica della realtà, che corrisponde, cioè, al punto di vista interno a una comunità.[1] Alla base c’è l’intento di superare uno sguardo etnocentrico, che giudica le differenze culturali attribuendo a queste ultime un’inferiorità sul piano intellettuale, materiale, sociale e morale.

Questo tipo di approccio, caratteristico dei processi di colonizzazione, è tuttora presente nelle forme di imperialismo culturale in cui l’alterità viene giudicata, banalizzata o assimilata. Tuttavia, il relativismo dei primi sguardi dell’antropologia sulle relazioni di genere ha rischiato di oscurare gli aspetti strutturali della violenza sulle donne.

A partire dalla fine degli anni Ottanta, in linea con la critica femminista verso l’androcentrismo – la prospettiva maschile dominante in tutti gli ambiti della società – sono stati pubblicati studi etnografici che, pur restituendo le dinamiche dei contesti specifici, rimandano alla trasversalità della violenza sulle donne. Lo scopo era quello di evitare la giustificazione di pratiche discriminatorie o violente in quanto prodotto di determinate culture.

Spesso, ne è derivata però una lettura fuorviante delle differenze, il cui rischio è quello di generare un processo di culturalizzazione, vale a dire di attribuzione di determinati comportamenti e codici morali a specifici gruppi sociali sulla base della cultura di appartenenza, rappresentata come indifferente ai mutamenti storici e sociali.

Un’interpretazione riduttiva del relativismo culturale contraddice l’intento con il quale è stato teorizzato, quello, cioè, di affacciarsi alla pluralità di orizzonti culturali superando pregiudizi e stereotipi. Rispetto al fenomeno della violenza di genere, questo sguardo implica che gli individui appartenenti alle cosiddette “culture altre” vengano considerati vittime passive e acritiche di società arretrate. Le donne, in particolare, vengono viste come dei soggetti da salvare tramite l’intervento del mondo occidentale, che considera la violenza di genere come un’anomalia nella gestione privata delle relazioni uomo-donna tra individui dotati di ragione.

Questa prospettiva riproduce l’idea delle civiltà in opposizione, una lettura di matrice coloniale spesso evocata nelle discussioni pubbliche sui casi di violenza che coinvolgono persone con background migratorio. Se la lettura relativista comporta un disinvestimento nelle azioni di contrasto alla violenza di genere, lasciando sole le donne che la subiscono, la logica evoluzionista dello scontro tra civiltà finisce col distorcere la comprensione delle radici strutturali della violenza di genere.

La filosofa femminista e ricercatrice presso l’Università della Columbia Britannica Emily Tilton ha condotto un’analisi sulle accuse di violenza sessuale nel contesto statunitense, descrivendone i miti e distinguendoli in due categorie: i primi sono quelli che minimizzano le accuse rivolte a persone che, nel sentire comune, difficilmente vengono associate alla violenza sessuale – di solito uomini bianchi eterosessuali che appartengono per lo più alla rete di relazioni di prossimità. I secondi sono i miti che, al contrario, enfatizzano le accuse rivolte a persone marginalizzate per ragioni di provenienza, colore della pelle, appartenenza religiosa e status sociale, soprattutto se accuse di questo tipo vengono mosse da donne bianche. 

Se, da un lato, non assolve la violenza, questo meccanismo mira, dall’altro, ad allontanare la mostruosità dell’atto violento dal contesto di riferimento per spostarla su specifiche categorie di soggetti, con l’effetto di “razzializzare” la violenza. Culturalizzazione e razzializzazione costituiscono quindi due facce della stessa medaglia. Inoltre, questi processi negano la capacità delle donne di rispondere alle discriminazioni e alle violenze di genere.

Nel volume Una casa per tutte le donne. Etnografia della relazione di accoglienza con donne migranti in situazione di violenza (Edizioni Junior, 2023) ho raccolto alcune ricerche etnografiche svolte per la Libera Università di Bolzano su donne con background migratorio, dalle quali è emerso che le violenze vengono lette come un fenomeno trasversale ai diversi contesti sociali. Le ragioni vanno ricercate non solo nell’ambito di specifici codici culturali, ma anche nelle condizioni di povertà, che non permettono alle donne di istruirsi, rendersi indipendenti e potersi separare da un coniuge violento.

Alcune intervistate manifestano incredulità nei confronti del sistema giudiziario italiano che non ha perseguito i loro mariti violenti, contraddicendo la rappresentazione di un sistema istituzionale che si professa capace di tutelare le donne. Per molte, l’argomento culturale rappresenta una scusante per l’esercizio del controllo su mogli o figlie attraverso minacce di violenza fisica e di privazione delle libertà personali, ma anche emarginazione dalla rete familiare e sociale, e paura dell’isolamento.

Allo stesso tempo, emergono situazioni in cui le donne ricevono sostegno morale e materiale da componenti, sia maschili che femminili, della propria rete familiare, che ritengono la violenza subita da figlie e sorelle lesiva dei loro diritti, o contraria ai doveri di un marito o dei dettami religiosi di riferimento. Una dimostrazione della diversità di posizionamenti che si verificano anche all’interno di background culturali condivisi.

Se da una parte, ascrivere la violenza, in particolar modo quella sessuale, a determinati soggetti richiama alla mente le immagini della propaganda fascista contenute nella rivista La difesa della razza – una retorica ripetutamente rievocata dagli attuali discorsi sulla garanzia di una maggiore sicurezza per le donne; dall’altra, la giustificazione culturalizzante della violenza di genere ricalca la deresponsabilizzazione giuridica del femminicidio ben nota all’Italia con il delitto d’onore, rimasto in vigore fino al 1981.

Narrazioni di questo tipo contribuiscono a negare la portata della violenza come questione sistemica, oscurandone le implicazioni e depotenziando la possibilità di mettere in atto misure efficaci per la prevenzione e il contrasto al fenomeno, e per azioni di sostegno nei percorsi di fuoriuscita e autonomia delle donne. 

Note

[1] Secondo la definizione che ne dà Treccani “in antropologia, emico indica il modo con cui gli appartenenti a una cultura ne intendono le concezioni e le manifestazioni” (ndr).

Riferimenti

Marina Della Rocca, Una casa per tutte le donne. Etnografia della relazione di accoglienza con donne migranti in situazione di violenza, Edizioni Junior-Bambini S.r.l., 2023

Marina Della Rocca e Dorothy Zinn, Violenza di genere e empowerment: la prospettiva di donne con background migratorio. Strumenti interpretativi per i centri antiviolenza/ Geschlechtsspezifische Gewalt und Empowerment: Die Sichtweise von Frauen mit Migrationshintergrund Interpretationshilfen für Kontaktstellen gegen Gewalt, BUPRESS, 2021

Kristin Koptiuch, “Cultural defense and criminological displacements: gender, race and (trans)nation in the legal surveillance of U.S. diaspora asians”. In Displacement, Diaspora, and Geographies of Identity (pp. 215–234), a cura di Smadar Lavie e Ted Swedenburg, Duke University Press, 2020

Rayna R. Reiter, (a cura di.), Toward an Anthropology of Women, New York: Monthly Review Press, 1975

Valeria Ribeiro Corossacz, “L’intersezione di razzismo e sessismo. Strumenti teorici per un’analisi della violenza maschile contro le donne nel discorso pubblico sulle migrazioni”, in Antropologia, 15, pp. 109-129, 2013

Michelle Zimbalist Rosaldo e Louise Lamphere, (a cura di), Women, Culture and Society, Stanford: Stanford University Press, 1974

Emily C. R. Tilton, “Rape Myths, Catastrophe, and Credibility”, Episteme, pp. 1–17, 2022

(*) ripreso da www.ingenere.it

In “bottega” cfr La violenza contro le donne non è cultura di Raffaele K. Salinari

 

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