NIcaragua: Tacho, santo subito…

Qualsiasi riferimento a fatti e personaggi della recente cronaca italiana non è casuale.

di Bái Qiú’ēn

Con una Mitigueso calibro 38 (Smith & Wesson), la sera del 21 settembre 1956 a León un giovane poeta spara cinque colpi ad Anastasio Somoza García, che resta colpito da tre pallottole. Il ragazzo si chiama Rigoberto López Pérez ed è immediatamente crivellato dai militari della Guardia Nacional con oltre cinquanta colpi in varie parti del corpo. Il tiranno è trasportato in tutta fretta all’ospedale San Vicente di León, dove poche ore dopo giunge persino l’ambasciatore gringo Thomas Whelan su una Cadilac. Si avvicina al letto e ode la flebile voce di Tacho, con il suo accento italo-statunitense tipico dei malavitosi di Filadelfia: «They’ve got me this time, Tommy. I’m a goner [Stavolta mi hanno beccato, Tommy. Sono spacciato]». Alle 6 del mattino del 22 settembre, di fronte al San Vicente atterra un elicottero Sirkoski che trasporta Tacho a El Retiro, all’epoca il migliore ospedale di Managua (per quanto ancora in costruzione dal febbraio 1946). Ike Eisenhower invia immediatamente un’équipe medica della quale fa parte pure il suo medico personale, di origine italiana. Decidono di trasferire il ferito al Gorgas, l’ospedale militare dei marines nella zona del Canale di Panamá.

Nonostante tutti gli sforzi, dopo essersi confessato con un prete dalla capigliatura bionda, il 29 settembre Tacho smette di respirare. Il suo feretro è trasportato nuovamente a Managua, dove il vescovo Vicente Alejandro González celebra le sontuose esequie pubbliche nella cattedrale, salmodiando: «O Dio, Padre di pietà, che presiedi al supremo eterno riposo sotto le ali protettive della tua presenza, accogli clemente questo tuo degno figlio e che possa riposare in pace. Amen». E, «come è disposto dal Diritto canonico per i governanti che muoiono in comunione con la Santa Chiesa Cattolica, Apostolica e Romana», stabilisce che i funerali debbano svolgersi con gli onori che si devono a un Principe della Chiesa.

Per tre giorni consecutivi gli si tributano le onoranze funebri di Stato, con un rincorrersi inesausto di servilismo e di adulazione.

Un esegeta radiofonico traccia un profilo del defunto: «Più di qualsiasi governante del nostro amato Paese, è l’espressione genuina dell’ambiente nel quale sorge e si sviluppa la sua vigorosa personalità. Nasce tra l’allegro coccodè delle galline, nelle viscere native per eccellenza: la terra. Non si può essere in contrasto con il suolo sul quale si vive, con l’aria che si respira. Dedicata alle attività agricole, l’infanzia si plasma con l’esempio del lavoro costante e fruttifero. Impara a distinguere frutti, verdure e fiori. In campagna non c’è un minuto di luce che possa impunemente essere sprecato. Tutto è attività, laboriosa e alacre. Non si può sperperare il tempo, poiché, mentre trascorre, si sviluppano e crescono piante e animali; ma pure i nemici delle une e degli altri. Cresce il bosco, se si abbandona l’ascia. Quando cala la notte, il corpo domanda riposo e la pace dei campi si rivela la migliore delle coperte. Degno figlio di San Marcos, reso vitale dalle forze essenziali della terra natia. Sorge dal suo grembo per amarla e migliorarla con il lavoro e lo sforzo infaticabile. Poiché tutta la crudeltà che si può abbattere sulla gente di campagna, è contenuta nella parola mutamento.

«La sua personalità non si sviluppa nell’ambiente dei divertimenti urbani, i quali rubano le ore al sonno per chiederlo ai barbiturici. E terminano al bivio inquietante della psicosi. Non conosce i facili ozî dei club cittadini. Sostituire l’anziano padre nella direzione del lavoro agricolo, amministrare la tenuta, trattare con la gente di campagna, sviluppare le forze in un esercizio costante che va dalla semplice marcia alla doma del puledro selvaggio, formano la sua personalità, senza le raffinatezze delle candide accademie, però con vigore e con un chiaro senso della realtà. A contatto con la natura, apprende che non è cattiva né buona. È neutrale, come dice il soldato britannico disperso nella giungla della Birmania. Possiede la nobile abnegazione della gente rustica, conosce le pene e i dolori che rattristano l’animo del suo popolo tanto amato.

«Modesto e generoso, il potere non corrompe, lui ne è l’esempio. Quando un adulatore lo paragona a Bolívar, commenta: “Come complimento, è troppo”. Il suo linguaggio è semplice e gioviale. “El camino malo hay que andarlo ligero”. Il percorso accidentato bisogna percorrerlo in fretta, consiglia a un diplomatico che si riempie la bocca di circonlocuzioni ed eufemismi per spiegare una situazione imbarazzante. Al contrario dei politici che declamano frasi sibilline o ambigue, lui esprime ciò che pensa e desidera. A coloro che approfittano delle posizioni politiche che concede e, ciò nonostante, lo attaccano senza ritegno, dice senza peli sulla lingua: “Voi benedite il latte e maledite la mucca”. Le radici contadine lo rendono semplice. Negli Stati Uniti, circondato dalle alte cariche di quella nazione amica, si muove con la scioltezza di un capo di Stato europeo. Ameno e gentile nei salotti, uomo d’affari penetrante e scaltro, agricoltore sperimentato, capo di agguerrite forze armate, sportivo, pilota e cavaliere intrepido, politico seduttore, oratore dalla parola facile e coinvolgente.

«Figlio di un popolo dove la nobiltà sorge spontanea, con la freschezza del fiore che sboccia nella foresta, non conosce odî di partito né crudele esercizio della vendetta. Reprime con rigore le trasgressioni, ma non eccede ed è sempre pronto a tendere la mano al nemico che ne cerca l’amicizia. Agli attacchi degli avversari, potrebbe rispondere con la frase di un noto politico francese: “Sono un animale molto cattivo: se mi attaccano, mi difendo”. Invece, è tollerante. Dobbiamo essergli grati per avere portato nel nostro deserto un raggio di civiltà. È uno degli esempi umani più straordinari prodotti dalla terra nicaraguense».

Mentre l’anima del defunto sale direttamente in Paradiso “senza passare dal via”, la mattina del 2 ottobre le sue spoglie mortali sono inumate nel Cimitero Generale «San Pedro».

Funerales de Somoza Garcia

Pochi mesi dopo, il 16 febbraio 1957 lo Stadio Nazionale è ufficialmente intitolato ad Anastasio Somoza García.

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