Nowhere – Director’s Cut

susanna sinigaglia

Fog – rassegna di danza e teatro – Triennale

Teatro dell’arte Milano

Nowhere

Director’s Cut

Dimitris Papaioannou

Fra i vari spettacoli che ho visto alla rassegna Fog finora, forse è quello che ho più apprezzato. È una produzione teatrale presentata per inaugurare il Main Stage del National Theatre of Greece – rinnovato nel 2009 – – ideata e diretta dall’artista che in seguito ne ha creato una versione cinematografica. Dimitris Papaioannou ha dedicato la sua parte centrala a Pina Bausch, deceduta quell’anno. È un lavoro particolarmente affascinante perché aggiunge alla magia di uno straordinario teatro innovativo le suggestioni del cinema, riproponendone gli aspetti immaginifici degli albori.

Già l’inizio è spiazzante. Sullo schermo vediamo l’interno del teatro vivacemente illuminato, immagino quello del National, gremito di pubblico. Dalla penombra in cui è immerso il palcoscenico si stacca una figura umana, si avvicina a una piccola porta sita fra il palco e le balconate, entra in uno spazio in bianco e nero e si richiude la porta alle spalle. A questo punto si solleva lo schermo e ci accorgiamo che l’immagine della sala teatrale illuminata era a sua volta proiettata su uno schermo dietro al quale ci appare il palco in ombra, su cui avanza dal fondo la figura che abbiamo visto entrarvi. Poco a poco da una buca sul proscenio escono, come zombie vomitati dal sottosuolo, uomini e donne che vanno a occupare la scena misurandola in tutte le sue dimensioni.

Lo spettacolo ha immagini potenti che il mezzo cinematografico riesce ad amplificare grazie alle sue peculiarità espressive: le può ripetere a piacimento, mostrarle da molte prospettive… sottolinearne l’intensità dei rumori come il tintinnio metallico di tubature di supporto e gabbie che calano dal soffitto, il calcolato movimento di meccanismi di rotazione del palcoscenico, la vibrazione ronzante dei riflettori. Gli uomini e le donne che si muovono lentamente in fila sul palco, entrando e uscendo da una seconda buca rettangolare poco profonda, richiamano alla mente l’immagine vista sui libri di scuola dei primi ominidi che passano da uno stadio evolutivo all’altro fino a diventare l’homo sapiens sapiens (cosiddetto).

Poi a un tratto nella buca vanno a farsi inghiottire alcuni degli interpreti che vi cadono come corpi morti,

mentre sui due rimasti sul palco cala una grande struttura composta da lunghi tubi orizzontali saldati insieme che vanno a definire un sopra e un sotto.

Sotto finisce uno degli interpreti, l’altro invece vi si arrampica per finire a sua volta sotto;

nello stesso tempo la struttura si solleva dando vita a una specie di parete dove cominciano a inerpicarsi altre figure sbucate da chissà dove; mi rievocano una sequenza del film di Wim Wenders su Sebastião Salgado, Il sale della terra.

Lì all’inizio e in grande lontananza si scorgono tanti esserini che brulicano come vermi su una ripida parete rocciosa; mano a mano che la cinepresa si avvicina però, l’immagine si definisce e ci si rende conto che quei “vermi” sono i “formigas”, cercatori d’oro che si arrampicano nel fango lungo la parete scivolosa per procacciarsi qualche scheggia d’oro in un’immane fatica di Sisifo.

Tornando sul palco di Nowhere, ora alcuni interpreti calcano in lungo e in largo lo spazio su una sorta di trampoli-zatteroni quadrati

mentre altri percorrono in alto un corridoio a L con la ringhiera di ferro, che sembra quello di un penitenziario, scendendo e risalendo una scala, sempre di ferro, come in un “moto perpetuo” o una scala impossibile di Escher. Le immagini s’innestano le une sulle altre per accumulo e sottrazione. Ora le figure vanno a sdraiarsi una a una scivolando sul pavimento mentre la struttura di metallo si moltiplica in vari moduli e forma un ingranaggio che sembra schiacciarle in un’immensa tragedia sul lavoro.

 

 

 

 

 

 

 

 

Ora risorgono e si affaccendano tutt’intorno  come se lavorassero in fabbrica alla catena di montaggio. Infine i corpi scorrono e vanno a formare una lunga fila orizzontale di persone che uniscono mani e braccia a intrecciare una specie di corda ondulata davanti alla quale va a collocarsi una ragazza sbucata dal basso.

E qui comincia una specie di rito d’iniziazione con questa lunga catena di braccia e mani che si sdoppia in due braccia meccaniche, tentacoli, che sfilano la maglietta alla ragazza poi inghiottita dietro la fila.

Le succede un giovane; a lui viene sfilata la maglietta, poi i pantaloni lasciandolo completamente nudo, riassorbito dietro la lunga fila di interpreti.

 

 

 

 

 

 

Compare di nuovo la ragazza, le vengono tolti i pantaloni.

La fila si apre, riappare il giovane nudo che delicatamente accoglie fra le braccia la ragazza mentre le altre figure si ritirano lasciando la coppia da sola. Come in uno specchio, sull’altro lato del palco la coppia scorge il proprio doppio; le due coppie si scrutano da lontano, poi improvvisamente il pavimento si scompone in tanti grandi mattoni di cartone che inghiottono la seconda coppia restituendo per un istante il corpo della donna dentro uno dei mattoni diventato un grande scatolone (una cassa da morto?) che subito si richiude, mentre la ragazza della prima coppia osserva e se ne va. È questa la sequenza dedicata a Pina Bausch.

La proiezione si conclude così com’era iniziata:

“Dalla penombra in cui è immerso il palcoscenico si stacca una figura umana, si avvicina a una piccola porta sita fra il palco e le balconate, entra in uno spazio in bianco e nero e si richiude la porta alle spalle. A questo punto si solleva lo schermo e ci accorgiamo che l’immagine della sala teatrale illuminata era a sua volta proiettata su uno schermo dietro al quale ci appare il palco in ombra…”

Ecco sintetizzati in pochi passaggi concetti complessi sulla circolarità della vita e della morte, l’illusorietà e la fallacia dell’immagine.

Nowhere è la scena del teatro: un non luogo che si riempie e si svuota con il succedersi delle stagioni (teatrali), che si srotolano le une dopo le altre come quelle del tempo e della vita.

Susanna Sinigaglia
Non mi piace molto parlare in prima persona; dire “io sono”, “io faccio” questo e quello ecc. ma per accontentare gli amici-compagni della Bottega, mi piego.
Quindi , sono nata ad Ancona e amo il mare ma sto a Milano da tutta una vita e non so se abiterei da qualsiasi altra parte. M’impegno su vari fronti (la questione Israele-Palestina con tutte le sue ricadute, ma anche per la difesa dell’ambiente); lavoro da anni a un progetto di scrittura e a uno artistico con successi alterni. È la passione per la ricerca che ha nutrito i miei progetti.

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