Patrick Chamoiseau, un luminoso raccontare

Difficile «trovarsi un’identità sotto l’occhio fisso della domenica» anche perché Patrick Chamoiseau è educatore giudiziario ma all’occorrenza si agghinda di tante altre maschere, «ego che costruisco e abito»: scrittore, «tracciatore di parole», persino «guerriero dell’immaginario». Quella piovosa e schifosa domenica arriva una richiesta d’aiuto urgente per Caroline, «ragazzina insolita, figlia di poli-tossicomani» che quasi non parla, sembra vecchia e «morta prima del tempo»: ora si è rifugiata fra le rovine, sotto una volta di pietra. Forse l’educatore e/o il noto scrittore riusciranno a farla uscire da lì.

Un’intera domenica ci vorrà per ridare a Caroline i suoi occhi «da bambina» ma anche per svelare le storie nere, atroci celate sotto quella pietra.

Bellissimo questo «Una domenica in cella» (Il maestrale, 320 pagine per 17,50 euri) e insolito sia per trama che per scrittura. Il martinicano Chamoiseau esige lettori e lettrici che non volino alla fine del libro ma gustino e magari ripensino storie e parole. Una metafora (o una magia) può tornare dopo un po’ di pagine: e sarà ben diverso se chi legge ricorda che i sogni diventano prima alberi, poi – siamo precisi – acacie. Molte parole sono abbreviate o storpiate, altre assemblate o inventate: eppure chi legge capisce tutto, merito anche del sudore e della bravura della traduttrice, Paola Ghinelli.

Se non si corre troppo, allora Chamoiseau conquista perché chi legge verrà condotto in “luoghi” (pazzia, magia nera, horror zoofobico) difficili da intravedere figuriamoci da visitare. «Chi potrebbe credere una cosa simile? Solzenicyn, Primo Levi si sbigottivano allo stesso modo in fondo al loro inferno». E chissà se esiste un futuro: «Domani è un coglione. Racconta storie ai fessi».

Si parla di sincretismo quando diversi culti si fondono oppure se una religione si fa contaminare da quelle che altezzosamente di solito vengono chiamate superstizioni. Geograficamente la Martinica è uno di quei luoghi dove un culto “segreto” portato dagli schiavi resiste sotto traccia. Ecco mescolarsi preti e conchiglie, draghi e paradiso, battesimo e polli sgozzati. Più o meno consapevolmente Chamoiseau fa lo stesso con il linguaggio: il nuovo e l’antico si mescolano, dal passato riemergono parole segrete che spesso si confondono con quelle che a noi sembrano normali.

Lo scrittore confessa di seguire 4 luci nel cielo: William Faulkner, Saint-John Perse, Aimè Cesaire, Eduard Glissant. Piccolo inciso personale: conosco bene Cesaire ma poco gli altri tre, dunque sono grato a Chamoiseau anche perché la sua passione mi “costringerà” a scoprirli o frequentarli meglio.

Con quel quartetto (ma di sfuggita anche con Matisse, Fanon, Joyce, Cervantes, Kafka, Kundera…) l’io narrante si confronta mentre gioca anche con il lettore, i suoi dubbi, quel che vorrebbe fare, il poco che sa, il tanto che inventa e magari qui ci starebbe bene un po’ di «flusso di coscienza»… voi che dite? Come avrebbe fatto Faulkner? E sempre sia lodato anche se era troppo spesso ubriaco.

Per esempio, «il lettore sospira contro questo dialogo, lo dice improbabile» e lo scrittore paziente ma anche lui un po’ dubbioso spiega e magari «ridacchia». Con una ultima pagina di sublime ironia. Detto con linguaggio da piscina: il tuffo finale è un triplo salto mortale carpiato e avvitato, altissimo coefficiente di difficoltà per una perfetta esecuzione. Sulla pagina neanche uno schizzo. Massimo dei voti.

Chi legge sentirà palpitare accanto a sé la schiava ribelle o il venditore di porcellane ma anche il molosso o le pietre. Perché ogni luogo, pianta o animale – ci avvisa Chamoiseau-  può essere abitato. Le parole chiave di questo libro sono spesso anche personaggi: paura, «bestie lunghe», Geenna, resistenza, dolore, morte, lo schiatto, animali, un vecchio che si sveglia, pioggia, vento, sassi che cantano e, forse su tutte, la schiavitù. Un mondo dove sembra normale «squartare le membra e i moncherini rimasti tra quattro cavalli lasciati liberi». Persino il “buon” bianco che disapprova … non muove un dito, anzi in quel momento pensa a quanto sia grande la musica di Bach.

Capiremo che Caroline si salva perché le tornano gli occhi «da bambina»: le storie (vere?) che l’educatore-scrittore le ha narrato l’hanno aiutata «a elaborare una scheggia di splendore», a farla uscire dalle rovine che, in primo luogo, erano nella sua testa. A noi Chamoiseau regala ben più che «una scheggia di splendore» perché tutto il suo raccontare è illuminato, pur se le vicende restano cariche di sofferenza. Quasi il contrario di «una poglo» che – lui ci insegna – in creolo è «l’ultima goccia di rugiada, che scintilla, che tremola e che vive senza speranza». Il suo scrivere invece è un gran dono, luce resistente. Senza la pretesa di tutto spiegare: meglio «restare nell’incertezza» perché «terminare o concludere, come capire o conoscere, è rifiutare un nuovo passo e rinunciare alla bellezza».

Da tempo Il maestrale si colloca fra le case editrici che seminano libri di qualità mentre editori ben più grandi si impigriscono e offrono «il già masticato» (rubo la frase a Chamoiseau precisando che lui la usa a proposito di educatori e sociologi) . Questo «Una domenica in cella» è molto più che un buon romanzo. Voi lettori e lettrici suggerite che allora dovrei prendere coraggio e scrivere: «è un capolavoro». Mumble-mumble. Ci penso su e magari vado a vedere se all’osteria qui sotto incontro Faulkner così mi faccio spiegare meglio la sua – almeno la sua – «incertezza identitaria». Male che va mi offre un cicchetto.

(una versione più breve di questa recenzione è uscita ieri sul quotidiano «L’unione sarda»)

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