Quei due mesi di tranques in Nicaragua

Le barricate del 2018 (e il Vietnam del 1967).

di Bái Qiú’ēn

Fu lui che mi disse che la sfera di attività di Kurtz avrebbe dovuto essere la politica “dalla parte del popolo” (Joseph Conrad, Cuore di tenebra).

Por la esquina del viejo barrio lo vi pasar / Con el tumbao que tienen los guapos al caminar / Las manos siempre en los bolsillos de su gabán / Pa’ que no sepan en cuál de ellas lleva el puñal (Rubén Blades, Pedro Navaja).

I

Nell’ormai lontanissimo novembre del 1967 il generale William Westmoreland, comandante delle forze statunitensi in Vietnam, dichiarò che, con le missioni search and destroy «Le fila dei vietcong si stanno sempre più assottigliando» ed erano sul punto di essere sconfitti. «Il general Westmoreland / ha scritto a Lyndon Johnson: / “in fondo alla galleria / vedo già la vittoria mia”» (canzone di propaganda del PCI per le elezioni del 19 maggio 1968).

Poco più di due mesi dopo, alle 2 del mattino del 31 gennaio 1968, quegli scarsi e ormai spossati «nemici» lanciarono un’offensiva in piena regola che coinvolse tutto il Sud e arrivò persino a penetrare nella stessa ambasciata gringa a Saigon, dimostrando la debolezza e le falle degli apparati di vigilanza e di sicurezza. Era il periodo del capodanno lunare: il Tết Nguyên Ðán, comunemente noto come Tết.

Mentre l’Associated Press batté la notizia che l’ambasciata era stata conquistata, ripensando alla precedente sconfitta dell’esercito francese nel 1954, il Presidente Lyndon B. Johnson esclamò «Non voglio un’altra Dien Bien Phu». E ordinò a Westmoreland di riconquistare al più presto il lembo di territorio statunitense conquistato dai vietcong. Ci riuscì nel giro di alcune ore, ma lo smacco fu pesante e contribuì a fare aumentare i dubbi dell’opinione pubblica statunitense sull’opportunità di quella guerra. «Bye bye, bye bye Westmoreland / comprati un cannochiale: / se vedi la vittoria / ci vedi molto male».

Grazie all’effetto sorpresa, le truppe del generale Võ Nguyên Giáp nel delta del fiume Mekong conquistarono ben tredici città provinciali su sedici. I marines e l’esercito sudvietnamita impiegarono oltre un mese per riconquistarle tutte, con l’uso intensivo dell’artiglieria e dell’aviazione, il che provocò un’enorme distruzione oltre a pesanti perdite tra i civili.

Per ciò che concerne la città di Bến Tre, capitale della provincia di Kien Hoa a 85 km dall’allora Saigon, difesa da due battaglioni di marines coadiuvati da consiglieri e da agenti della CIA, fu conquistata dai vietcong il 31 gennaio 1968, grazie alle armi sovietiche e cinesi, e ripresa dai gringos il 5 febbraio. Un anonimo maggiore generale dei marines (Semper fidelis e mai confusi) dichiarò a Peter Arnett dell’Associated Press, arrivato sul luogo il 7 febbraio: «Si è reso necessario distruggere la città per salvarla». Dichiarazione immediatamente riportata dai quotidiani statunitensi. Oltre cinquemila le abitazioni rase al suolo, con un bilancio di circa 14mila morti, almeno 24mila feriti e 30mila sfollati su una popolazione di 75mila abitanti.

I love the smell of napalm in the morning.

II

Esattamente cinquanta anni dopo…

Un dato di fatto innegabile degli eventi del 2018 in Nicaragua iniziati il pomeriggio del 18 aprile, è che ancora alla metà di giugno buona parte del Paese era bloccato dai tranques ovvero le barricate più o meno estemporanee sulle strade di accesso alle varie città, erette a partire dal 10 maggio: la prima fu quella di San Pedro de Lóvago, in Chontales. Nonostante che pochi giorni dopo si fosse svolto l’incontro preliminare del dialogo nazionale tra i protestantes e il governo (ma era evidente che nessuna delle due parti volesse realmente discutere e confrontarsi) vi erano almeno un centinaio di blocchi sul 60-70% delle vie di comunicazione. Il Paese era praticamente bloccato.

Per quanto alcuni tranques venissero demoliti dopo poche ore, specialmente quelli eretti nelle strade di intenso traffico della capitale – dimostrando nei fatti che era possibile impedire che potessero durare a lungo nel tempo – soltanto a metà luglio furono tutti smantellati dalla polizia, la quale all’epoca era composta da circa quindicimila effettivi (nel 2007 erano solo novemila). A questi occorre aggiungere un notevole numero di “volontari”, previsti dall’articolo 23 della Legge 872 approvata il 26 giugno 2014, il quale stabilisce: «Come forma di partecipazione della comunità, viene creata la Polizia Volontaria in quanto organismo ausiliario e di supporto della Polizia Nazionale, composta da cittadini nicaraguensi che prestano il loro servizio su base volontaria e temporanea». Costoro, stando al successivo art. 25, dovrebbero indossare un’uniforme e «supportare solo compiti in attività di prevenzione».

Per quanto l’Innominabile abbia sostenuto la «disponibilità del governo che per favorire il dialogo aveva accettato la richiesta della Chiesa di ritirare la polizia nelle caserme» («Nicaragua, il dialogo tradito», 12 marzo 1919), dovrebbe spiegare come sia stato possibile che negli scontri fossero morti 22 poliziotti e oltre 400 risultassero feriti più o meno gravemente, secondo le cifre ufficiali. Per tenersi in allenamento, si erano sparati tra loro all’interno delle caserme? Gli insorti le avevano bombardate dall’alto usando l’ultimo Push-and-Pull dell’aviazione somozista?

Per quanto, nel corso dei tre mesi in cui il Paese rimase paralizzato, vi siano stati attacchi armati alle stazioni di polizia come quello a Morrito il 12 luglio, il numero dei morti e dei feriti è troppo elevato per essere addebitato a quelle sporadiche azioni. Infatti, a smentire la versione di comodo, nel precedente mese di febbraio del 2019, nel corso di un’intervista video rilasciata al quotidiano norvegese Dagblated, il capo della Polizia Francisco Paco Díaz ammise che in quei mesi sia la polizia regolare sia quella volontaria operarono spesse volte senza divisa e con il volto coperto dai passamontagna. Ovvero, senza alcun segno distintivo e non certo restando chiusi nelle caserme. Riteniamo che il capo della polizia ne sapesse un po’ di più dell’Innominabile.

Lungi da noi fare paralleli con Genova 2001 e con i finti black-block, per non irritare la sensibilità di coloro che ancora credono nell’esistenza di un Nicaragua socialista. Però, vedere circolare giorno e notte camionetas stipate di uomini armati fino ai denti e con il volto coperto, senza sapere chi siano e quali intenzioni abbiano, non è certamente un fatto normale. Né tranquillizzante per nessuno, in nessuna parte del mondo. E le cosiddette «operazioni sotto falsa bandiera» sono assai comuni in ogni conflitto (intendendo il termine in senso lato).

Mi piace l’odore della polvere da sparo al mattino.

III

Daniel era rientrato in fretta e furia da Cuba, dove si era recato per sottoporsi a cure mediche non si sa per quali malattie. La domenica 22 aprile, con un infinito discorso televisivo, annunciò il ritiro della legge di riforma delle pensioni voluta dal Fondo Monetario. Nella speranza che ciò fosse sufficiente per disinnescare le proteste iniziate il pomeriggio del 18 precedente. Però, dopo i morti e i feriti da entrambe le parti, colpiti da cecchini tuttora non identificati, ormai la richiesta generalizzata era un’altra: le sue dimissioni (risposta: «Ni pinta’o») e l’indizione di elezioni anticipate (risposta: Ni verga).

A questo proposito, il solito Innominabile è convinto che le elezioni anticipate si svolgano «solo quando un governo non riscuota più la fiducia del Parlamento» («Nicaragua, le colombe volano alto», 8 novembre 2021). Volutamente non ricordando a se stesso e ai propri lettori che quelle del 25 febbraio 1990 dovevano svolgersi nel novembre successivo. Seguendo la logica stringente del suo ragionamento, in quell’anno ormai lontano il governo del FSLN non aveva più l’appoggio dell’Asamblea Nacional, composta da 96 deputati dei quali 61 sandinisti. Di certo, stando al risultato, non aveva il sostegno del corpo elettorale.

Per la cronaca, tornando al 2018, il Terzo informe del febbraio 2019 redatto dalla Commissione di inchiesta istituita dal governo, a pag. 12 stabilì che i colpi mortali avevano tutti raggiunto con estrema precisione la testa, il collo, il petto o la schiena. Non siamo esperti di analisi forensi, ma ci pare che ciò indichi la presenza di provetti tiratori, cecchini addestrati più che ventenni studenti universitari, bravissimi nell’uso delle reti sociali, ma non certo addestrati militarmente. Poiché il Servicio militar patriótico, ossia la leva obbligatoria istituita nel 1983, è stato abolito nel 1990, se non erano militari in servizio quei cecchini dovevano avere almeno 43 anni. È la matematica, bellezza!

La scelta esecrabile, a nostro avviso, fu quella di non cercare fin dall’inizio alcun dialogo con i protestantes, come fece immediatamente Díaz-Canel a Cuba, recandosi sui luoghi delle proteste a discutere con chi manifestava nel luglio del 2021. Cosa aveva reso impossibile, tre anni prima, a Daniel di fare altrettanto? Cosa gli aveva impedito di chiedere pubblicamente perdono per le esagerazioni della polizia e annunciare un’indagine sulle responsabilità con la conseguente condanna per i colpevoli? Per poi magari assolverli in quanto si erano “legittimamente” difesi? Non abbiamo una risposta certa, ma la convinzione che un sincero atteggiamento dialogante avrebbe in buona parte disinnescato le proteste.

Troppo tardi era iniziato il confronto tra i due schieramenti: il 16 maggio, dopo un mese di manifestazioni e una settantina di morti da entrambe le parti. Nessuna delle due fazioni aveva seriamente intenzione di discutere su come uscire pacificamente da quella situazione di quasi guerra civile. Che di blando non aveva nulla, da entrambe le parti.

In ogni caso, parte della risposta sul perché Daniel non si comportò come Díaz-Canel si può ricercare in un evento di parecchi anni prima.

Tra i vari fattori in gioco, un episodio poco noto della recente storia del Nicaragua risale all’ottobre 2008. Meno di un anno dopo la vittoria elettorale e dieci anni prima delle proteste, Daniel fece installare nove posti di blocco su altrettante strade che conducono al Parque El Carmen, nel centrale barrio Bolonia. Supervigilati da poliziotti armati di AK-47. Impossibile per chiunque non abitasse nella zona o non avesse un permesso speciale, entrare e avvicinarsi all’abitazione del Presidente o a quelle limitrofe. Nei giorni delle proteste del 2018 il perimetro fu ampliato notevolmente e i posti di blocco rinforzati con enormi blocchi di cemento. Chiudendo in una sorta di bunker a cielo aperto tutti gli abitanti della zona. Daniel e Rosario compresi.

Negli anni Ottanta, con una guerra di aggressione in corso e un’opposizione interna che non esitava di fronte a nulla, si poteva camminare tranquillamente davanti all’abitazione di Daniel, allora come oggi protetta da alte mura e con militari armati che dalle torrette sorvegliavano con attenzione chiunque passasse. Non si poteva transitare con veicoli, ma a piedi lo si faceva tranquillamente. Senza che nessuno lo impedisse. Ci ricordiamo che in quel periodo al centro del parque esisteva un edificio, sede dell’Asociación sandinista de los trabajadores de la cultura (ASTC), la cui presidente era ovviamente Rosario, incrociata alcune volte quando andavamo a pranzare nel ristorante annesso.

Se è anche ammissibile che in relazione alle proteste vi fosse la necessità di protezione della famiglia presidenziale, come prevede la Costituzione, ci chiediamo: nel 2008, dieci anni prima, di cosa aveva paura Daniel? Se davvero a governare il Paese era El Pueblo Presidente, di chi non si fidava? Degli “imprenditori”? Della Chiesa? Degli ex contras? Con tutti costoro aveva stretto un patto scellerato di non belligeranza che nella sostanza si può riassumere con: voi fate ciò che vi pare, ma lasciate che io faccia ciò che voglio.

Se gli imprenditori, la Chiesa e gli ex contras non rappresentavano un pericolo, e l’alto muro con i militari nelle torrette continuavano a svolgere il loro compito protettivo, varie volte ci eravamo domandati se i posti di blocco non fossero lì per evitare un assalto in massa da parte del retorico Pueblo Presidente. Se così era, la domanda successiva non poteva essere che: possibile che un Presidente che si autodefinisce socialista e rivoluzionario abbia paura del suo stesso popolo?

Qualcosa non quadrava…

IV

Non eravamo in Nicaragua nell’ottobre di quel 2008. Però, quando ci tornammo alla fine di quello stesso anno, un sandinista con un largo historial ci mise una pulce nell’orecchio. Citandoci la data dell’11 giugno precedente. Quel giorno, il Consejo Supremo Electoral (CSE) aveva cancellato la personería jurídica a due partiti: il Conservatore e il MRS. Con un semplice tratto di penna li aveva resi inesistenti e illegali.

Alle precedenti elezioni del 6 novembre 2006 i conservatori non si erano presentati, mentre il Movimiento Renovador Sandinista aveva ottenuto il 6,44% per il candidato a Presidente e l’8,69% per l’Asamblea Nacional, eleggendo cinque deputati.

Vale la pena aprire una parentesi, per ricordare che persino l’Innominabile, a caldo e prima di ricevere istruzioni dall’alto, scrisse che il risultato elettorale del MRS, ossia dei transfughi dal Frente Sandinista, «atteso tra il 14 e il 18 per cento, si è fermato al 7» («Sandino passeggia in Nicaragua», 7 novembre 2006). E vale ancora di più la pena domandarsi per quale motivo da parecchi anni ripeta con una costanza da certosino che equivalgono a «percentuali da prefisso telefonico» («Nicaragua: vince Sandino», pubblicato il 18 novembre 2008). Con ciò, probabilmente, riuscendo a convincere alcuni propagandati che si trattava di un partito senza alcun seguito.

Ognuno ha la facoltà di pensare ciò che vuole del MRS (oggi Unamos), ma nessuno ha il diritto di raccontare frottole sapendo che la realtà è un’altra. Specialmente da chi si dichiara di sinistra e quando accusa costantemente la destra di diffondere menzogne.

Non insistiamo sull’enormità morale e politica di questa sua menzogna spudorata e reiterata che, non certo per caso né per iniziativa propria, cominciò a raccontare pochi mesi dopo che questa organizzazione politica fu resa illegale e immediatamente dopo l’installazione dei posti di blocco a El Carmen. Se qualcuno crede nelle coincidenze…

Tornando all’argomento principale, quel combattente storico sandinista ci fece rilevare che del MRS facevano parte antichi e sperimentati guerriglieri, alcuni dei quali avevano organizzato e diretto la conquista del Palacio Nacional nella operazione chiamata «Muerte al somocismo». Più nota come «Operación chanchera», operazione porcilaia. Con la quale avevano tenuto in ostaggio i parlamentari somozisti. Era il 22 agosto 1978, un martedì che per il somozismo non fu come quelli precedenti. Il Comandante Uno era Hugo Torres Jímenez e il Comandante Due era Dora María Tellez. Il primo «un trentenne veterano della guerriglia, con una formazione politica efficiente quanto quella militare» e la seconda «di ventidue anni, una bellissima ragazza, timida e assorta, dotata di intelligenza e buon senso», secondo quanto scrisse Gabriel García Márquez poche settimane dopo nella cronaca pubblicata su vari quotidiani latinoamericani e spagnoli.

Nel 2008 Hugo Torres e Dora María Tellez erano dirigenti nazionali di un partito reso illegale e inesistente, tuttavia in grado, assieme ad altri ex guerriglieri usciti o cacciati dal Frente Sandinista nel corso degli anni precedenti, di organizzare e forse di realizzare un assalto in piena regola alla reggia ubicata nel Parque El Carmen, barrio Bolonia.

Di quanto ci disse quel sandinista di lunga data e dirigente di medio livello del FSLN, non abbiamo alcuna prova, se non la coincidenza temporale degli eventi. Per cui, non avendo alcuna intenzione di buscar tres pies al gato sabiendo que tiene cuatro, lasciamo a chi legge ogni ulteriore riflessione.

Il Comandante Uno è morto praticamente incarcerato nel febbraio di questo 2022 e, pochi giorni dopo, la Comandante Due è stata condannata a otto anni di carcere. Mentre il Comandante zero, che nel 1982 costituì il gruppo contra Alianza Revolucionaria Democratica (ARDE, e due anni dopo fondò la Libera Repubblica di San Juan del Norte, due anni dopo la derrota elettorale sandinista del 1990, fondò il partito denominato Movimento de Acción Democrática (MAD) contrario a qualsiasi alleanza con i «corrotti» sandinisti. Ricordiamo come fosse adesso che nel Museo de la Revolución, nei pressi del mercato Huebes, il suo nome e le sue immagini erano scomparse dalla storia raccontata. Era infatti denominato El Traidor, ma dopo il 2007 fu riabilitato; e tutti i morti e le distruzioni cancellate dalla memoria storica. Un altro ricordo è relativo al luglio 1988 quando in bus tentammo di arrivare a San Carlos (Río San Juan), ossia nella zona dove ARDE operava militarmente. Su indicazione dei militari dell’EPS che arrivarono sconsigliandoci di proseguire il viaggio, il bus dovette rientrare a Managua e noi con lui, poiché la notte precedente un ponte su un fiume era stato fatto saltare da un gruppo armato agli ordini dell’ex Comandante zero. Il rischio era che quel gruppo contra avrebbe potuto essere ancora in zona.

Non siamo più tornati al Museo della Rivoluzione, ma abbiamo la convinzione che sia il nome sia le immagini di Edén Pastora siano magicamente apparse e abbiano sostituito quelli di Dora María e di Hugo.

V

Tornando alla storia principale, poiché l’obiettivo fondamentale nel 2018 era quello di non fare aumentare i protestantes e recuperare almeno in parte quella base sandinista (elettori e militanti) che si era unita alla destra nelle manifestazioni, quale strategia fu messa in atto?

Sarebbe un’inutile perdita di tempo ricostruire la cronologia momento per momento, per cui ci limiteremo ad alcuni eventi indicativi.

Per quanto il 19 aprile nel suo quotidiano sproloquio pseudo-poetico e sgrammaticato Rosario Murillo affermasse che si trattava di «piccoli gruppi, piccole anime, tossiche, piene di odio» e solo tra la fine di maggio e l’inizio di giugno cominciasse a circolare la definizione di «puchitos» per i protestantes, i tranques rimasero installati ancora per un mese e mezzo. Il suddetto vocabolo in Nicaragua ha il senso di «pochi, piccola porzione, piccola quantità». Spesso ripetuto come un mantra pure dalla Chayo, in quei giorni dalla fine di maggio in poi, nelle sue omelie tuttora in rete. Alternandolo con «unos pocos», «grupos minúsculos» e una serie infinita di epiteti che con l’idea di dialogo e di pacificazione avevano ben poco a che vedere: il primo fu «vampiros reclamando sangre» (19 aprile 2018). Ben diversa la definizione del presidente cubano Díaz-Canel, ripresa evidentemente da Atilio Borón e che lasciava spazio alla possibilità di un possibile dialogo: «revolucionarios confundidos».

Per quale ragione, essendoci quattro gatti dietro i tranques, rimasero installati così a lungo? Riteniamo che sia una domanda essenziale per comprendere gli avvenimenti del 2018. O non erano quattro gatti o si voleva ottenere un altro risultato. O entrambe le cose.

Per quanto in Nicaragua circolino tuttora parecchie armi di vario tipo, la maggior parte di quelle utilizzate dai tranqueros erano hechizas. Ossia fatte in casa, come i morteros caseros o le bombas de contacto di svariate forme e dimensioni o i cocktail molotov (senza il polistirolo, novità recente degli ucraini). Senza dubbio ciò testimonia il carattere non esattamente pacifico di una parte di quei protestantes. Però, le decine di foto pubblicate sul portale El 19 Digital o su quello della Policía Nacional man mano che venivano recuperate, lo testimoniano al di là di ogni chiacchiera più o meno interessata. I più scettici possono verificare nelle pagine web ufficiali il rapporto tra le armi vere e proprie e quelle fabbricate artigianalmente, essendo ancora in rete.

Una notazione è necessaria per chi non conosce la realtà del Nicaragua: la polvere da sparo è acquistabile tranquillamente, tutto l’anno, per festeggiare un qualsiasi avvenimento, da una celebrazione religiosa a un matrimonio a un compleanno a una laurea. Ogni scusa è buona para hacer bulla, per fare casino. Se poi si capita nel Paese la sera del 7 dicembre, detto Gritería, oltre agli altari religiosi nelle varie abitazioni e nugoli di fedeli che cantano inni religiosi, si vedrebbe il cielo illuminato da razzi multicolori sparati da ogni dove con morteros caseros. Se non si poteva certo proibire la vendita di benzina, era proprio impossibile impedire l’acquisto di polvere da sparo in quei mesi? In base al vecchio detto delle stalle e dei buoi, la Policía Nacional impose alcune restrizioni alla fabbricazione e all’uso… ma dal 6 novembre 2018 al 6 gennaio 2019.

Un’altra notazione che non possiamo evitare è relativa al fatto che se il golpe era davvero organizzato e preparato, come afferma la propaganda, nessuno si è domandato per quale recondito motivo non ci fosse una quantità maggiore di armi vere a disposizione dei golpisti, lautamente finanziati da Washington. Domanda retorica, probabilmente.

Mentre per le masse vi era il costante e reiterato appello al culto degli eroi e dei martiri della lotta anti-somozista, quasi in contemporanea con la definizione di puchitos iniziò a circolare nel Paese la teoria del golpe blando. In precedenza, è possibile che qualcuno ne avesse accennato, ma a mezza voce. Né i nostri informatori in loco né i siti web ufficiali del Nicaragua usarono questa definizione. In giugno era però giunto il momento per lanciare un doppio messaggio politico e, al tempo stesso, avviare la reconquista del territorio. La quale doveva prima passare per la reconquista delle menti, falsificando la cronaca con colori fiammeggianti per continuare a usurpare la qualifica di «interesse generale».

Se per un decennio abbondante la base sandinista era stata totalmente ignorata dal vertice (come la solidarietà internazionale fu snobbata fino al 2016, quando il Venezuela chiuse i rubinetti) a quel punto si organizzarono incontri in tutto il Paese, nel corso dei quali i dirigenti propagandarono la versione ormai ufficiale del golpe blando e la conseguente necessità di bloccarlo con tutti i mezzi. Mezzi militari, non politici. A Granada, per fare un esempio fra i tanti possibili, il sunnominato Edén Pastora disse ai militanti sandinisti, o meglio agli ormai anziani combatientes históricos, che dovevano nuovamente impegnarsi con le armi in quella che era la battaglia definitiva contro i nemici della Rivoluzione che avevano incendiato e distrutto l’edificio dell’Alcaldía (come se lui non avesse fatto anche di peggio per alcuni anni). Incontri e discorsi simili si svolsero in tutto il Paese dall’inizio di maggio in poi, ancora prima dell’installazione dei tranques.

Oltre a ciò, il primo messaggio alla popolazione fu quello che i tranqueros impedivano non solo la libera circolazione ma soprattutto i rifornimenti alimentari, poiché i mezzi di trasporto venivano bloccati e spesso gli autisti erano obbligati a pagare una sorta di pedaggio. Il che era innegabile e sotto gli occhi di tutti, con gli scaffali delle pulperías e dei supermercati se non vuoti per lo meno semivuoti, riportando alla mente gli ultimi anni Ottanta con solo fagioli bulgari in scatola e le poco commestibili opere complete di Kim Il-sung o il libretto verde di Gheddafi. Generando un inevitabile aumento esponenziale dell’avversione nei confronti dei protestantes. Rivelandosi un vero boomerang nei loro confronti, con la conseguente diminuzione del sostegno popolare. Il che rende evidente sia la mancanza di un piano strategico golpista sia l’inesistenza di qualsiasi coordinamento.

Non solo: la violenza e il crimine dovevano prevalere, se non nella realtà, quanto meno nell’immaginario, nella percezione collettiva. In questa situazione di anarchia generalizzata era assai semplice per criminali o vagos, sia singoli sia più o meno organizzati, infiltrarsi e compiere azioni delinquenziali di vario genere. D’altro canto, è indubitabile che il lumpenproletariat fosse attratto da una situazione non governata, che lasciava la possibilità sfogare la propria rabbia e la propria frustrazione con i saccheggi dei supermercati, gli incendi di edifici pubblici, le rapine ai passanti, ecc. ecc. In parte senza dubbio assoldati dall’opposizione con pochi spiccioli.

Sebbene il puro e semplice dominio politico dall’alto (id est: la forza senza il consenso) ha la necessità costitutiva di trovare un rivestimento, ossia una serie di decorazioni morali o pseudo-morali che gli vengono cucite su misura, di certo si commettevano crimini atroci sia nei tranques sia in altre situazioni, con azioni di pretta marca squadrista fino a delitti inauditi, il che rendeva agevole la diffusione della definizione «tranques de la muerte». Ammesso che non si trattasse di operazioni sotto falsa bandiera.

In ogni caso, pur avendone la possibilità e la capacità, la polizia non interveniva per impedire i saccheggi né per sgomberare i blocchi stradali, nonostante si trattasse di puchitos. Lasciando che si sviluppasse una vera e propria giungla nella quale comandavano in troppi per avere una comune linea d’azione: ogni tranque aveva il proprio comandante, autonominatosi tale. La mentalità caudillista non è una prerogativa dei soli piani alti…

A partire da giugno, ancora con il Paese bloccato dai tranqueros, il messaggio essenziale fu quello del banditismo e della criminalità. Fattori innegabili della situazione, ma con ciò cancellando totalmente le motivazioni originarie della protesta, valide o fittizie non importa. E il malessere nei confronti dei protestantes che bloccavano il Paese si generalizzava sempre più.

Il 9 luglio, esattamente due mesi dopo l’installazione del primo tranque, il governo rese noto un comunicato nel quale affermava che «in base alla Costituzione politica» aveva il preciso dovere «di difendere la sicurezza, la pace, il diritto alla vita e l’esercizio dei diritti fondamentali di tutti i nicaraguensi». Come se nelle settimane precedenti non avesse avuto lo stesso obbligo. Misteri del Nicaragua socialista cristiano e solidale.

Stando ai dati ufficiali forniti nel novembre del 2018 dal governo, i danni all’economia nicaraguense causati dalle proteste tra aprile e luglio ammontavano a 961 milioni di dollari: 525 nel settore dei trasporti, 231 nel turismo, 205 nel settore pubblico. Una cifra stratosferica per il secondo Paese più povero del continente.

Parafrasando quel maggiore generale gringo che abbiamo citato all’inizio, nella sostanza la strategia dell’orteguismo fu assai simile: lasciar distruggere il Paese, per poter ergersi a suoi salvatori.

Da parte della polizia e dei combatientes históricos iniziò pertanto lo smantellamento sistematico dei tranques sparsi nei vari Departamentos e il 17 luglio si eliminò l’ultimo, nello storico quartiere indigeno di Monimbó, a Masaya. Poco più di una settimana, un tempo brevissimo che attesta come potessero essere demoliti senza un grosso sforzo, man mano che venivano eretti. Non certo per semplice coincidenza, però, il 19 luglio è la data in cui si celebra il trionfo della Rivoluzione Popolare Sandinista, con la quale l’attuale sistema politico regnante ha poco o nulla a che fare.

Del tutto incapace di presentarsi come un’alternativa viable, la frammentata opposizione la definì «operación limpieza», richiamandosi a quella che nel settembre del 1978 realizzò Anastasio Somoza Debayle nei confronti della popolazione che aveva eretto barricate in tutto il Paese. Per la cronaca e per le strane coincidenze della storia, il vecchio dittatore con le ore ormai contate definiva «aggressione terrorista» e «cospirazione internazionale» quella che era la Rivoluzione Popolare Sandinista.

Ma non è stato l’unico e, anche di recente…

Nel settembre del 2019, quando in Honduras scoppiarono le proteste con tranques, assalti ai supermercati e azioni vandaliche assai simili a quelle dell’anno precedente in Nicaragua, compresi i linciaggi di presunti infiltrati, è evidente che il dittatore Juan Orlando Hernández non poteva parlare di golpe blando. Per cui, dal cilindro magico fece uscire un fantomatico «manuale chavista di destabilizzazione»: «Cosa fanno quando impediscono il passaggio dei produttori agricoli carichi dei loro mezzi, o della signora che va con il suo cesto di tortillas e non la lasciano passare perché la strada è bloccata, o della operaia che vuole andare a lavorare ma non può farlo, perché ci sono pneumatici in fiamme? Che cos’è? È l’attacco all’economia» (conferenza stampa all’ONU, 25 settembre 2019).

Un mese dopo, in ottobre, di fronte alle massicce proteste popolari il presidente dell’Ecuador Lenín Moreno affermò: «Oggi, forze oscure legate alla delinquenza politica organizzata, dirette dall’ex Presidente Rafael Correa, dal Presidente venezuelano Nicolás Maduro, in complicità con il narcoterrorismo, banditi e cittadini stranieri violenti, hanno provocato una violenza come mai si era vista prima».

Negli stessi giorni, il presidente cileno Sebastián Piñera impose lo stato di emergenza con il coprifuoco e la limitazione delle libertà individuali, per fronteggiare le proteste popolari, definendole «gruppi criminali organizzati» e parlando di una non meglio precisata «ingerenza straniera».

Alla metà di novembre la Bolivia si svegliò con numerose barricate sulle strade e la golpista Jeanine Añez accusò chiunque poteva di essere l’organizzatore delle ribellioni, a partire ovviamente da Evo Morales.

Non molto diverse le parole del presidente colombiano Iván Duque riguardo alle proteste tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020. Come a Quito, pure a Bogotá, dietro c’era lo zampino di Caracas…

Più di recente il presidente ecuadoriano Guillermo Lasso ha accusato le organizzazioni popolari di organizzare un golpe, facendo arrestare Leonidas Iza della Conaie (Confederación de Nacionalidades Indígenas del Ecuador) a sua volta accusata di ribellione, interruzione di pubblico servizio e vandalismo.

Ognuno crea propri fantasmi: da un lato si colpevolizza Sharp e dall’altro Chávez o Maduro. O Gesù bambino, o Babbo Natale o il lupo mannaro…

Se poi questi fantasmi che si aggirano per il continente assumono le sembianze dell’hondureña Xiomara Castro, del cileno Gabriel Boric, del boliviano Luis Arce, del colombiano Gustavo Petro e chissà di chi prossimamente in Ecuador, forse significa che questi popoli non hanno creduto alla propaganda dei loro governi di destra. Come non ci ha creduto la solidarietà internazionale.

VI

Un’immagine che ormai fa parte della storia relativa alla guerra nel Vietnam, contribuì a sconvolgere l’opinione pubblica statunitense e mondiale, oltre a dissolvere completamente la retorica dell’esportazione della democrazia e della libertà: la fotografia scattata il 1° febbraio 1968 da Eddie Adams a Saigon durante l’offensiva, la quale immortalava il generale a capo della polizia sudvietnamita Nguyên Ngọc Loan, mentre sparava a sangue freddo nella testa del prigioniero vietcong Nguyễn Văn Lém.

Una vicenda assai simile è relativa all’assassinio a sangue freddo del giornalista statunitense Bill Steward, da parte della Guardia Nacional il 20 giugno 1979. La propaganda somozista, da tempo, diffondeva l’idea che i giornalisti stranieri facessero parte del «complotto internazionale comunista». La scena fu ripresa dal cameraman Jack Clark e pure questo breve filmato fece il giro del mondo (decisamente in modo romanzato, è stata rilanciata nel film Sotto tiro).

Sempre per la cronaca, mentre la famosa foto di Robert Capa che immortalò il miliziano repubblicano antifranchista spagnolo ucciso il 5 settembre 1936 (pubblicata in Life l’anno successivo) pare sia stata una messa in scena, nessuno ha mai avuto dubbi che le suddette immagini di Saigon e di Managua fossero autentiche.

In ogni caso, una delle poche differenze sostanziali tra la storia del 1968 e quella del 2018 è che L.B. Johnson, vedendo scemare sempre più la propria popolarità, con gli studenti universitari a Berkeley che incitavano i marines alla diserzione e Joan Baez che cantava We shall overcome, in marzo annunciò che non si sarebbe ripresentato per la corsa alla Casa Bianca: «Il presidente Johnson / ha detto a tutti quanti: / “adesso me ne vado, / così non si va avanti”».

Qui Antonio Infantino e Enzo del Re, “Il general Westmoreland”
https://youtu.be/AYv3JxNfXw8

Redazione
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