Quello di Carol Maltesi è femminicidio

di «Non una di meno Bergamo»

immagine tratta da unsplash.com

C’è una ritrosia strana nella stampa italiana a chiamare con il suo nome, femminicidio, l’assassinio di Carol Maltesi. Forse perché non rientra nei canoni morali che sembra siano una precondizione per essere definite come una vittima innocente (e lei lo era) della violenza di uomo che la vuole possedere.

Lui, Davide Fontana, avrebbe avuto una relazione con lei in passato. Reale o immaginaria, non ci sorprenderebbe scoprire che lui pretendeva (anche lui, come molti maschi, accampando diritti di proprietà su una donna) di determinare la vita di lei, e non fosse d’accordo con le sue scelte. O non ci sorprenderebbe cogliere una presunzione di proprietà sul corpo di lei, non condivisa e perciò imposta.

Lei era una ragazza giovane con un figlio che ha scelto di sostituire un lavoro precario e mal pagato con il sex work. Niente tratta, solo sex work. Un sex work che i diritti negati da leggi antiquate relegano ancora alla semiclandestinità, allo stigma e all’emarginazione. Alla discriminazione anche da morte. È femminicidio. Chiamatelo con il suo nome. E la sua non era una doppia vita, come con mentalità ottocentesca ci vogliono fare credere i media. Era una madre e una sex worker. La sua vita era una sola. Della quale dobbiamo ancora imparare a riconoscere la dignità. In silenzio e rispetto.

In un video lei parlava così di sé e di come veniva stigmatizzata la sua scelta. «Per combattere determinati pregiudizi noi donne dovremmo essere le prime a sostenerci». «Non ho mai fatto video su Instagram e non sono neanche tanto brava a parlare ma è veramente un tema che mi sta molto a cuore non solo perché l’ho vissuto nel mio piccolo personalmente. Si parla tanto di violenza fisica contro le donne ma è altrettanto importante parlare di quella psicologica perché comunque ti distrugge emotivamente ed è altrettanto grave. E se ne parla molto poco di questo». «Quello che mi è venuto in mente è che manca soprattutto il rispetto fra noi donne in primis. E anche questa è una forma di violenza psicologica. Soprattutto da quando sono entrata nel mondo delle mamme. Le altre mamme sono sempre pronte a giudicarti se prendi decisioni diverse dalle loro, non convenzionali come quella di fare foto provocanti». «Devi puntare il dito e far sentire quella donna meno madre o inadeguata solo perché prima di essere madre è donna. Penso che per combattere determinati pregiudizi noi donne dovremmo essere le prime a sostenerci».

Con lə sex workers, per i loro diritti. Sex work is work. #nonunadimenobergamo

 

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