Rileggendo «Bilal» di Fabrizio Gatti

di Bruno Lai

Bilal.

Viaggiare, lavorare, morire da clandestini,

Rizzoli, Milano 2007.

Fabrizio Gatti non ha bisogno di presentazioni. Giornalista del settimanale “L’Espresso” e collaboratore di altre testate, scrittore, è noto soprattutto per alcuni importanti reportage. Il volume Bilal. Viaggiare, lavorare, morire da clandestini è frutto di un’inchiesta da “infiltrato speciale”. Pubblicato nel 2008, sebbene datato 2007, ha avuto parecchie edizioni e diverse traduzioni. A distanza di tredici anni dalla prima edizione, continua a costituire un documento di straordinaria attualità.

Bilal è il nome che Gatti sceglie per entrare nel cosiddetto “centro di accoglienza” di Lampedusa. Il nome completo è Bilal Ibrahim el Habib. Ma l’inchiesta di Gatti comincia molto prima e decisamente lontano da Lampedusa. Inizia a Dakar, in Senegal, per seguire la rotta dei migranti che dall’Africa subsahariana intendono raggiungere l’Europa alla ricerca di lavoro e futuro.

Il libro Bilal è composto di capitoli, che sono le tappe del lungo viaggio-inchiesta del giornalista italiano, e che costituiscono altrettanti aspetti della questione migranti. Ho deciso di scrivere una recensione “a puntate”: le puntate corrispondono grosso modo ai capitoli di Bilal, ma i titoli li scelgo arbitrariamente io, perché questo prezioso volume, a mio parere, risponde ad una serie di domande che interessano molti lettori. O meglio: questa è la chiave di lettura che ne propongo.

Capitolo 1: Perché vanno via dall’Africa?

Da che parte stia, Fabrizio Gatti lo fa capire subito. Sul volo che dall’Italia lo porta in Senegal viene imbarcato un passeggero che dà in escandescenze. Un ragazzo alto e robusto, che stanno “spedendo” in Africa in esecuzione di un decreto di espulsione. Nel libro è la prima vittima delle disumane leggi contro le persone migranti che l’Italia si è data negli ultimi decenni. Ma questo ragazzo non ha intenzione di tornare in Africa dopo i rischi che ha corso ed i mali che ha subìto per arrivare in Europa. Si gioca l’unica carta possibile nell’assurda situazione in cui si trova. Attua una sceneggiata, si slaccia la cintura di sicurezza, si mette a urlare. Ottiene l’attenzione delle hostess, poi l’arrivo di alcuni poliziotti, poi l’arresto. «Sono tutti felici. Il concetto di autorità è stato appagato, i passeggeri italiani applaudono i poliziotti, il comandante può ridare potenza alle turbine. Si parte. Il colpevole di tanto oltraggio resterà in Italia qualche giorno ancora. Fino al prossimo tentativo di rimpatrio». Il commento di Gatti è amarissimo: «Nell’Italia della mafia, dei corrotti e corruttori diventati ministri e parlamentari, delle loro leggi salvaladri, guai per uno straniero non avere quel pezzo di carta». Il pezzo di carta è il permesso di soggiorno. Concedere a questa persona il permesso di soggiorno sarebbe costato molto meno del rimpatrio forzato, dell’arresto, del giudizio che dovrà affrontare.

A qualcuno leggere questa righe farà storcere il naso, provocherà fastidio. Ma ciò che viene raccontato nel resto del libro, anche se questo giovane non vi compare più, permette di capire. Già: perché vanno via dall’Africa?

In Senegal Gatti si immerge in un mondo a noi sconosciuto, fatto di ritmi e mentalità estranei, differenti dai nostri. Si informa su come raggiungere al più presto la sua successiva destinazione: Bamako. La risposta che ottiene fa riflettere: «Amico mio, in Africa nessuno ha fretta di arrivare».

Prima tappa: l’Ambasciata italiana. Fuori c’è una lunghissima fila di persone che intendono presentare domanda di visto per recarsi in Italia attraverso vie legali. Del resto, migrare è un diritto umano! Qui il nostro si informa: ogni settimana vengono accolte centocinquanta domande di visto di ingresso in Italia. Ma quelle accolte sono una piccola minoranza delle richieste presentate. E non tutte le domande accolte, anche quando complete ed in regola, si trasformano in permessi di ingresso: ogni anno vengono rilasciati soltanto duemila visti, all’incirca. Quindi annualmente decine di migliaia di senegalesi, che hanno chiesto il permesso per venire in Italia legalmente, rimangono delusi: non lo ottengono. Hanno due alternative: o rinunciare, o partire senza autorizzazione, come “clandestini”. Viaggiare senza permesso costa molto di più: analogamente a quel che succedeva in America ai tempi del proibizionismo, oggi le leggi che limitano l’immigrazione favoriscono i trafficanti di uomini, che si arricchiscono sulla pelle dei disperati disposti a tutto pur di poter giungere in Europa in cerca di una possibilità di vivere. Ed i trafficanti di persone non sono gli unici criminali che traggono immensi profitti dalle leggi contro i migranti.

Le città della costa del Senegal, povere, prima vivevano di pesca. L’oceano era generoso. Ma ormai gli europei, arrivati con navi da pesca enormi ed attrezzatissime, tirano su grandi quantità di pesce, e per i pescatori locali non rimane quasi niente. Nemmeno il necessario per un’economia di sussistenza. Chi può, parte.

Gatti incontra tante persone, dialoga con loro, si informa sulle condizioni di vita e sul desiderio di andare in Europa. Ma non tutti vogliono partire. Ousmane, per esempio. Quarantenne, deve la possibilità di mantenere la propria famiglia al possesso di una vecchia e malandata Peugeot. Trasporta persone dalla cittadina in cui vive ad una stazione ferroviaria in un’altra località. Sono migliaia le persone che passano di lì. Molte hanno lavorato duramente e messo da parte un gruzzolo per pagarsi il viaggio in Europa. Non avendo ottenuto il permesso, tentano la via del deserto, pericolosissima. Ousmane non sfrutta le persone che migrano: fa un prezzo onesto e si ammazza di lavoro per continuare a far funzionare la sua automobile, il suo unico mezzo di sostentamento.

Gatti fa una tappa del suo lungo viaggio sull’auto di Ousmane, ma la sorte questa volta si accanisce contro la vecchia utilitaria. In una strada impervia – le strade dell’Africa non sono paragonabili alle nostre – un masso sporgente rompe la coppa dell’olio. L’autista riesce a trovare il proprietario di un furgone che, per un prezzo esagerato, corrispondente a «più di dieci mesi di stipendio di un funzionario statale», accetta di caricare i passeggeri di Ousmane e trainare la sua auto. O si accetta, o si rimane a piedi in mezzo al niente. Più avanti, però, il frontale della Peugeot si stacca. Ousmane piange. Ha perso definitivamente la sua unica fonte di reddito. Prima non aveva alcuna intenzione di lasciare il Senegal; ora potrebbe cambiare opinione. Il furgone non si ferma, prosegue il suo viaggio portandosi via un pezzo del bene più prezioso di Ousmane e della sua famiglia.

Nel villaggio di Ayorou, Gatti si informa sul viaggio attraverso il deserto. Bisogna portarsi appresso almeno quaranta litri d’acqua: il viaggio è lungo e pericoloso, gli racconta Amadou: «Nel deserto puoi anche avere un milione di dollari, ma se hai finito l’acqua non sei nessuno». Amadou il viaggio verso l’Italia l’aveva cominciato. Ma giunto in Libia ha dovuto fare i conti con un razzismo tremendo e con uno spietato sfruttamento dei migranti: «Tutti si fanno pagare le informazioni, tutti tentano di truffarti». Poi non è più partito perché gli accordi tra Italia e Libia hanno modificato la politica di Gheddafi verso gli immigrati: sono cominciate le espulsioni di massa. Chi aveva attraversato le interminabili distese sabbiose rischiando la vita, doveva nuovamente giocare la roulette russa del deserto per rimpatriare, per tornare alla miseria da cui era fuggito.

Amadou racconta il viaggio di ritorno: «Nel deserto tra Madama e Dirkou [località assai note a chi vuole andare in Europa] abbiamo trovato un camion fermo per un guasto. Erano bloccati lì da trenta giorni. C’erano anche bambini, erano stremati. Abbiamo lasciato acqua e pezzi di ricambio. Molti camion viaggiano sempre con i pezzi di ricambio. Altri, i più vecchi, quelli che più ne avrebbero bisogno, partono senza». Ed i morti lungo la rotta del deserto non si contano.

Ma, oltre al cambiamento di atteggiamento del governo libico nei confronti dei migranti, Gatti desidera sapere perché Amadou, a differenza di tanti altri, in Libia ha rinunciato ad attraversare il Mediterraneo: «Ho avuto paura», risponde. Era tutto pronto, aveva già pagato il viaggio, molto più caro di un biglietto aereo. Ma quando ha visto in quali condizioni avrebbe dovuto affrontare il mare, ha rinunciato: «Quella non era una barca. Era un rottame. Non ho potuto contare, ma eravamo sicuramente più di duecento. Tutti per quel rottame. Ci stavano caricando come bestie. E io ho avuto paura». «Io da quella notte vivo nel rimorso di non aver avuto abbastanza coraggio. Non saprò mai se ho fatto bene o male a non imbarcarmi. L’Italia ormai era a pochi giorni. Avevo pagato millecinquecento dollari e quei bastardi si sono tenuti tutti i soldi».

Tra coloro che desiderano l’Europa ci sono anche donne e ragazze. Come Safira, che Gatti incontra a Niamey, un’altra tappa del suo lungo viaggio-inchiesta. Safira è giovane e bella, gli chiede di portarla con sé in Europa. Faceva l’indossatrice per riviste di moda francesi. Le avevano promesso che l’avrebbero portata a lavorare a Parigi. Per cinque anni ha posato per i francesi: «Mi davano pochi spiccioli. Però per due settimane mangiavo e dormivo gratis». Il sesto anno l’hanno scartata perché «troppo vecchia». «A ventidue anni, capisci? L’Europa mi ha cercata, ha usato la mia bellezza». «A ventidue anni in Niger sei vecchia, ma in Europa no. Nemmeno a trent’anni. Per questo voglio che tu mi porti in Europa. Se mi porti, faccio l’amore gratis con te tutte le volte che vuoi». La bella Safira: uno dei volti, una delle vite che Fabrizio Gatti ha incrociato ed ha dovuto lasciare lì, al loro destino.

Capitolo 2: Come pagano il viaggio?

Ad Agadez, ultima tappa prima del deserto, ecco i camion che affrontano la sabbia ed il caldo rovente. Quelli pronti per la partenza hanno le fiancate ricoperte da circa centocinquanta bidoni dell’acqua. Ogni bidone è rivestito di cartone e canapa, per proteggerlo almeno in parte dal sole. Sul cartone il nome del proprietario. Da Agadez partono ogni giorno quattro o cinque camion; quindicimila persone al mese. «Devi vedere, a volte salgono donne con bambini così piccoli che ti chiedi come possano arrivare vivi dall’altra parte del deserto».

Ad Agadez il traffico di esseri umani è palese: niente avviene di nascosto. Conoscere i trafficanti è facile. Anche se entrare in Libia è illegale, una volta che ci si arriva, si è lì e basta. «Forse per te sarà più difficile perché sei bianco – gli dice Soufiane -. Comunque sul camion è meglio andare se hai il passaporto. Gli altri senza documenti vanno con i fuoristrada. Costano il doppio dei camion, evitano la pista controllata dai militari. È più pericoloso però. Stamattina ne è partito uno con trentadue persone. Li hanno caricati perfino sul tetto». «Certo, se si rompe qualcosa o si perdono, sono trentadue morti. Più gli autisti. È già successo molte volte».

Se gli africani che tentano la rotta del deserto mettono a repentaglio la propria vita, anche il giornalista italiano che intende documentare quel che avviene lungo la rotta dei migranti corre i suoi rischi. Dal Niger deve andare in Libia. Ma «attraversare la Libia senza essere sorpresi dai militari è impossibile. Un bianco non può fingersi immigrato lungo una rotta su cui viaggiano soltanto cittadini arabi e africani». «La Libia non vuole testimoni. Un indizio sul coinvolgimento di esercito e autorità nel traffico di clandestini lungo la via che già duemila anni fa riforniva di braccia l’impero romano. Ancora adesso la chiamano la Pista degli schiavi».

Ad Agadez Gatti conosce altri giovani che tentano il viaggio per l’Europa. Gatti li ascolta ammirato. Sono bloccati ad Agadez perché sono stati rapinati dai militari, che hanno preso i loro soldi e lasciato partire l’autobus senza di loro, con a bordo i loro bagagli e documenti. Ma, nonostante queste disavventure, frequentissime per chi pratica questa rotta, «la loro mente è ancora piena di progetti, di sogni, di voglia di libertà». Che cosa li trattiene ancora lì? «La mancanza di soldi. La fame. La polvere. Il costo del biglietto sempre più lontano. Ecco da dove arrivano gli schiavi del ventunesimo secolo». Gatti fa un’altra amara riflessione: «La tragedia è che nessuno dirà di loro che stanno facendo qualcosa di eroico. Nessuno riconoscerà mai che il loro è un gesto definitivo […]. Se arriveranno vivi in Europa, li chiameranno addirittura disperati. Anche se sono tra i pochi al mondo ad avere ancora il coraggio di giocarsi la vita carichi di speranza».

Il giornalista vorrebbe dormire con loro all’autogare. Glielo sconsigliano. Lui è bianco. Chi lo vede non può non pensare che debba avere un bel po’ di soldi con sé. Potrebbero ucciderlo nel sonno per rubargli tutto quel che ha. Meglio non rischiare la vita inutilmente. Dormirà in una pensione. E quando finalmente partirà, lui che può acquistare il biglietto, dovrà comunque stare sempre all’erta. «Sui camion dovrai stare attento ai militari e ai poliziotti, sono loro i veri banditi. A ogni posto di controllo rapinano i passeggeri». Ad ogni tappa, lungo il deserto, la stessa storia: i militari fermano i camion, fanno scendere i passeggeri, li picchiano finché questi non danno loro dei soldi.

Non tutti coloro che lasciano l’Africa provengono da famiglie povere. Gatti conosce anche Daniel e Stephen, nigeriani benestanti. Studiavano all’università, ma quando le tasse universitarie sono diventate insostenibili anche per loro, hanno deciso di partire. In Europa vorrebbero lavorare per pagarsi la prosecuzione degli studi. Ovviamente, hanno chiesto il visto per l’Italia, me è stato loro negato, come alla maggior parte dei migranti africani. Sanno benissimo che possono morire, sia nel deserto, sia nel Mediterraneo. Lo sanno anche le loro famiglie. Gatti chiede se le famiglie condividano una scelta così rischiosa: «La mia famiglia, fratello, è felice», interviene Billy, un altro giovane migrante: «mi ha dato i soldi per partire. Centomila naira, sono circa novecento dollari. Mio padre ha venduto tutto quello che c’era in casa. Il motorino, il videoregistratore, la tv, il frigorifero. Per loro sono un investimento. Perché se trovo lavoro in Europa, poi li posso aiutare». I genitori, però, non immaginano le sofferenze e le angherie che affronta chi tenta questo viaggio.

Le storie che raccontano i giovani eroi che Gatti incontra prima di intraprendere la rotta del deserto, sono diverse, ma hanno un comun denominatore: l’estrema miseria da cui fuggono. Johnson al suo paese faceva il meccanico, lo pagavano quattro dollari a giornata. «Una sera sono tornato dal lavoro e ancora una volta non c’era abbastanza da mangiare. Quella sera ho deciso di andarmene. Dovevo trovare il modo di aiutare la mia famiglia. Mi basta arrivare in Olanda, so che il lavoro è là».

Un altro dei tanti incontri è Splendour: «Ho 21 anni, sono scappato dalla Sierra Leone per non combattere la guerra civile. Sono contro la guerra, gli omicidi, la violenza. In questi anni ho girato tutta l’Africa. Dal Sud Africa al Marocco, sempre via terra». Sì, perché un altro dato, che in Europa pochi conoscono, è che le migrazioni africane avvengono in gran parte all’interno dell’Africa stessa. Soltanto una minoranza di persone tenta il pericoloso viaggio per l’Europa. «Il motivo dell’immigrazione è lo schifo che c’è in Africa. Guarda la Nigeria. Dicono che l’economia nigeriana va bene. Ma i guadagni sono nelle mani di venti famiglie soltanto. Gli altri cosa fanno? Scappano».

Gatti, pur essendo italiano, ha difficoltà ad ottenere un visto di ingresso dal consolato libico. Il perché glielo spiega un tuareg: «Normale che non ti diano il visto. Il deserto è attraversato da traffici di ogni tipo». Non vogliono testimoni! Tra i traffici illeciti che passano di lì c’è quello di sigarette. I camion che trasportano sigarette caricano anche qualche clandestino, per guadagnare un piccolo extra. Sono il mezzo di trasporto più comodo attraverso il deserto: pochi passeggeri, acqua in abbondanza. Ma Gatti vuole fare il viaggio con i camion che portano centocinquanta persone per volta, quelli che usa la maggior parte dei migranti. Il tuareg, Yaya, lo porta a fare un giro e gli mostra dei capannoni in ottimo stato, «i più moderni di tutto il Niger. Aria condizionata, climatizzatori, ambiente pulito. Hai mai visto un nostro ospedale? Fanno paura. Ma le sigarette le trattano come tratterebbero un re. […] Il governo incassa tasse forfettarie dalle società commerciali. Sappiamo che le società sono inglesi e libanesi». Il traffico di sigarette rende molto perché poi vengono vendute in Libia, dove un pacchetto arriva a costare anche sette, otto euro. Ma c’è dell’altro. «Il contrabbando di sigarette è una copertura». Spesso, sotto le stecche di sigarette, nascondono cocaina. Un traffico più rischioso, ma anche molto più redditizio.

Yaya è una preziosa fonte di informazioni. Conosce bene quel che succede lungo le rotte del deserto. Racconta un altro tragico capitolo di questi flussi migratori: le donne. «Poverette. La migrazione femminile segue regole diverse dagli uomini. Si devono affidare al bouga, la guida. E il bouga le accompagna fino a Tripoli, due o tre per volta. Ma durante il viaggio sfrutta le ragazze. Un giorno a Dirkou ho visto una bambina di quattordici anni. A ogni tappa le ragazze vengono fermate anche due o tre mesi. Perché devono rendere due o tre volte il costo del viaggio». Vengono fatte prostituire in ciascuna delle molte tappe del loro viaggio. E di quel che guadagnano vendendo il proprio corpo, a loro restano le briciole. Mettere da parte l’occorrente per poter proseguire il viaggio è assai faticoso. Nonché rischioso: «Le donne pagano il loro viaggio con la salute». Alcune non si prestano. Ma l’alternativa è continuare a fare una vita di fatica e miseria.

Ovviamente, non tutte le ragazze o le donne che desiderano un futuro migliore si prostituiscono. Catherine si considera fortunata, fa la cameriera in un ristorante, “la tuareg”. La paga è di diecimila franchi al mese, quindici euro. «Dove dormo, alla Casa del Camerun, mi chiedono diecimila franchi al mese per affittare un tappeto per terra. Ma almeno mi tengo fuori dall’autogare». Il parcheggio, infatti, ha fama di essere assai pericoloso.

Durante la sosta ad Agadez, un altro morto. Si chiamava Kofi, un giovane del Ghana. Non aveva soldi per mangiare e stava male. Non poteva permettersi l’ospedale. Ha chiesto aiuto al guardiano dell’autogare, ha chiesto un dottore. Ma quello ha chiamato la polizia, che è arrivata quando il giovane, che da giorni beveva solo acqua e zucchero, era ormai cadavere. «Questa è l’Africa, fratello. In Europa avrebbero fatto arrivare un’ambulanza. Kofi si sarebbe salvato. L’Africa è così per colpa dei governi. Della corruzione. Del potere in mano a pochi. Delle divisioni. Del fatto che invece che insegnarti a pescare, i governanti ti vendono il pesce che loro importano».

Tra le disgraziate costrette a prostituirsi, nella tappa successiva, a Dirkou Gatti incontrerà Sophie, una bambina di quindici anni. «Lei il viaggio lo paga in natura. Ripartirà per la Libia soltanto quando avrà reso cinquantamila o settantamila franchi, più del doppio del biglietto. A Dirkou una prostituta costa cinquecento franchi, meno di un euro. Sophie dovrà concedersi centoquaranta volte prima di andarsene». Viene dalla Nigeria, dove non c’era lavoro né possibilità di sopravvivere. «In Nigeria ci sono persone che vengono nei villaggi alla ricerca di ragazze come me. Prima parti, poi paghi con il lavoro». Gatti la informa che dovrà continuare a prostituirsi anche una volta arrivata in Europa. «Tornare in Nigeria? Non ci penso nemmeno. E poi io non sono più mia. Dovresti comprarmi […]. No, non torno indietro. Voglio andare avanti. […] Spero di riuscire a vivere abbastanza. A non ammalarmi prima di vedere l’Italia». Le hanno dato una tessera sanitaria, infatti. Ma non per curarsi. Per dimostrare ai clienti di essere sana. «Perché una prostituta malata qui non si cura. Si butta. Se si ammalano, le cacciano».

Capitolo 3: Come attraversano il deserto?

Arriva il giorno della partenza. Su un camion, stracarico di persone. Un ammasso di centosessanta persone, più l’italiano, che si nasconde dentro un boubou ed una tagelmust, per non farsi riconoscere come bianco e per proteggersi dal sole cocente. Il boubou è una lunga tunica tipica del Senegal, mentre la tagelmust è la sciarpa con cui i tuareg avvolgono la testa, lasciando soltanto una fessura per gli occhi. Un bianco deve nascondersi, altrimenti può essere facile bersaglio dei predoni, che si possono incontrare lungo il deserto.

Mezz’ora dopo la partenza, la prima fermata: un posto di blocco militare. Gatti assiste ad una scena che si ripeterà ogni volta, con poche variazioni. I soldati fanno scendere i passeggeri. Vogliono soldi. A quelli più vicini fanno togliere le scarpe e tagliano le suole, per verificare se nascondano denaro in un doppiofondo. Chi è scalzo viene picchiato brutalmente. Alla fine quasi tutti cedono e consegnano diecimila franchi a testa, circa quindici euro. Non è tanto, i militari sono pagati pochissimo. Ma il magro bottino va moltiplicato per i tanti camion che vengono fermati ad ogni posto di blocco. Ogni giorno quasi mille persone passano sotto il vaglio dei soldati. «Dopo un’ora di botte e perquisizioni si risale sull’autocarro. In venti restano a terra. Uno solo si avvicina per riprendersi il bagaglio. Gli altri non hanno nulla. […] “Li hanno fatti scendere perché non avevano soldi, scarpe o indumenti da regalare ai poliziotti” dice qualcuno. Tornano a piedi ad Agadez. Anche se avevano pagato il viaggio». Come in un tragico gioco dell’oca, devono ripartire dal via. Di nuovo, senza niente.

Ma perché i militari si accaniscono così contro queste persone povere che desiderano arrivare in Libia, per poi tentare la traversata per l’Europa? Anche qui giocano un ruolo fondamentale i pregiudizi. «Questi se possono pagarsi il viaggio fino in Europa vuol dire che sono ricchi. È giusto che lascino qualcosa a noi che rimaniamo in Africa e non abbiamo nemmeno i soldi per partire». Gatti replica: «Sergente, se continuate a trattarli così, questi in Europa arriveranno morti. Per partire non bastano i soldi. No, per partire servono coraggio e voglia di libertà. Forse è per questo che voi sergente siete ancora qui».

Lungo la “rotta degli schiavi”, le tappe controllate da polizia o esercito sono decine. Attraversare il deserto, oltre ad essere rischiosissimo, costa parecchio in botte subìte e denaro perso.

L’automezzo prosegue la marcia anche durante la notte. I conducenti si danno il turno. I passeggeri cercano di non addormentarsi. «Ci si addormenta a piccole dosi», c’è il rischio di cadere giù dal camion, che non si fermerà a raccoglierti. È la morte certa. «Questi ragazzi sanno che nessuno, qualunque cosa succeda, verrà mai a tirarli fuori. Nessun padre. Nessun fratello. Nessuno Stato. Nessuna organizzazione umanitaria. Nessuno dei governi, che con le loro scelte corrotte li hanno portati qui, piangerà mai la loro morte. Da quando sono partiti sono figli di nessuno. Qui nel deserto siamo tutti figli di nessuno». E infatti non tutti arrivano a destinazione, in Libia. E di quelli che arrivano in Libia, non tutti riescono a proseguire per l’Europa, perché anche dalla Libia devi pagarti caro il viaggio. Una parte di questa immensa quantità di persone riuscirà a prendere il mare per l’Europa, ma non tutti arriveranno. «Il dodici per cento delle persone che partono dalla Libia o dalla Tunisia non arriva in Europa. […] Il dodici per cento muore durante la traversata. Qualcuno cade in mare. Altri ancora muoiono di sete e fame quando perdono la rotta. Altri colano a picco con tutta la barca». Però il restante ottantotto per cento ce la fa. Quelli che affrontano questa dolorosa odissea lo fanno spinti da questa speranza.

Anche nel deserto si muore spesso. Soprattutto se si viaggia sui fuoristrada. A volte gli autisti fanno scendere i passeggeri di notte, ancora lontani dalla meta, con la scusa che, se si avvicinassero di più, verrebbero arrestati dai militari. Ma una volta al livello del suolo, le luci che prima si vedevano non si vedono più. Si procede alla cieca, senza scorte d’acqua, che peserebbero troppo. «Finisce che si perdono. Finisce che una notte di cammino non basta. E quando sorge il sole diventa impossibile vedere le luci, anche se sei nella direzione giusta. Finisce che non ce la fanno più. Magari girano intorno per giorni. E finisce che muoiono».

Alcuni compagni di viaggio danno a Fabrizio Gatti il loro indirizzo e-mail, per rimanere in contatto dopo. «Questi ragazzi non hanno più casa. Non sanno dove saranno tra un mese. Cosa faranno. Dove andranno ad abitare tra un anno. Ma tutti hanno una email. Il web, la rete, Internet per loro sono l’unica dimensione stabile. L’unico spazio dove poter avere un indirizzo, lasciare traccia, esistere».

Dopo il deserto, ci sono i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Soprattutto Tunisia e Libia. A Sfax, in Tunisia, Gatti conosce un altro aspetto dell’incessante flusso migratorio che dall’Africa porta in Europa lungo la rotta mediterranea. Sfax prima viveva di pesca. La sua flotta contava tantissimi pescherecci di legno. Di legno, perché una nave in legno non muore mai. Può sempre essere riparata. Ma da qualche anno i pescherecci malridotti non vengono più aggiustati: conviene di più venderli così come sono. Prima non li avrebbe acquistati nessuno. Ora li comprano i trafficanti di esseri umani. Li caricano fino all’inverosimile e li affidano al mare. I passeggeri pagano in anticipo, anche mille dollari a testa. Se poi si inabissano, i trafficanti hanno comunque incassato. Ed è un affare molto remunerativo. I rischi sono tutti per i passeggeri. Dalla Tunisia come dalla Libia. La polizia libica non fa niente per contrastare il traffico di esseri umani, né per arrestare i trafficanti. Comprensibile che Gatti rinunci a fare il viaggio via mare.

Capitolo 4: Come vivono in Italia da “clandestini”?

A Lampedusa arrivano la maggior parte delle persone che partono dalle coste libiche e attraversano il Mediterraneo per giungere in Europa. C’è un centro di detenzione dove vengono rinchiusi esseri umani che non hanno commesso alcun reato. E che nessun osservatore esterno può visitare senza preavviso. Gatti intende entrarci e vedere con i propri occhi quel che succede all’interno.

Nel 1992 l’Italia ha chiuso i suoi zoo perché i cittadini non sopportavano di vedere gli animali in gabbia, privati della libertà, sofferenti. «Nel 1999, appena sette anni dopo, l’Italia e i milanesi hanno invece costruito una grande gabbia e ci hanno messo dentro uomini e donne. E nessuno dei milanesi, degli italiani sembrava più indignarsi. Adesso di gabbie come quella ce ne sono in tutta Italia. E la gabbia di Lampedusa è diventata una macchina infernale. L’ingranaggio centrale delle deportazioni di massa messe in atto dall’Italia con la complicità della Germania e dell’Unione Europea. La più grande deportazione che coinvolge l’Europa dalla fine della seconda guerra mondiale. Il tradimento degli ideali di libertà, uguaglianza e fraternità. Decine di migliaia di deportati in cambio di contratti per l’importazione di gas dalla Libia e per l’ammodernamento dell’industria petrolifera libica. […] La gabbia di Lampedusa oggi è diventata la vergogna della nostra democrazia. La più grande menzogna dell’Europa unita che stiamo costruendo. Ecco perché mi interessa sapere cosa succede là dentro».

Per entrare nel centro di detenzione di Lampedusa Gatti diventa Bilal Ibrahim el Habib, chiaro di pelle perché curdo iracheno. Attua uno stratagemma ingegnoso. Riesce ad essere portato nel centro come naufrago, da clandestino. Trova centinaia di persone migranti sedute sull’asfalto in file da dieci. All’ora di pranzo riceve il mangiare, che lui e gli altri detenuti dovranno consumare seduti per terra, al sole. Fa molto caldo, ma nessuno può cercare l’ombra o un minimo di comodità. Quando deve andare ai gabinetti, gli si presenta un altro spettacolo indecente. I bagni sono in un prefabbricato, diviso in due settori. «In uno, otto docce [otto docce per diverse centinaia di persone; a volte anche più di mille] con gli scarichi intasati. Quaranta lavandini. E otto turche, di cui tre stracolme fino all’orlo di un impasto cremoso». Il liquame puzzolente alimenta due rigagnoli che finiscono nella zona dove le persone rinchiuse sono costrette a sedere a terra, alcune proprio sopra quel liquido. L’altro settore ha cinque water, cinque docce, otto lavandini. Per centinaia di “ospiti”. Poco tempo prima della “visita” di Bilal un europarlamentare della destra xenofoba ha avuto la sfacciataggine di dichiarare che Lampedusa è un albergo a cinque stelle! La maggior parte delle persone imprigionate a Lampedusa viene da case pulite, ma sull’isola ha perso ogni diritto.

Adulti e minorenni sono detenuti insieme, nonostante sia vietato dalla legge. Bilal, che finge di non capire l’italiano, ha modo di ascoltare quel che si dicono le guardie e gli operatori del centro. Così sente di uno scafista egiziano che da Lampedusa è stato trasferito a Crotone. Era sbarcato con uno zainetto con cinquemila euro all’interno. Non è stato fermato, ma è stato rimpatriato a spese dell’Italia. Quando si informa di come sia possibile telefonare all’esterno, Bilal fa un’altra scoperta interessante. Le schede le vendono gli scafisti egiziani: venti euro per una scheda da tre euro. Gli scafisti egiziani sembra che si trovino proprio bene anche all’interno del centro di detenzione.

Tra le guardie che si alternano nei turni di sorveglianza, Bilal nota delle differenze. C’è un gruppo comandato da un brigadiere. «Sono militari in uniforme antisommossa. Ma non gridano. Non insultano. Non umiliano nessuno. […] Parlano dando del lei. Trattano gli stranieri da uomini. Allora è ancora possibile essere uomini qua dentro». Ma altri giorni la musica cambia. Un altro gruppo di guardie vessa in continuazione i detenuti. Durante le interminabili conte, costringono le persone a sedersi nei liquami che tracimano dal prefabbricato dei gabinetti. Irridono gli stranieri. Che non possono capire le parole, ma decodificano benissimo il non verbale. Di sera arrivano circa 180 nuovi migranti. Vengono perquisiti e maltrattati. Ricevono ordini urlati in italiano, non capiscono e vengono presi a schiaffi. Molti vengono fatti passare attraverso un corridoio umano, ovvero tra due file di militari: e sono altri schiaffoni in testa. In diverse occasioni Bilal assiste a pestaggi gratuiti, del tutto ingiustificati. Pare che anche i sorveglianti in divisa abbiano i loro disagi: da una telefonata che riesce ad origliare, Bilal scopre che sono mesi che fanno gli straordinari, ma non ricevono l’incremento di paga.

Dopo qualche giorno, Bilal viene liberato con l’ordine di lasciare l’Italia entro meno di una settimana. Gatti può tornare per breve tempo alla sua vita normale. Ma la sua indagine non è terminata: vuole documentare come vivono le persone straniere che lavorano in Italia, nell’edilizia al Nord o nell’agricoltura al Sud; quei lavoratori di cui l’Italia, in questo momento, non può fare a meno. Come vivono gli stranieri che sono riusciti ad arrivare in Italia dipende da una legge, la Bossi-Fini, che è perfino peggiore delle precedenti leggi contro i migranti. «L’ultima legge sull’immigrazione voluta dal governo di centrodestra è spietata. Perfino più crudele di quella precedente», scrive Gatti; «è stata approvata anche da parlamentari sotto inchiesta per mafia o per altri gravi reati. Ma non poteva che essere così. Basta sapere chi sono i due ministri che danno il nome alla legge sull’immigrazione. Uno è il capo di un partito xenofobo. L’altro è un ex camerata», ovvero un nostalgico dei crimini fascisti.

È di nuovo Bilal a cercare lavoro. In una strada del Nord Italia, di notte piena di ragazze africane costrette a prostituirsi. All’alba le ragazze vengono sostituite da altri schiavi: i maschi che cercano lavoro. Bilal si confonde tra loro. Un furgone si ferma: il conducente gli domanda che cosa sappia fare e gli propone un lavoro: «Se ti prendo, farai una settimana di prova. Poi l’accordo è di due euro l’ora»; «la settimana di prova è gratis». Primo assaggio del caporalato nell’edilizia del Nord-Est. «Si stima che nell’edilizia il caporale più malmesso incassi tra i duecento e i trecento euro al mese da ogni muratore che controlla. Una squadra di dieci operai può rendere fino a tremila euro al mese. Soldi che ogni manovale deve sborsare in contanti, prelevandoli dalla sua busta paga. Oppure vengono trattenuti all’origine». Per le imprese che sfruttano questa manodopera sottopagata, i margini di guadagno sono altissimi. Diventa facile creare fondi neri con cui corrompere i politici e chi dovrebbe controllare. «Derubano il Paese. Mettono in ginocchio le sue politiche sociali sottraendo ricchezze al fisco, alla sanità, alle pensioni». In queste condizioni, l’imprenditore che volesse rispettare la legge verrebbe sconfitto dalla concorrenza sleale di chi, invece, la viola impunemente.

Ecco a che cosa servono le leggi contro le persone migranti! «La disponibilità di lavoro senza regole è il vero motore dell’immigrazione clandestina. E queste leggi xenofobe che pretendono di sigillare le frontiere non aiutano. Anzi, arricchiscono proprio la mafia e i caporali. Perché alla fine, tra burocrazia, code in ambasciata e cavilli, è più facile arruolare schiavi clandestini che assumere manovali con i documenti in regola».

Dopo aver visto quel che succede al Nord, Bilal si sposta in provincia di Foggia, «nel Sud più agricolo d’Europa». Anche qui si capisce quale economia alimentino le ottuse restrizioni sugli ingressi di persone dall’estero. «La Puglia, tutta la Puglia, quest’anno riceverà poco più di millecinquecento permessi di ingresso. Ma la sola provincia di Foggia ha bisogno tra i cinquemila e i settemila braccianti. E poi ci sono le altre province. Lo dicono le associazioni degli agricoltori. Con quello che pagano a giornata, gli italiani non vanno più a raccogliere ortaggi». Bilal si organizza con una bicicletta e si infiltra tra i braccianti agricoli. Se lavori o meno lo decidono i caporali, anche qui, e si accaparrano la quota maggiore delle paghe. Il primo che incontra gli chiede se può procurare una ragazza al suo capo: «Mi devi portare una tua amica. Per il padrone. Se gliela porti, lui ti fa lavorare subito. Basta una ragazza qualunque». Poco distante c’è una coppia di braccianti ventenni. Il caporale spiega a Bilal che hanno il lavoro perché «lei con il padrone c’è stata». I caporali hanno un ruolo cruciale: senza di loro, i datori di lavoro non saprebbero come reclutare i braccianti; e questi ultimi, senza i caporali, non saprebbero come trovare lavoro. Lo sfruttamento dei migranti si fonda sul ruolo dei caporali. Se qualche migrante prova a chiedere il rispetto dei diritti riconosciuti dalle leggi sul lavoro, ecco che arrivano i carabinieri e se lo portano via. Da diverse testimonianze, risulta che alcuni carabinieri siano proprietari di terreni coltivati con questi stessi metodi. Ma nessuna indagine è mai riuscita a provare complicità tra carabinieri locali, caporali e padroni. «Le espulsioni dei clandestini funzionano da deterrente. Impediscono la nascita tra gli immigrati di qualsiasi rete di solidarietà».

I braccianti, ma bisognerebbe chiamarli “schiavi”, sono segregati per “razze”. Polacchi, romeni, bulgari, africani. Vengono impiegati per la raccolta delle patate, dei pomodori e di qualunque altro ortaggio sia maturo. Il lavoro comincia la mattina molto presto e dura finché c’è sole. Senza soste, se non quelle strettamente legate ai bisogni fisiologici, da espletare dietro un cespuglio, se c’è, oppure davanti a tutti. Non ci si ferma neanche per mangiare. Chi raccoglie pomodori può cibarsi soltanto dei frutti rossi, così come li trova, senza nemmeno la possibilità di lavarli. La sorveglianza dei caporali è durissima, condita di violenza e umiliazioni continue.

E non è che le autorità italiane siano del tutto all’oscuro di quel che avviene. Nel caso dei braccianti polacchi, per esempio, ci sono denunce formali e l’intervento addirittura dell’ambasciatore polacco. I reati denunciati dai lavoratori dell’Est Europa fanno impressione: «Riduzione in schiavitù. Sequestro di persona. Violenza carnale. Porto abusivo di armi. Rifiuto di atti d’ufficio. Costrizione alla prostituzione. Traffico di sostanze stupefacenti. Truffa. Ricettazione. Violazione delle leggi amministrative in materia di lavoro, sicurezza e sanità. E, forse, omicidio».

La notte le persone ridotte in schiavitù dormono in casolari fatiscenti, oppure sotto un albero. In spazi, comunque, affittati dai caporali. Un materasso lurido va condiviso da almeno due persone. Non c’è acqua corrente né elettricità. Sono condizioni peggiori perfino dei campi profughi più disagiati. Spesso possono bere soltanto acqua inquinata, proveniente da pozzi per l’irrigazione. La maggior parte di loro guadagna così poco da non riuscire a mandare niente a casa: sopravvivono per lavorare come bestie. Chi prova a ribellarsi viene violentemente punito. Alcuni muoiono misteriosamente. Altri, grazie alle leggi xenofobe, vengono arrestati ed espulsi.

Capitolo 5: Come vivono in Africa dopo gli accordi Italia-Libia?

Dopo essersi immerso nella vita infernale degli schiavi del ventunesimo secolo, Fabrizio Gatti torna in Africa, sulla rotta del deserto. Torna ad Agadez, questa volta, però, per osservare il traffico di migranti di direzione inversa: dalla Libia all’Africa subsahariana, sempre attraverso la pericolosissima “rotta degli schiavi”. Dopo gli accordi tra Italia e Libia sui migranti, la politica di Gheddafi è cambiata. In Libia le milizie del dittatore danno la caccia ai migranti, li arrestano, li maltrattano per l’ennesima volta, li chiudono in campi di detenzione in cui i diritti umani sono violati quotidianamente; infine, se sopravvivono, li caricano di nuovo sui camion e li “rimpatriano”. Chi aveva qualcosa, qualche vestito, qualche soldo, perde tutto: se li spartiscono padroni di casa e poliziotti, che ne saccheggiano le povere abitazioni. Poi i libici fanno loro attraversare di nuovo il deserto, anche se i ministri italiani coinvolti non lo ammettono. E lungo la traversata i morti sono innumerevoli.

Gatti incontra diversi deportati, che non comprendono il voltafaccia dell’Italia. Prima degli accordi, le persone migranti trovavano lavoro in Libia, risparmiavano per pagarsi il viaggio verso Lampedusa; quelli che arrivavano riuscivano a lavorare in Italia, alle condizioni che ormai conosciamo, oppure si spostavano in altri paesi europei. Adesso, invece, da Lampedusa molti vengono deportati in Libia, dove subiscono di nuovo violenze tremende, poi vengono mandati di nuovo nel deserto. Vengono deportati anche molti che avrebbero diritto all’asilo. Una tragica realtà, piuttosto differente dalla propaganda menzognera del governo italiano.

«Gli accordi tra Italia e Libia, era stato detto, avrebbero stroncato il guadagno ignobile dei trafficanti di uomini. Ma con le espulsioni sono sempre loro a fare affari. Sono gli unici ad avere i mezzi di trasporto. Ci speculano anche. Il viaggio in camion da Agadez ad Al Gatrun costava quarantamila franchi. Ora il ritorno da Al Gatrun ad Agadez costa centomila franchi, più di centocinquanta euro. Sono mesi di paga per un bracciante o un muratore in Libia». Da quando c’è l’accordo tra Italia e Libia sui rimpatri, i passeggeri lungo la rotta del deserto sono raddoppiati! Chi non ha soldi per pagarsi il viaggio, rimane bloccato lungo il tragitto e deve lavorare duramente per potersi almeno mantenere. Le paghe sono così basse, che difficilmente si può mettere da parte qualcosa per proseguire il viaggio. Del resto, tornare da dove sono partiti non avrebbe senso: lì non avrebbero di che sostentarsi. Molti rischiano di venire uccisi, se tornano in patria, perché oltre alla miseria, in alcuni Paesi ci sono disordini o guerre.

Rispetto alla volta precedente in cui Gatti ha osservato quel che succede nell’attraversamento del deserto, il cambiamento che osserva adesso è che i migranti non vengono più picchiati: non hanno denaro da dare ai militari. La maggior parte di loro arriva ai posti di blocco malato: affamato, disidratato, con febbre e dissenteria. Anche l’atteggiamento verso di lui è cambiato. Ora, per il solo fatto di essere europeo, addirittura italiano, viene considerato responsabile del peggioramento delle condizioni di vita di coloro che migrano, delle infinite violenze a cui sono sottoposti.

Questo bellissimo libro di Fabrizio Gatti è ricco di storie, di persone che gli hanno raccontato i loro guai. Sono vicende che sembrano arrivare dai tempi della seconda guerra mondiale, dai tempi dell’Olocausto. Invece sono storie attuali. Sono trascorsi circa tredici anni da quando Bilal è stato pubblicato per la prima volta, ma le situazioni descritte non sembra che siano migliorate. Né in Africa, né in Italia. Il dittatore Gheddafi non c’è più, e nemmeno il suo “fidato” amico italiano Berlusconi è più capo del governo. Ma, per il resto, è cambiato ben poco.

Tra coloro che si confidano con il giornalista, alcuni nutrono ancora fiducia nel futuro. Sperano che quel che racconterà Gatti, da giornalista, possa aprire gli occhi all’opinione pubblica italiana ed europea. Ma Gatti sa che molti mass media continueranno e presentare questa realtà travisandola: «La banalità del male. Ti fregano con le parole. Basta che in tv dicano che è una normale opera di sbarramento».

 

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