ricordo di Angelo Del Boca

A un mese dalla morte articoli di Angelo d’Orsi, Francesco Filippi, Clau d’Io, Salvatore Bravo, Matteo Dominioni, Alberto Negri, Gianfranco Pagliarulo, canta Alessio Lega, con un testo di Angelo Del Boca. Perchè la “bottega” parla di una “scordata”?

 

 

Angelo Del Boca, quando un giornalista sa fare lo storico – Angelo d’Orsi

Nessuno studioso come lui è stato capace di fare luce su pagine oscure della nostra storia militare e coloniale, smascherando impietosamente il mito grottesco degli “italiani brava gente”.

La morte di Angelo Del Boca, avvenuta il 6 luglio 2021, ci viene notificata mentre tutta l’Italia piange Raffaella Carrà e si distrae soltanto con la nazionale di calcio. Un momento sbagliato per morire. E poi Del Boca aveva superato le novanta primavere (96 per l’esattezza, essendo nato a Novara il 23 maggio 1925). Chissà se la città in cui ha lavorato e vissuto, prevalentemente, Torino, e dove è morto, saprà rendergli gli onori che merita. Ma ne dubito.

In effetti Del Boca è stato un personaggio quasi unico nel panorama italiano e non solo, un protagonista della vita culturale torinese, essenzialmente nel dopoguerra, prima da giornalista, poi da storico, non accademico. Fu a lungo inviato speciale de “La Gazzetta del Popolo” e del “Giorno”, un vero inviato d’altri tempi che non dettava le sue corrispondenze da una camera d’hotel sorseggiando un daiquiri, ma uno che voleva capire davvero le situazioni e i personaggi, e lui davvero ne incontrò tanti. E ne diede testimonianza in alcuni degli ultimi suoi volumi memorialistici, in specie in Da Mussolini a Gheddafi. Quaranta incontri (Neri Pozza, 2012) dove particolarmente notevole e persino commovente era il racconto del suo incontro con Muhammar Gheddafi, per il quale conservò sempre una ammirazione critica e al quale dedicò poi un volume (Gheddafi. Una sfida dal deserto, Laterza, 1998, riedito nel 2014) che è tra i pochissimi lavori seri, non agiografici, né denigratori sul leader libico.

Ma la sua fama fu soprattutto quella di uno studioso che sapeva cercare e trovare documenti preziosi, capaci di fare luce su pagine oscure della nostra storia, in particolare la storia militare e coloniale, smascherando impietosamente il mito grottesco degli Italiani brava gente? (Neri Pozza, 2005) come si intitola uno dei suoi libri di maggior successo. Fu lui per primo che fece scoprire che l’esercito italiano, per volere di Mussolini, Graziani e Badoglio, aveva usato i gas nella guerra di sterminio in Etiopia (e quello che sta accadendo proprio in queste settimane laggiù è anche conseguenza dell’impresa mussoliniana), ma anche in Libia. Nessuno storico togato ha saputo fare di meglio di lui, in questo campo di ricerca che dall’Etiopia si estendeva alla Somalia, alla Libia e all’intera Africa, un continente per il quale ebbe un’amorevole attenzione, non disgiunta da un senso critico che lo induceva a giudizi misurati e ad analisi attente.

La sua produzione fu sul tema africano abbondantissima e tuttora fondamentale, da La guerra d’Abissinia 1935-1941 (Feltrinelli, 1965) a Gli italiani in Africa Orientale (in ben 4 volumi, Laterza, 1976-1984), da Gli italiani in Libia (2 volumi, Laterza, 1986) fino a L’Africa nella coscienza degli italiani. Miti, memorie, errori, sconfitte (Laterza, 1992). Pubblicò un volume specificamente sui Gas di Mussolini. Il fascismo e la Guerra d’Etiopia (Editori Riuniti, 1996, con testi oltre al suo di Giorgio Rochat, un altro gigante della storiografia militare, Ferdinando Pedriali, Roberto Gentilli, ristampato nel 2007, con prefazione di Nicola Labanca); libro dal quale nacque una celebre polemica tra lui e Indro Montanelli, il quale sosteneva che non era possibile che fossero stati usati i gas, perché lui era là e non aveva mai saputo né sentito (neppure con il senso dell’olfatto!), i gas. Fu una controversia interessante anche sul piano storiografico, di cui in effetti ho parlato io stesso in diversi miei articoli e volumi: era il contrasto classico, per così dire, tra lo storico e il testimone. La storia si fa sui documenti, e Del Boca da storico autentico faceva storia a partire dai documenti, che sapeva non solo cercare, ma trattare con perizia; eppure non ebbe mai una cattedra, anche se ottenne incarichi universitari (per esempio a Scienze politiche a Torino, grazie al compianto Gian Mario Bravo), e ricevette lauree honoris causa.

Quella controversia finì con un riconoscimento da parte di Montanelli nei confronti di Del Boca: mi sono sbagliato, e lui ha ragione; insomma, i documenti erano inoppugnabili e Montanelli fu messo con le spalle al muro. Non senza, dopo qualche tempo, ritornare alla carica, canagliescamente, con il suo stucchevole refrain: “Sarà, ma a me non risulta!”. Una conclusione francamente imbarazzante, che nulla toglieva a Del Boca, mentre molto toglieva a Montanelli.

Del Boca fu anche un osservatore attento della realtà locale, da torinese acquisito e da giornalista di razza, ma soprattutto nazionale e internazionale: io credo che sia stato uno dei maggiori osservatori del mondo contemporaneo, con occhio da storico e in contemporanea da testimone. Non ne ho conosciuti molti di giornalisti in grado di applicare il rigore dello studioso nel loro lavoro e pochissimi tra gli storici professionali capaci di guardare ai fatti con la freschezza (anche sul piano stilistico: non a caso si tratta di un vero scrittore, autore anche di testi narrativi). Angelo Del Boca fu anche un caposcuola, nell’ambito degli studi militari e coloniali, attraverso la rivista “Studi Piacentini”, che andava assai oltre la storia locale (poi diventata “I Sentieri della Ricerca”): le sue ricerche hanno ispirato e guidato molti giovani delle generazioni successive.

Socialista autentico (era stato militante del PSIUP), Del Boca era stato partigiano combattente nelle formazioni di GL nel Piacentino (dopo aver disertato l’esercito di Salò), lasciandone testimonianza scritta in diversi libri, in particolare nel bellissimo, recente E nella notte ci guidano le stelle (Mondadori, 2015), ma ne aveva già parlato in modo assai accorato e partecipe in La scelta (Feltrinelli, 1963; riedito da Neri Pozza nel 2006).

Da quella esperienza fondativa trasse un lievito prezioso, anche nella battaglia di lunga lena contro il revisionismo storico; il volume La storia negata da lui inventato e curato (Neri Pozza 2009), rimane la più completa e circostanziata denuncia a più voci delle trame della pseudostoriografia revisionistica, un volume (tradotto anche in Francia) al quale a distanza di tanti anni si deve ancora ricorrere per avere un esaustivo panorama informativo e una ricca disamina critica, a più voci, con testi di Agosti, Ceci, Collotti, De Luna, Franzinelli, Isnenghi, Labanca, Rochat, Tranfaglia, e il sottoscritto.

Del Boca non ottenne tanti riconoscimenti quanti avrebbe meritato, forse anche per un suo carattere schivo, che era lo specchio del suo rigore di studioso, e per la sua capacità di dire le cose come stavano veramente, senza peli sulla lingua, ossia senza edulcorazioni né remore. Fu osteggiatissimo dalle destre di ogni risma, ma non fu tenuto nel dovuto conto dall’area democratica, e sostanzialmente ignorato dai grandi media.

Del resto, non cercò mai il consenso né l’applauso; ma da giornalista come da studioso, semplicemente, la verità.

https://www.micromega.net/angelo-del-boca-quando-un-giornalista-sa-fare-lo-storico/

 

 

 

Angelo Del Boca: uno storico in difesa dei senza voce – Matteo Dominioni

Dalla penna di uno dei suoi principali allievi, una nota biografica sul lavoro politico ed intellettuale di un uomo e di uno storico che controcorrente ha raccontato l’indicibile e contribuito a svelare il rimosso coloniale in Italia

Angelo Del Boca nacque a Novara nel 1925 dove passò l’infanzia. Dalla fine della guerra, visse a Torino dove lavorò come giornalista. Inviato della «Gazzetta del popolo» di Torino, trascorse lunghi periodi all’estero. Scrisse memorabili reportage, diede un contributo fondamentale per la defascistizzazone degli studi coloniali, lasciò preziose memorie sulla lotta di liberazione.

Offriamo qualche spunto di riflessione per ricordare uno dei più importanti intellettuali contemporanei, innovatore nell’ambito giornalistico e in quello della storiografia, per la metodologia e i temi trattati.

 

L’uomo

Chi ha avuto la fortuna di conoscere Angelo Del Boca e di collaborare con le sue numerose fatiche editoriali, ha apprezzato il suo forte senso di giustizia e l’apertura mentale di stare sempre dalla parte dei deboli. Non era solamente coerenza politica la sua, ma era un modo di porsi di fronte al mondo e agli altri che maturò durante la lotta di liberazione. Crebbe in un ambiente non fascista – racconta che la madre «l’avevo vista più volte sputare sul ritratto di Mussolini, che tenevamo in cucina, ma non era un’antifascista, era soltanto una donna stanca di scucire denaro per le costose divise dei figli» – ma durante la guerra dovette arruolarsi con la Repubblica sociale italiana per evitare rappresaglie contro la famiglia. Tornato dall’addestramento in Germania, disertò e raggiunse i partigiani del piacentino.

Era stakanovista. I cinquanta volumi che ci ha lasciati sono solamente una parte di quanto ha scritto e pubblicato. Per lui il valore più alto era quello del lavoro, da intendere come via per realizzare se stessi e il progresso dell’umanità. Era curioso. Non smise mai di leggere, studiare e raccogliere testimonianze. Era altruista, nei termini in cui metteva a disposizione tempo e conoscenze: leggeva ogni cosa ricevesse dando sempre un parere al mittente.

Aveva maturato una visione della Storia e del presente che potremmo definire sincretica, ovverosia lontana dall’eurocentrismo e aperta alle culture altre. Il Novecento è stato il secolo – pur tra immani errori, tragedie, involuzioni – in cui i popoli sono diventati protagonisti, prima nelle metropoli poi nelle periferie che man mano si sono sganciate dal giogo coloniale. Le vittime dei soprusi devono non solo essere difese e protette, perché è giusto sia così, ma devono avere diritto di parola e noi dobbiamo rimetterci continuamente in discussione, contaminandoci, per quanto avvenuto nel passato e per contrastare le immani contraddizioni Nord/Sud di oggi.

Era laico ma, sin dal 1957 quando la incontrò a Kalighat in India, rimase molto colpito dalla figura di Madre Teresa di Calcutta e dal suo instancabile impegno nell’aiutare i bisognosi che, in un paese privo di welfare, dove i diseredati tra l’altro vengono colpevolizzati e costretti a soffrire, salvò molte persone.

Nel novembre del 1979, morì la moglie Maria Teresa, conosciuta nel gennaio del 1945, con la quale aveva avuto tre figli: Paola, Daniela e Davide. Seguì un periodo difficile e di sofferenza che emerge dalle poesie che Del Boca scrisse all’epoca. Una colpisce in particolare, perché vengono associate le parole «memoria» e «solitudine», da un uomo che con la memoria e l’incontro/scontro con l’altro si è rapportato per tutta la vita:

«Essere depositari
di ricordi in due,
e poi restare solo
a riviverli,
non poter ricorrere
alla tua memoria,
per esaltarli,
questa,
questa è la vera solitudine» [1].

Sposò in seconde nozze Paola, matrimonio da cui è nata Ilaria, quarta figlia [2].

 

Il giornalista

Nel 1954, si recò in Africa per la prima volta come inviato della «Gazzetta del popolo» di Torino e scrisse reportage da Egitto, Sudan, Marocco, Algeria e Tunisia. Lavorò al quotidiano fino al 1967 come capo cronista. Gli articoli sull’Africa fecero conoscere paesi lontani e sconosciuti in una fase storica cruciale, e alcuni tra i leader delle lotte anticoloniali: Léopold Sédar Senghor, Sékou Touré, Felix Houphounet-Boigny, Kwame Nkrumah [3].

Nel 1960 fece lunghi viaggi in Africa e si recò in Spagna clandestinamente, per compiere un’inchiesta e per dare voce all’opposizione socialista antifranschista completamente silenziata [4]. Dopo la Spagna si recò in Israele per seguire il processo contro Alfred Heichmann, poi in Tunisia perché «si temeva che la guarnigione francese di Biserta facesse causa comune con i generali ribelli d’Algeria», in seguito in Iran, Iraq, Kuwait, Libano ed Egitto lungo la via del petrolio, quindi Belgrado per seguire la conferenza dei paesi non allineati. Nel dicembre del 1961 si recò in Sud Africa, per dare conto della strage di Sharpeville ma dopo un mese venne espulso per avere violato il divieto di avvicinare Albert Luthuli, premio nobel per la pace nel 1960 [5]. Nuovamente in viaggio, raccontò il Giappone e la guerra del Vietnam [6]. Oltre che dal Sud Africa, venne espulso anche dall’Algeria perché raccolse testimonianze e prove che «la pace di Algeri è stata acquistata al prezzo dell’internamento di ventiquattromila musulmani; a quel rastrellamento sistematico che è stato il capolavoro di Massù; al fatto che nella Casbah, ancor oggi, c’è un soldato ogni cinquanta metri, il mitra spianato» [7]. Nel 1963 si recò ad Addis Abeba, in occasione della nascita dell’Organizzazione per l’unità africana. Scrisse un articolo sulla cerimonia finale che potremmo definire «musicale»: tradusse e trascrisse l’inno dell’Oua e descrisse come evento clou della serata il concerto di Miriam Makeba, che Del Boca aveva già capito essere Mama Africa: «La comparsa, verso le 23, di Miriam Makeba, in un abito bianco aderentissimo, interruppe il brusio nella sala. Miriam si inchinò leggermente davanti all’Imperatore [Hailé Selassié] e ai suoi ospiti e poi cominciò a cantare uno spiritual. Subito tutti gli occhi furono su di lei. Miriam non era soltanto una splendida donna. Non era soltanto una delle più belle voci che l’Africa abbia dato. Miriam era anche una perseguitata. Una donna fuggita dall’universo concentrazionario sudafricano. Miriam era la testimonianza vivente dei torti che da sempre l’Africa subisce. Miriam appariva perciò come trasfigurata ai duemila rappresentanti dell’Africa libera. Era l’Africa della protesta, dei canti tristissimi, delle nenie rotte dai singhiozzi. Era la Madre Africa che singhiozzava ma che sapeva anche consolare. E perciò il sentimento che provocava nei presenti era un insieme di venerazione religiosa e di impulso erotico, di pietà e di ammirazione» [8].

 

Lo storico

Il nome di Angelo Del Boca è noto a tante persone per la celebre diatriba che lo contrappose per più di un decennio a Indro Montanelli relativamente alla denuncia dell’impiego di aggressivi chimici da parte degli italiani durante la guerra italo-etiopica del 1935-36 [9]. Il dibattito pose le basi per sviluppare ricerche e offrire una storiografia innovativa e di rottura che a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso ha ripetutamente confutato, criticato e infine demolito l’impianto storiografico generale di riferimento sulla storia coloniale italiana. La vera vittoria fu raggiunta nel 1996, quando il ministro della difesa generale Corcione ammise ufficialmente le responsabilità dell’Italia fascista di avere violato gli accordi di Ginevra del 1926 sulla proibizione degli aggressivi chimici e, contestualmente, desecretò la documentazione della guerra d’Etiopia e aprì gli archivi coloniali del Ministero della difesa. Fu una decisione importante che ha permesso a decine di studiosi e studiose di tutto il mondo di studiare per la prima volta carte rimaste segrete per più di mezzo secolo.

I primi documenti in cui veniva fatto esplicito riferimento all’utilizzo dei gas durante la guerra d’Etiopia del 1935-36 furono pubblicati da Del Boca nel 1965 nel primo volume che dedicò al colonialismo italiano, una raccolta di articoli rivisti, scritti originariamente per la «Gazzetta del popolo» in occasione del viaggio ad Addis Abeba del 1963. Fu un lavoro pioneristico perché, oltre a documentazione fino ad allora sconosciuta, conteneva le testimonianze di ras Immirù, comandante delle forze settentrionali etiopiche nel 1935-36 e animatore del governo ribelle di Gore durante i primi mesi di occupazione, e dell’imperatore Hailé Selassié sull’uso degli aggressivi chimici e sui bombardamenti contro ospedali, ambulanze della croce rossa e villaggi.

Con gli anni – ripetutamente sollecitato da amici e studiosi – maturò la decisione di dedicare tempo e passione alla storia coloniale. Pur continuando a fare il giornalista – non più per la «Gazzetta del popolo» ma per «il Giorno» – cominciò a lavorare negli archivi pubblici e privati, a raccogliere testimonianze, a consultare riviste, annali dell’epoca e la storiografia esistente finanche la robaccia propagandistica coeva. Insomma, passò in rassegna ogni tipo di fonte utile per ricostruire moltissimi aspetti della storia coloniale sia dell’Italia liberale che del regime fascista. Tra il 1976 e il 1984, per i tipi di Laterza, fu edita in quattro volumi l’opera Gli italiani in Africa orientale, seguita poco dopo da Gli italiani in Libia e da tanti altri volumi sui crimini italiani in Africa e sul revisionismo.

Per molti anni diresse la rivista «Studi piacentini» che diventò un punto di riferimento per studiosi di tutto il mondo, per qualità e temi trattati nei saggi. Conclusa quell’esperienza, nell’ottica di continuare quanto fatto, aprì una nuova rivista, «I sentieri della ricerca».

Scrisse la biografia dell’imperatore d’Etiopia Hailé Selassié e quella del presidente libico Mu’ammar Gheddafi. Si tratta di lavori metodologicamente e scientificamente ineccepibili, scritti con senso critico pur trattando personalità verso le quali l’autore provava stima e simpatia. Detto questo, solamente Del Boca avrebbe potuto portare a termine un simile progetto perché dovette rapportarsi – oltre che armarsi di infinita pazienza – con persone particolari.

Il convegno tenutosi a Milano nell’ottobre del 2006, organizzato dall’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, fu un momento importante per gli studi coloniali, una sorta di sintesi sullo stato degli studi a partire da quanto fatto dai primi studiosi – Giorgio Rochat, Alberto Sbacchi, Nicola Labanca per citare i più prolifici – che insieme a Del Boca hanno innovato la ricerca. Gli atti di quelle giornate sono un contributo maturo su una serie di aspetti dell’Oltremare discussi entro un quadro di riferimento che negli ultimi decenni si è notevolmente innovato e sprovincializzato [10]. Oggi sono dozzine le studiose e gli studiosi che in tutto il mondo studiano il colonialismo fascista, attraverso riflessioni e categorie decisamente discontinue rispetto alla storiografia coloniale fascistofila, ma anche rispetto agli stessi contributi di Del Boca, e facendo comparazione con altri casi europei di colonizzazione. Si tratta di un processo scontato, ovvio. Se non ci fosse innovazione, dibattito e, perché no, revisionismo, saremmo ancora fermi alle opere di Raffaele Ciasca [11].

 

L’impegno politico

Per 35 anni, fino al 1980, fino all’ascesa del craxismo, Angelo Del Boca ha abitato la casa socialista, più come intellettuale che come dirigente. Era il suo il socialismo dei campi non quello delle fabbriche, quello della campagna non della città. Il socialismo di Del Boca era quello dell’azionismo i cui protagonisti, anche se in sordina e disuniti, hanno arricchito nel dopoguerra la cultura della sinistra grazie a tematiche innovative. Nel 1994, venne candidato come indipendente alle elezioni politiche per i Progressisti nella circoscrizione di Piacenza. Era quello il momento giusto per mettersi in gioco: lo scandalo dello sdoganamento dei fascisti, l’assurdità di Berlusconi e della sua cultura retriva, la nascita di un cartello elettorale che per la prima volta metteva insieme la sinistra istituzionale.

Per tutta la vita – come molti partigiani e partigiane – prese parte e animò iniziative in difesa della democrazia e dei valori antifascisti.

Nella sua biografia ricordava l’entusiasmo, ma anche le inquietudini, che nel 1960, di fronte al sostegno dei neofascisti al governo Tambroni e le prospettive autoritarie, portarono alla nascita del Circolo della Resistenza di piazza Alberello a Torino: «Quelle di Piazza Albarello furono sempre riunioni caratterizzate da un genuino fervore, che ci riportava ai giorni della resistenza. Nelle settimane di grande tensione, tra la fine di giugno e l’inizio di agosto quando infine Fanfani succedette a Tambroni, ci si incontrava quasi ogni sera per esercitare la massima vigilanza. Ed anche negli anni successivi il Circolo continuò a svolgere il suo ruolo di difesa dei valori resistenziali e di sorveglianza sulle attività illecite dei neofascisti. Nel maggio del 1966, ad esempio, fece fallire la manifestazione indetta dai missini per celebrare a Torino la “conquista dell’impero” [del 1936]».

 

L’eredità

Limitando la nostra riflessione alla storiografia coloniale, oggi gli studiosi hanno a disposizione un quadro generale grazie alle seguenti opere: Roberto Battaglia, La prima guerra d’Africa; Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa orientale (4 vol.); Nicola Labanca, Oltremare [12]. Negli ultimi trent’anni sono stati molti gli studi che questa eredità l’hanno raccolta e che con nuovi ragionamenti e modi di pensare hanno proposto innovative prospettive di ricerca sulle questioni di genere, il razzismo, l’urbanistica, la musica e tanti altri temi. Ma per quanto riguarda la storia militare è opportuno prendere atto che la ricerca al momento non ha ancora colmato lacune che incidono notevolmente sulla possibilità di fare una sintesi articolata. Su questo Del Boca scriveva che «uno degli argomenti ancora tutto da trattare è la resistenza etiopica alla dominazione italiana e i metodi e l’episodica della repressione fascista. Eppure all’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito c’è una grande quantità di documenti sull’argomento a cominciare dagli utilissimi diari di battaglione» [13].

Ma – aggiungiamo al suggerimento citato – sarebbe interessante studiare: quanto la lobby coloniale nel dopoguerra esercitò ancora il proprio potere (gestione degli archivi, manipolazione dei concorsi ministeriali, gestione di finanziamenti e/o pensioni), i rapporti che si instaurarono fra circoli coloniali e neofascismo e quelli fra gli italiani rimasti in Etiopia ed Eritrea e il Ministero degli affari esteri. Temi questi che andrebbero a toccare il tema della costruzione della memoria e del mito del buon italiano, nelle ex colonie e in Italia. In questi ultimi anni siamo stati testimoni di intitolazioni di piazze a criminali di guerra come Ugo Cavallero (Casale Monferrato in provincia di Alessandria) o collaborazionisti ascari (Monguzzo in provincia di Como) e persino all’edificazione di monumenti dedicati al macellaio Rodolfo Graziani (Affile in provincia di Roma). Questa è solamente la punta di un iceberg che racchiude vari livelli di revisionismo. Diciamolo chiaramente: sono tutte iniziative dal chiaro stampo fascistoide perché si basano su una narrazione che è riconducibile in tutto e per tutto alla propaganda fascista. Però attenzione, perché queste cose appartengono all’Italia di oggi non a quella del secolo scorso, ecco perché fare una critica a certe politiche oggi non può prescindere dalla conoscenza di quanto avvenne nelle colonie.

 

Conclusioni

Angelo Del Boca è stato un uomo che grazie all’incessante lavoro ha raggiunto prestigiosi risultati pur rimanendo indipendente, un outsider rispetto a percorsi che richiedono «protezioni». Per questo – perché libero e non dipendente da opportunismi politici di breve respiro – è rimasto un punto di riferimento e ha rilasciato interviste fino a poco prima di morire.

Ha raccontato la povertà e la miseria delle valli di Comacchio, della Sila, le condizioni delle città dell’Agro Pontino costruite dal fascismo, i processi di decolonizzazione e le storie dei leader africani, il processo Heichmann. Le inchieste giornalistiche condotte studiando, recandosi sui luoghi dell’evento e raccogliendo interviste, sono state una base metodologica che, arricchita dagli studi archivistici, è stata fondamentale per svecchiare la storiografia coloniale, per temi affrontati e per l’approccio. Angelo Del Boca fu un pioniere perché diede dignità all’altro dandogli voce. Mise in pratica, d’altronde, il vecchio ma fondamentale metodo di Erodoto: ascoltare, vedere, ragionare.

In conclusione, permetteteci una riflessione personale, sorta rileggendo l’autobiografia del 2008 in cui scriveva: «sfoglio le pagine dei miei diari e incontro altri nomi di amici che non ci sono più». Tra questi amici ricordava Vito Laterza, Carlo Bo, Alberto Sbacchi, Gianni Corbi, Nuto Revelli, Michele Pantaleoni, Gianni Agnelli, Alessandro Galante Garrone, Norberto Bobbio, William F. Deakin, Giuseppe Ajmone, Giancarlo Vigorelli, Christopher Seaton-Watson, Enzo Biagi, Enrico Serra e Indro Montanelli. Scopriamo inaspettatamente che con il personaggio pubblico con cui si scontrò maggiormente era legato da un rapporto di amicizia. Chi l’avrebbe mai pensato.

Note

[1] Angelo Del Boca, Un testimone scomodo, Grossi, Domodossola 2000, p. 289. L’autobiografia è stata successivamente ripubblicata e ampliata di due capitoli, si veda. id., Il mio Novecento, Neri Pozza, Vicenza, 2008.

[2] Tutte le informazioni sono prese da A. Del Boca, Un testimone scomodo, op. cit.

[3] Una parte venne pubblicata in Angelo Del Boca, Africa aspetta il 1960, Bompiani, Milano, 1960.

[4] Angelo Del Boca, L’altra Spagna, Bompiani, Milano, 1961.

[5] Angelo Del Boca, Apartheid: affanno e dolore, Bompiani, Milano, 1962.

[6] Townsend Harris, Angelo Del Boca, Occhio giapponese, De Agostini, Novara, 1963; Angelo Del Boca, Vietnam: la guerra dei vent’anni, in AA.VV., Lotte di liberazione e rivoluzioni, Istituto di Storia della Facoltà di Magistero dell’Università di Torino, Giappichelli Torino, 1968.

[7] A. Del Boca, Un testimone scomodo, op. cit., p. 215.

[8] A. Del Boca, Un testimone scomodo, op. cit., p. 228.

[9] Angelo Del Boca (a cura di), I gas di Mussolini, Editori Riuniti, Roma, 1996.

[10] Riccardo Bottoni (a cura di), L’impero fascista. Italia ed Etiopia (1935-1941), il Mulino, Bologna, 2008.

[11] Raffaele Ciasca, Storia coloniale dell’Italia contemporanea. Da Assab all’impero, Hoepli, Milano 1940.

[12] Roberto Battaglia, La prima guerra d’Africa, Einaudi, Torino, 1958; Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa orientale, 4 voll., Laterza, Roma-Bari, 1976-1984, Einaudi, Torino, 1958; Nicola Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, il Mulino, Bologna, 2002.

[13] Bottoni, L’impero fascista, op. cit., p. 33.

https://www.sinistrainrete.info/cultura/20812-matteo-dominioni-angelo-del-boca-uno-storico-in-difesa-dei-senza-voce.html

 

 

Angelo Del Boca storico – Salvatore Bravo

Angelo Del Boca1 è stato un uomo e uno storico di raro spessore etico, poiché non si è limitato a ricerche in linea con il politicamente corretto delle Accademie, ha vissuto la ricerca storica come un valore civile. Ha dimostrato che l’emancipazione di un popolo avviene mediante la trasformazione degli eventi storici in esperienze di consapevolezza collettiva. La storia dev’essere vissuta e studiata nella sua verità per poter essere l’anticorpo culturale per evitare crimini ed errori del passato. La sua vita è stata dedicata alle guerre coloniali del fascismo, alla dimostrazione documentata dei suoi crimini. Grazie alle sue ricerche nel febbraio del 1996 il ministro della Difesa del governo Dini, generale Domenico Corcione, ammise fornendo i documenti, che le armi chimiche sono state usate dagli italiani persino nella battaglia decisiva di Mai Ceu (1936) nella guerra di Etiopia. Le armi chimiche furono usate a dispregio della Convenzione di Ginevra del 1925 che ne vietava l’uso.

Angelo Del Boca rompendo il silenzio generalizzato sui crimini di guerra ha dimostrato che nei campi di concentramento in Libia su 120.000 prigionieri ne sono sopravvissuti solo 40.000. Gli italiani durante la lunga conquista della Libia iniziata nel 1911 e proseguita durante il fascismo hanno assunto comportamenti e strategie di sterminio simili a quelle tedesche. L’episodio della strage di Debra Libanòs (1937) è sintomatico dell’azione di sterminio degli italiani: a seguito dell’attentato al viceré Graziani si colse l’occasione per eliminare la classe dirigente etiope e l’opposizione della chiesa copta. La strage come l’azione colonizzatrice è stata ignorata dalla storiografia italiana, che ha alimentato il pregiudizio positivo secondo cui “gli italiani sono brava gente”:

Nessuno ha mai stilato un bilancio preciso degli etiopici che sono stati uccisi dal 19 al 21 febbraio 1937. Si va da un minimo di 1400 a un massimo di 30.000, a seconda delle fonti. Le migliaia di italiani che hanno partecipato alla strage di tanti innocenti, che nulla avevano a che fare con l’attentato, non hanno mai pagato per i loro delitti. Non sono mai stati inquisiti. Non hanno fatto un solo giorno di prigione. Dopo l’estenuante mattanza, sono tornati alle loro case e alle loro caserme, come se nulla fosse accaduto. Chi aveva famiglia in città ha continuato, senza problemi, senza sentimenti di colpa, a gestire i propri affari, ad accarezzare i figli, a fare all’amore, come se in quei tre giorni di sangue il suo forsennato impegno nell’uccidere fosse stata la cosa più naturale, più ammirevole. Questo di Addis Abeba, per quanto gravissimo, non è che uno dei tanti episodi nei quali gli italiani si sono rivelati capaci di indicibili crudeltà. In genere le stragi sono state compiute da “uomini comuni”, non particolarmente fanatici, non addestrati alle liquidazioni in massa. Essi hanno agito per spirito di disciplina, per emulazione o perché persuasi di essere nel giusto eliminando “barbari” o “subumani”. Non rari,  fra gli ufficiali, quelli che si sono vantati degli atti di ferocia compiuti e che si sono dilungati nel fornire macabri particolari. Per esempio, sul come trasformare in torcia umana un partigiano catturato in Slovenia. Erano sufficienti, assicuravano, un palo o un albero al quale legare il prigioniero, un fiasco di benzina e un cerino2”.

 

Storia ed ideologia

Angelo Del Boca ha ricostruito il quadro storico della conquista coloniale, fuori da conformismi e stereotipi. In assoluta solitudine, nell’ostilità generalizzata e nel timore di essere oggetto di aggressioni, come ha dichiarato in alcune interviste. Ha avuto il coraggio della verità con cui ha dato dignità alle vittime e nel contempo ha rispettato il senso della ricerca storica, la quale è finalizzata a favorire i processi di liberazione da stereotipi, semplicismi e falsa coscienza collettiva. Non a caso nel 2014 l’Università di Addis Abeba gli ha conferito la laurea onorifica in Storia africana, unico europeo ad aver ricevuto tale privilegio, ad Angelo Del Boca è stato, così, riconosciuto di essere uno storico non al servizio della sola nazione, ma di tutta l’umanità. La storia non la si può ridurre a semplici “bastoncini”, a porzioni ideologiche per la cattiva percezione collettiva dei popoli, ma va ricostruita nella sua integrità trascendendo posizioni ideologiche utili ai poteri che in tal modo possono perpetuare nelle logiche di conquista e disprezzo dei popoli3:

Il mancato dibattito sul colonialismo e la persistente lettura in chiave apologetica delle imprese africane non soltanto hanno consentito che fossero mandati assolti tutti i maggiori responsabili dei genocidi africani, ma hanno anche notevolmente influito sulla politica elaborata nei confronti delle ex colonie, che si caratterizza per rozzezza, improvvisazione, inadempienze e ritardi. L’Italia ha perso una grande occasione. Poteva ritornare in Africa per riparare con generosità i suoi torti e per svolgervi, con le capacità che nessuno le disconosce, una proficua collaborazione. Invece ha dilapidato ingenti capitali, ha puntellato abiette dittature, ha costruito cattedrali nel deserto, ha aggiunto, alle vecchie, nuove ingiustizie, e non ha neppure finito di onorare i suoi debiti, come testimoniano il contenzioso con la Libia e la mancata restituzione dell’obelisco di Axum”.

 

La domanda storica

La rimozione dei crimini e la riduzione della storia a presenza scenica nel curriculo scolastico è l’espressione più concreta dell’atteggiamento ideologico vigente: il mercato e le logiche acquisitive possono perpetuare la loro azione nel solco dell’ignoranza con annessa falsa coscienza. Non a caso uno dei testi più rilevanti dello storico ha nel titolo una domanda: ltaliani brava gente?

La domanda in sé, già muove al dubbio, irrompe nell’immaginario collettivo, il testo risponde alla domanda non per accusare, ma per capire, se l’autopercezione che il popolo ha coltivato è reale o se è stata indotta mediante un’operazione di rimozione ideologica. La storia è porre domande, è ricerca finalizzata a verificare se i miti con cui i popoli costruiscono la loro identità sono reali o posticci. Decostruire non è un’operazione di distruzione, ma di costruzione critica collettiva, senza la quale la storia non può che ripetersi automaticamente con le sue tragedie.

Le missioni di pace italiane hanno il loro consenso nell’immagine positiva di un popolo che si giudica diverso dagli altri popoli bellicosi e colonizzatori. Angelo Del Boca con le sue ricerche ci insegna che gli italiani sono stati colonizzatori e conquistatori eguali alle altre nazioni, e ciò dovrebbe indurci a dubitare delle “missioni di pace”. Non a caso nelle missioni di pace gli italiani hanno commesso crimini esattamente come le altre potenze4:

Per finire, a confermare l’infondatezza di una presunta ‘diversità’ dei nostri reparti in armi, nella primavera del 1997 esplodeva in Italia lo scandalo delle torture praticate in Somalia da alcuni soldati della missione Ibis. Dopo alcuni pietosi tentativi, da parte dei militari, di depistare le indagini, di negare o di minimizzare gli episodi di violenza, il governo Prodi era costretto a nominare alcune commissioni d ’inchiesta, le cui prime conclusioni confermano l’attendibilità di alcuni fra i più gravi episodi denunciati”.

Senza storia non vi è umanesimo e specialmente non vi è futuro, la storia è l’identità di un popolo, ma ogni identità non è semplice trasmissione cadaverica di un patrimonio culturale, ma attività archeologica di concettualizzazione/verbalizzazione delle tragedie e degli errori che accompagnano ogni esperienza umana per progettare un futuro in continuità e discontinuità con il passato. Senza responsabilità etica verso la memoria storica non resta che un presente ed un futuro consegnato alla cecità collettiva. Angelo Del Boca credeva nel popolo italiano nella sua capacità di elaborare lutti e vicende storiche per poter disegnare un futuro più umano5:

Questo modello di italiano, un chiaro prodotto del consumismo, dell’ignoranza e dell’egoismo, non è certo, anche se è l’ultimo, il modello immaginato da Massimo d’Azeglio e dagli altri padri della patria. Ma, per nostra fortuna, si tratta di un modello ancora in gestazione (benché alcuni esemplari siano già in circolazione) e si può ancora bloccarlo. Perché il paese, nonostante i suoi guai e le tare vecchie e nuove che siamo venuti elencando in queste pagine, è molto migliore di quanto non appaia. È ancora capace di grandi rifiuti, di immense mobilitazioni, di scelte coraggiose. Noi siamo persuasi che un giorno, forse neppure lontano, quando cesseranno del tutto le rimozioni e le false revisioni; quando non ci saranno più carte da nascondere in qualche “armadio della vergogna” e tramonterà la leggenda del «fascismo buono» e del confino di polizia gabellato da Mussolini come un luogo di villeggiatura; allora si potrà finalmente seppellire anche il falso mito degli «italiani brava gente», che ha coperto e assolto troppe infamie”.

La ricerca storica non è stata per lo storico novarese attività accademica, ma è stata impegno politico alla crescita comunitaria nazionale e globale.

Note

1 Angelo Del Boca (Novara, 23 maggio 1925 – Torino, 6 luglio 2021)

2 Angelo del Boca, Italiani brava gente? Un mito duro a morire, Neri Pozza Editore Vicenza, 2005 pag. 7

3 Angelo Del Boca, Il colonialismo italiano tra miti, rimozioni, negazioni e inadempienze in Italia contemporanea, settembre 1998, n. 212

4 Ibidem

5 Angelo del Boca, Italiani brava gente? Un mito duro a morire, Neri Pozza Editore Vicenza, 2005 pag. 143

https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/20862-salvatore-bravo-angelo-del-boca-storico.html

 

 

CHI ERA DAVVERO RODOLFO GRAZIANI

In “bottega” avevamo già ripreso questo testo di Angelo Del Boca dalla Enciclopedia Treccani (manca solo la lunga bibliografia) in relazione al vergognoso omaggio reso ad Affile.

GRAZIANI, Rodolfo
Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 58 (2002)
di Angelo Del Boca
GRAZIANI, Rodolfo. – Nacque a Filettino l’11 ag. 1882 da Filippo, medico condotto, e da Adelia Clementi, figlia di un allevatore di bestiame.
Quarto di nove fratelli, il G. trascorse l’infanzia e la prima giovinezza ad Affile, dove il padre si era trasferito. In seguito frequentò il ginnasio nel seminario di Subiaco e il liceo Torquato Tasso a Roma. Ottenuta nel 1902 la licenza liceale, si iscrisse alla facoltà di legge per il biennio notarile, senza peraltro completare gli studi.
Prestissimo avvertì la vocazione per la carriera militare, ma i suoi genitori non avevano i mezzi per inviarlo nelle prestigiose accademie di Modena o della Nunziatella. Alla chiamata di leva fu quindi costretto a frequentare il corso allievi ufficiali di complemento al 94° reggimento di fanteria di Roma. Il 4 apr. 1903 fu promosso caporale, il 4 luglio sergente, il 1° maggio 1904 sottotenente. Assegnato al 92° fanteria, di stanza a Viterbo, due anni dopo vinse il concorso per diventare ufficiale in servizio permanente effettivo e, per la sua alta statura, fu destinato al 1° reggimento granatieri di Roma. Nell’ottobre 1906 si trasferì a Parma per compiervi il corso superiore presso la Scuola di applicazione di fanteria.
Rientrato dopo nove mesi a Roma, il G. trovò – come lui stesso confessa – “più dura la caserma pel mio temperamento di uomo d’azione e le mie magre finanze contrastanti con le seduzioni della Capitale” (Ho difeso la Patria, p. 12). Decise pertanto di presentare domanda per essere trasferito in Eritrea: in quell’Africa che lo aveva sempre affascinato, sin dall’infanzia, e dove sperava di far carriera più rapidamente. Accolta la domanda, nel dicembre 1908 raggiunse la colonia “primogenita” e venne assegnato al I battaglione indigeni di stanza ad Adi Ugri.
In quel remoto villaggio del Seraè, il G. compì il suo noviziato coloniale, che durò quattro anni e fu interrotto da due gravi incidenti: il morso a un dito di un rettile velenoso e un virulento attacco di malaria.
Ricoverato per alcuni mesi negli ospedali di Asmara e di Massaua, sul finire del 1912 poteva rientrare in patria sbarcando in barella nel porto di Napoli.
Tali disavventure gli impedirono di partecipare alla guerra di Libia (1911-12), ma in Libia ci andò comunque, nel febbraio 1914, e vi rimase sino allo scoppio della prima guerra mondiale. Entrato nel conflitto con il grado di capitano, ne uscì con quello di colonnello. Nel 1918, a 36 anni, era il più giovane colonnello dell’esercito italiano e uno fra i più decorati.
Ferito tre volte, intossicato dai gas asfissianti, si distinse soprattutto nella conquista del monte San Michele e nella battaglia al colle della Beretta, due azioni nelle quali si rivelò maestro nei colpi di mano.
Finita la guerra, il G. fu inviato in Macedonia al comando del 61° fanteria, che presidiava la regione fra Salonicco e Stramitza. La missione fu però di breve durata perché, già nell’agosto 1919, il reggimento fu rimpatriato e raggiunse la sua sede a Parma.
Il G. rientrava in un’Italia già sconvolta dalle contese politiche e dai primi scontri armati tra fascisti e antifascisti. “Dopo un anno di tensione – scriverà in un libro di memorie – allo spettacolo del valore disprezzato e rinnegato, cedetti anch’io alla crisi che colpì allora tanti ufficiali e chiesi di essere collocato in aspettativa per riduzione dei quadri, per due anni” (ibid., p. 24).
Abbandonata la carriera delle armi, il G. si trasferì nei Balcani e poi nel Levante nella speranza di trovarvi, nella ripresa dei traffici, un nuovo e redditizio campo di lavoro. Ma dopo aver vagabondato fra Atene e Costantinopoli ed essersi spinto anche oltre il Caucaso, rientrò in patria deluso e a mani vuote. Cedendo allora alle pressioni della moglie, Ines Chionetti, che aveva sposato nel 1913, accettò l’offerta del ministero della Guerra di raggiungere la Libia, che era quasi interamente da riconquistare dopo l’abbandono provocato da una lunga serie di errori e di sconfitte militari.
Il G. giunse in Libia il 1° ott. 1921. Vi rimase per tredici anni, servendo tre governi, quelli liberaldemocratici di I. Bonomi e di L. Facta e quello fascista di B. Mussolini, e tre governatori, G. Volpi, il generale E. De Bono e il maresciallo P. Badoglio. In colonia il G. manifestò doti eccezionali nella lunga e durissima lotta contro i patrioti libici, mettendo a frutto gli insegnamenti della guerra mondiale e utilizzando gli strumenti di guerra più moderni. Nello stesso tempo alimentò, con i suoi metodi brutali, la fama di uomo spietato, di “macellaio degli arabi”.
Fin dall’inizio delle operazioni per la riconquista integrale della Libia, nell’aprile 1922, il G. si rivelò come il più audace, spregiudicato e brillante tra gli ufficiali superiori che agivano nella colonia. Inviato a Zuara come comandante del locale presidio, studiò a fondo la situazione, cercò di capire le motivazioni dei suoi avversari, analizzò i metodi di lotta, si fece disegnare il profilo dei più autorevoli capi della rivolta. Arricchito da queste informazioni, decise di battere i ribelli sul loro stesso terreno, preparando agguati e colpi di mano, muovendosi con snelle colonne mobili in grado di battere in velocità le “mehalle” arabe. Con questa tattica da controguerriglia il G. riconquistò in pochi mesi Zavia, el-Azizia, el-Giosc, Giado, Cabao e Nalùt.
In polemica con le “teorie retrograde e statiche” dei vecchi ufficiali coloniali (Pace romana in Libia, p. 32), mise a punto una strategia che mirava più a sterminare gli avversari che a occupare territorio. Una strategia che utilizzava tutti i mezzi più moderni, come la radio, gli autocarri, l’aviazione, e che contava non tanto sul numero degli uomini, ma sulla fulmineità delle azioni e sull’irruenza e instancabilità delle truppe eritree, oltretutto motivate, in quanto cristiano-copte, da un profondo odio religioso nei confronti dei ribelli musulmani.
L’avvento del fascismo impresse alle operazioni di riconquista un ritmo più accelerato. Il governatore Volpi decise infatti di non dare tregua ai ribelli e di procedere, dopo l’occupazione del massiccio del Garian, alla riconquista dei maggiori centri della ribellione, Tarhuna, Zl ten, Misurata e la regione degli Orfella. Anche in queste operazioni il G. si distinse per l’audacia e l’azione fulminea, tanto che il 23 dic. 1923, mentre stava per occupare Beni Ulid, roccaforte degli Orfella, e per costringere alla fuga uno dei suoi più accaniti avversari, ‘Abd an-Nebi Belcher, ricevette contemporaneamente la promozione a generale di brigata e la tessera ad honorem del Partito nazionale fascista.
A ogni conquista si rinsaldava la fama del G., astro nascente nel firmamento coloniale libico. Una fama che il fascismo, in cerca di consensi e di nuovi miti, aveva tutto l’interesse a consolidare, anche se le penne compiacenti che già paragonavano il G. a Publio Cornelio Scipione l’Africano avevano chiaramente oltrepassato la misura. Lo stesso Mussolini teneva d’occhio il giovane generale, nel quale individuava quelle qualità di fierezza e di audacia che egli attribuiva all’italiano nuovo, rigenerato dal fascismo.
Tra il 1924 e il 1928, con De Bono come governatore, venivano rioccupati il Gebel tripolino fino a Gadames e l’intera Sirtica sino a Zella. Il G. continuava a imporsi con le sue colonne mobili e a Tagrift, il 25 febbr. 1928, conseguì, seppure a caro prezzo, un grande successo battendo duramente i fratelli Sef en-Nasser, che poi avrebbe implacabilmente braccato nelle successive operazioni per la rioccupazione del Fezzàn.
Con la campagna del Fezzàn, della durata di tre mesi, il G. ripulì completamente il Sud della Libia da ogni presenza eversiva costringendo i fratelli Sef en-Nasser a riparare in Algeria con tutta la loro gente, che inseguì, bombardò e mitragliò anche al di là del confine. Con questa operazione, abilmente congegnata e realizzata alla perfezione, il generale raggiunse l’apice della notorietà, tanto da guadagnarsi il plauso della Camera, l’elogio caloroso di Mussolini e la nomina a vicegovernatore della Cirenaica. A meno di cinquant’anni era l’ufficiale più celebrato in Italia, godeva della protezione di De Bono, diventato nel frattempo ministro delle Colonie, ed era ora alle dirette dipendenze del maresciallo Badoglio, nuovo governatore della Libia.
L’intesa fra i due militari si rivelò perfetta. Persuasi entrambi che la sola politica da applicare in Libia fosse quella della repressione indiscriminata, elaborarono insieme un piano per rioccupare anche la Cirenaica che prevedeva la netta separazione fra i partigiani e le popolazioni sottomesse. Più in dettaglio, il piano contemplava il raggruppamento coatto delle popolazioni indigene nelle vicinanze dei presidi italiani e, fatto ancora più grave, la deportazione di circa 100.000 Cirenaici dal Gebel Achdar e dalla Marmarica e il loro internamento in tredici campi di concentramento costruiti nelle regioni più inospitali della Sirtica. “Non mi nascondo – scriveva Badoglio al G. il 20 giugno 1930 – la portata e la gravità di questo provvedimento, che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa. Ma ormai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo perseguirla sino alla fine anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica” (Roma, Arch. centrale dello Stato, Fondo Graziani, b. 1, f. 2, sottofasc. 2).
Badoglio non poteva trovare un esecutore dei suoi ordini più zelante del G.; in pochi mesi egli portò a compimento la deportazione dei 100.000 Cirenaici, la metà dei quali morirono nei lager del deserto per malattie, maltrattamenti, scarsa alimentazione ed esecuzioni capitali. Operato il distacco tra le formazioni ribelli e le popolazioni indigene, espugnata il 19 genn. 1931 la città santa di Cufra, realizzato il reticolato fra Bardia e Giarabub che avrebbe bloccato i rifornimenti ai ribelli dall’Egitto, il G. lanciò l’ultima offensiva contro i patrioti che si concluse con la cattura dello stesso capo della ribellione, l’ikhw ´n ‘Omar al-Mukht r. Con la sua impiccagione, avvenuta il 16 sett. 1931 nel campo di concentramento di Soluch, alla presenza di 20.000 Libici, si concludeva la lunga e sfortunata lotta contro gli invasori italiani.
Dopo dieci anni interamente spesi a braccare e a sterminare i patrioti libici, il G. cominciò a raccogliere i frutti della sua frenetica attività. Badoglio lo additò, infatti, alla riconoscenza di tutti gli Italiani di Libia. De Bono lo citò alla Camera e al Senato come benemerito della patria. Il 2 febbr. 1932 il ministro della Guerra C. Gazzera lo promosse al grado di generale di corpo d’armata per meriti speciali. Ebbe una sola delusione: sperava di essere nominato governatore della Libia, ma quell’incarico andò a I. Balbo, la cui prima mossa fu quella di disfarsi del G., di cui non condivideva i metodi brutali.
Al suo rientro in patria, nel 1934, Mussolini lo compensò comunque affidandogli l’ambito comando del corpo d’armata di Udine. E, poco dopo, il G. veniva promosso generale designato d’armata, il più alto grado in tempo di pace.
Intanto Mussolini preparava l’invasione dell’Etiopia, e il G. non poteva non essere della partita. Il 20 febbr. 1935 il capo del fascismo gli comunicò, infatti, che lo aveva nominato governatore della Somalia e comandante in capo delle truppe. Due giorni dopo il G. si imbarcò a Napoli sul “Vulcania” con una prima aliquota della divisione “Peloritana”.
In verità il G. si aspettava qualcosa di più del comando in Somalia, dove avrebbe dovuto limitarsi a stare sulla difensiva. Egli aspirava al comando sul fronte Nord, da dove sarebbe partita l’invasione e dove si sarebbero combattute le battaglie decisive.
Ma il G. non era uomo da arrendersi. Con la connivenza e l’appoggio determinante di Mussolini, che apprezzava questo generale aggressivo e spregiudicato, e con la complicità del sottosegretario alle Colonie A. Lessona, riuscì a ribaltare il ruolo assegnato al fronte Sud e a fare della Somalia una testa di ponte per l’attacco all’Etiopia, ponendosi addirittura come obiettivo finale la conquista di Harar, la seconda città per importanza dell’Impero etiopico.
Scavalcando i vertici dello stato maggiore, il G. acquistò sui mercati inglesi di Mombasa e di D r es-Sal ´m e poi negli Stati Uniti alcune migliaia di pesanti autocarri, di trattori cingolati, di rimorchi, per consentire al suo esercito di 55.ooo uomini di muoversi rapidamente e su qualsiasi tipo di terreno.
Il 3 ott. 1935, mentre le armate del generale De Bono varcavano il Mareb sul fronte Nord dando inizio all’invasione dell’Etiopia, il G. era in grado di partecipare all’offensiva attaccando sull’intero fronte di 1100 km.
Durante i sette mesi del conflitto italo-etiopico il G. si palesò come il più dinamico fra i generali impegnati nel conflitto. Mentre De Bono sostava a Macallè e sembrava non avere più fiato per proseguire l’avanzata, tanto che Mussolini era costretto a sostituirlo con Badoglio, il 10 genn. 1936 il G. andava incontro all’armata di ras Destà Damtù, la sbaragliava e ne inseguiva i resti sin oltre Neghelli.
Maggiori difficoltà incontrò invece sul fronte dell’Ogaden, dove operava l’armata del giovane deggiac Nasibù Zemanuel, bene equipaggiata e particolarmente motivata. Per poter far avanzare le sue truppe autocarrate, il G. dovette risolvere problemi logistici estremamente ardui, come la costruzione di centinaia di chilometri di strade e il trasporto dei rifornimenti dai porti sull’Oceano Indiano, che distavano dal fronte più di 1000 km. Ma il 15 apr. 1936 era in grado di attaccare la “linea Hindenburg”, ideata dal generale turco Wehib pascià. E in tre settimane, pur incontrando una forte resistenza, fece a pezzi l’armata di Nasibù e conquistò Giggiga e poi Harar negli stessi giorni in cui Badoglio si impadroniva di Addis Abeba.
Per conseguire queste vittorie, che gli fruttarono il bastone da maresciallo e il titolo nobiliare di marchese di Neghelli, il G. adottò i metodi più spietati.
Fu il primo a impiegare i gas per rallentare la marcia di ras Destà su Dolo. Non esitò, per logorare il morale degli avversari, a sottoporre le città di Harar, Giggiga e Dagabùr a bombardamenti a tappeto. Usò la divisione “Libia”, costituita esclusivamente da soldati di fede musulmana e perciò nemici implacabili degli Etiopici di religione cristiana, come uno strumento per seminare panico e orrore, perché i Libici non facevano prigionieri. Autorizzò, inoltre, il bombardamento di un ospedale da campo svedese, provocando il disappunto dello stesso Mussolini, che si preoccupò per l’indignazione che l’episodio aveva suscitato a livello mondiale.
Oltre che il bastone da maresciallo, il G. trovò ad Addis Abeba l’ambitissimo incarico di viceré d’Etiopia, che Badoglio fu ben felice di trasmettergli ansioso com’era di ritornare in Italia a riscuotere premi e trionfi. Oltretutto Badoglio lasciava il G. in una situazione pressoché disastrosa: tre quarti dell’Impero etiopico erano ancora da conquistare.
Almeno 100.000 soldati del negus erano ancora in armi e la stessa Addis Abeba, appena conquistata, era in realtà assediata dai patrioti etiopici. Per finire, Mussolini esercitava pressioni perché l’Etiopia fosse integralmente occupata, dato che aveva annunciato al mondo che il fascismo aveva ridato a Roma il suo Impero immortale.
Finita la stagione delle piogge, il G. ruppe l’assedio che soffocava Addis Abeba, rese agibili le strade e la ferrovia da Gibuti che assicuravano i rifornimenti alla capitale, coordinò una serie di operazioni di polizia coloniale per stroncare i reparti etiopici ancora in armi, guidati da ras Destà, da ras Immirk e dai tre figli di ras Cassa.
Anche in queste operazioni, che si conclusero nel febbraio 1937 con il completo annientamento degli Etiopici, il G. adottò la politica del pugno di ferro. Non riconoscendo ai suoi avversari il diritto di battersi in difesa della loro patria, fece impiccare ras Destà e fucilare i fratelli Cassa. La stessa sorte toccò all’abuna Petros che cadde ucciso mentre benediceva con la croce copta gli otto carabinieri del plotone di esecuzione.
Tanta crudeltà non poteva non generare sdegno, rancori e desideri di vendetta. Il 19 febbr. 1937, mentre il G. assisteva a una cerimonia all’interno del recinto del “Piccolo Ghebì”, due eritrei, Abraham Debotch e Mogus Asghedom, lanciarono sul gruppo delle autorità italiane alcune bombe che causarono la morte di sette persone e il ferimento di altre cinquanta, tra le quali il viceré, il cui corpo recava i segni di 350 schegge. Dall’ospedale, dove fu prontamente ricoverato, il G. ordinò di mettere in stato d’assedio la città lasciando al federale fascista G. Cortese il compito di organizzare la rappresaglia, che fu selvaggia e indiscriminata.
Per tre interi giorni squadre di militari e di civili italiani e di ascari libici percorsero le vie della capitale incendiando le abitazioni degli indigeni e massacrando tutti gli Etiopici che giungevano a tiro. Un preciso bilancio della strage non fu mai fatto, e anche se appare esagerata la cifra di 30.000 morti, avanzata nel dopoguerra dalle autorità etiopiche, è certo che le vittime della repressione non furono meno di 4000.
Ma non era che l’inizio. Stimolato da Mussolini, che esigeva si desse inizio nell’Impero a un “radicale repulisti” (Arch. centr. dello Stato, Fondo Graziani, b. 33), il viceré, non riuscendo a mettere le mani sui veri esecutori dell’attentato, si vendicò ordinando la liquidazione dell’intera intellighenzia etiopica, dei cadetti dell’Accademia militare di Olettà e persino di migliaia di indovini e cantastorie, la cui sola colpa era quella di aver diffuso profezie sull’imminente crollo in Etiopia del dominio italiano.
Alla fine di agosto, i soli carabinieri avevano passato per le armi 2509 indigeni; senza contare altre migliaia di Etiopici tradotti nei campi di concentramento di Nocra e di Danane, mentre i notabili non collaborazionisti erano stati inviati in esilio in Italia. Essendo infine emersa l’ipotesi che a ispirare gli attentatori fosse stato il clero copto della città conventuale di Debra Libanòs, il G., pur non disponendo che di vaghi indizi, ordinò al generale P. Maletti di passare per le armi tutti i monaci e i diaconi della città santa e di confermare l’esito delle operazioni con le parole “liquidazione completa”. Già ufficiale subalterno del G. in Libia, avvezzo a eseguire gli ordini nella maniera più tassativa, Maletti portò a termine la sua missione tra il 21 e il 27 maggio 1937, prima rastrellando tutti i religiosi di Debrà Libanòs e successivamente sopprimendoli con raffiche di mitragliatrice nelle località di Laga Wolde e di Engecha. Dai telegrammi inviati dal viceré a Mussolini risulta che le vittime delle stragi furono 449. Ma da indagini compiute sul campo negli anni Novanta, le dimensioni delle stragi appaiono ben più rilevanti, tanto che si è ipotizzata una cifra che oscilla tra i 1400 e i 2000 morti (I.L. Campbell – D. Gabre-Tsadik, La repressione fascista in Etiopia: la ricostruzione del massacro di Debra Libanòs, in “Studi piacentini”, 1997, n. 21, pp. 70-128).
A differenza di altri massacri – dei quali in seguito il G. cercò di scaricare la colpa su Mussolini e Lessona, o su alcuni suoi subalterni -, quello di Debra Libanòs non lo inquietò affatto, tanto che se ne assunse l’intera responsabilità e anzi se ne fece persino un titolo di merito.
“Non è millanteria la mia – scrisse poi in un documento – quella di rivendicare la completa responsabilità della tremenda lezione data al clero intero dell’Etiopia con la chiusura del convento di Debra Libanòs, che da tutti era ritenuto invulnerabile, e le misure di giustizia sommaria applicate sulla totalità dei monaci, a seguito delle risultanze emerse a loro carico” (Fondo Graziani, I primi venti mesi dell’Impero, b. 56).
Il ripetersi delle stragi provocò, nell’estate del 1937, una ribellione che, dal Lasta, si estese presto a quasi tutte le regioni dell’Etiopia, mettendo in serio pericolo molti presidi italiani. Il G. fu costretto a chiedere rinforzi in patria, che Mussolini concesse non risparmiando però al viceré rimproveri venati di sarcasmo. Pur avendo sfruttato a lungo la durezza e la crudeltà del G., Mussolini si rese finalmente conto che era giunto il momento di sostituirlo con un personaggio meno discusso. La scelta cadde su Amedeo di Savoia, duca d’Aosta, il quale, sulla scia di Balbo, chiese e ottenne da Mussolini che il G., il quale si era offerto come comandante delle truppe in Etiopia, venisse subito richiamato in Italia.
Rimosso dal suo incarico, il G. lasciò Addis Abeba il 10 genn. 1938. A Roma, comunque, a consolarlo, ci fu il pubblico abbraccio di Mussolini, il quale, però, con G. Ciano così si espresse: “Ha combattuto bene, ma ha governato male” (G. Ciano, Diario, 1937-1938, Bologna 1948, p. 122). Posto in disparte temporaneamente dal regime, il G. si ritirò nella sua casa di Arcinazzo Romano, dove scrisse due relazioni, rimaste inedite, con le quali cercò di dimostrare che tutti i torti erano degli altri e tutti i meriti suoi.
L’emarginazione del G. non durò, però, a lungo. Il 3 nov. 1939, ascoltando il giornale radio delle 13, apprese di essere stato nominato capo di stato maggiore dell’esercito, un incarico di grande rilevanza, ma che poco si addiceva – fu lui stesso a riconoscerlo – a un uomo d’azione. Ancora una volta il G. si trovò alle dipendenze di Badoglio, che ricopriva la carica di capo di stato maggiore generale. Se in Libia l’intesa fra i due era stata perfetta, e in Etiopia era emersa soltanto una comprensibile rivalità, a Roma, fra i due marescialli, si aprì subito un conflitto insanabile. Non soltanto il G. accusava Badoglio di nascondere a Mussolini l’assoluta impreparazione dell’esercito, ma quando, all’inizio della seconda guerra mondiale, fu mandato in Libia a sostituire Balbo, che era stato abbattuto con il suo aereo nel cielo di Tobruk, accusò il suo superiore di averlo mandato allo sbaraglio negandogli i rinforzi necessari, soprattutto camion, carri armati e artiglierie moderne, per poter invadere l’Egitto e puntare su Alessandria, come Mussolini esigeva con impazienza.
Pungolato dal duce con ripetuti e astiosi telegrammi, il G. si decise finalmente, il 13 sett. 1940, a varcare la frontiera egiziana. In pochi giorni si impossessò di es-Sollùm e di S+ d+ al-Barr ni, ma poi si rifiutò di proseguire per Marsa Matrk ´%‑ fintantoché Badoglio non gli avesse inviato i rinforzi promessi. Mentre il G. indugiava a S+ d+ al-Barr ni, il suo avversario, il generale A.P. Wavell, dopo aver potenziato il proprio esercito con i rinforzi giuntigli dall’Inghilterra e dall’Impero britannico, il 9 dicembre lanciava la controffensiva, che in soli tre giorni polverizzava cinque divisioni italiane. A questo punto il G. perse la testa.
“Dopo questi ultimi avvenimenti – telegrafò al comando supremo – riterrei mio dovere, anziché sacrificare la mia persona sul posto, portarmi a Tripoli, se mi riuscirà, per mantenere almeno alta su quel Castello la bandiera d’Italia, attendendo che la Madrepatria mi metta in condizioni di continuare ad operare” (Stato maggiore dell’Esercito, La prima offensiva britannica& , p. 119). Ce n’era abbastanza per rimuoverlo dal comando, subito, sul campo, ma Mussolini indugiò, perché non riusciva a credere che il conquistatore di Neghelli e di Harar, il fulmine di guerra elogiato persino dal conquistatore del Marocco, il maresciallo di Francia H. Lyautey, potesse crollare così all’improvviso.
Invece in Egitto il maresciallo aveva semplicemente rivelato i suoi limiti. Un conto era battersi con formazioni indigene male armate e un altro era misurarsi con un esercito regolare, che metteva in campo le migliori truppe dell’Impero mondiale britannico. Quando, l’8 febbr. 1941, dopo aver perso l’intera Cirenaica e parte della Sirtica, il G. si decise infine a chiedere a Mussolini di essere esonerato da ogni incarico, il duce non ebbe più esitazioni, lo richiamò in patria e aprì un’inchiesta sul suo operato.
Posto per la seconda volta in disparte dal regime, accusato, fra l’altro, di codardia, per aver diretto le operazioni da una tomba tolemaica di Cirene, profonda trenta metri e lontana dal fronte alcune centinaia di chilometri, il G. si rifugiò presso Arcinazzo, dove scrisse l’ennesimo memoriale difensivo. Sembrava un uomo finito, uscito definitivamente dalla scena.
Ma era destino che tornasse di nuovo alla ribalta e che a riabilitarlo, affidandogli il ministero della Guerra, fosse proprio Mussolini, che pure non aveva nascosto il suo disprezzo per lui. Ciò accadde dopo il crollo del fascismo e la costituzione del governo fantoccio di Salò.
Difficile spiegare la scelta del maresciallo. I suoi accusatori la motivarono con la sfrenata ambizione, il desiderio di rivincita, il rancore nei confronti dell’eterno rivale Badoglio, che aveva scelto il campo opposto. Il G., in un suo memoriale, replicò sostenendo che aveva accettato “coscientemente la suprema missione che il destino mi segnava, firmando da quel momento il mio sacrificio per il bene della Patria” (Ho difeso la Patria, p. 369).
Anche durante il processo che gli venne intentato nel 1948, il maresciallo giustificò la sua scelta con l’amor di patria, il senso dell’onore, lo spirito di sacrificio, e si attribuì il merito di avere attenuato, con il suo operato, i rigori dell’occupazione nazista. Le cose, in realtà, andarono diversamente. Il G., come Mussolini, fu soltanto un burattino nelle mani dei Tedeschi. In effetti, nella Repubblica sociale italiana, al G. toccò soltanto di esercitare la funzione amministrativa mentre quella operativa dipendeva totalmente dalle autorità germaniche.
Nominalmente il G. era a capo dell’armata “Liguria”, ma in realtà, a comandare, erano i generali Schlemmer e Jahn. Quanto alle quattro divisioni italiane istruite in Germania, esse non si batterono per riscattare l’onore dell’Italia come il G. sperava e predicava; di fatto furono quasi esclusivamente impiegate nella caccia ai partigiani. Il G. fu inoltre l’uomo che firmò i famigerati bandi che chiamavano alle armi i giovani delle classi 1924 e 1925 e che minacciavano la pena di morte ai renitenti. Non sorprende, quindi, che egli fosse in cima alla lista dei personaggi da abbattere compilata dai partigiani alla vigilia dell’insurrezione.
Ma il maresciallo, a differenza di Mussolini e di altri gerarchi responsabili di venti mesi di stragi, riuscì a sottrarsi alla giustizia popolare. Posto in salvo dal capitano italo-americano E. Daddario, con il consenso del generale R. Cadorna, il G. fu trasferito il 29 apr. 1945 al comando del IV corpo d’armata corazzato americano di stanza a Ghedi. In seguito, dopo un breve soggiorno a Roma, fu condotto in Algeria dove diventò semplicemente il “prisoner of war” n. AA/253402. Il 16 febbr. 1946 gli Alleati lo consegnarono alla giustizia italiana e l’indomani egli fece il suo ingresso nel carcere di Procida, dove diventò il detenuto n. 220. Sul finire del 1946 fu trasferito da Procida a Roma, nel carcere di forte Boccea, poi, essendosi aggravate le sue condizioni di salute, nell’ospedale militare del Celio.
Rinviato a giudizio l’11 ott. 1948 dinanzi alla corte di assise di Roma e poi, avendo questa riconosciuto la propria incompetenza per materia, dinanzi al tribunale militare speciale di Roma, il G., il 2 maggio 1950, fu condannato a 19 anni di carcere per “collaborazionismo militare col tedesco”; ma, grazie ai vari condoni, quattro mesi dopo il verdetto poteva tornare in libertà.
Il governo imperiale etiopico chiese, in applicazione dell’art. 45 del trattato di pace, la sua estradizione per processarlo per i numerosi crimini di guerra, ma la richiesta di Addis Abeba cadde nel vuoto.
Trascorse gli ultimi anni fra la casa di Arcinazzo e quella romana ai Parioli. Non seppe resistere agli inviti dei neofascisti a rientrare in politica e finì per accettare, nel marzo 1953, la presidenza onoraria del Movimento sociale italiano. In precedenza aveva tentato, con il “patto di Cassino”, di raggruppare le associazioni combattentistiche di destra, ma senza successo. Ricoverato d’urgenza per un’ulcera duodenale, fu operato da P. Valdoni, ma il suo fisico era già troppo debilitato per poter superare la prova.
Si spense a Roma l’11 genn. 1955.

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UN MITO DURO A MORIRE…

… «Italiani, brava gente?» di Angelo Del Boca (la recensione di db)

«La nostra venuta, dal lato dello scopo umanitario, è stata perfettamente inutile. Ormai è chiaro che tutta la storia della guerra è stata gonfiata (…) i massacri quasi di sana pianta inventati». Ancora: «Ho sentito dire di una grande missione di civiltà, renderci amiche quelle popolazioni, rispettarne la religione, la proprietà e la famiglia, far loro apprendere i benefici della civiltà ma io vedo dappertutto l’ombra della forca».

Di quale recente guerra umanitaria parlano queste accorate denunce? Far apprendere i benefici della civiltà o guerre per scopi umanitari non sono pretesti nuovi. Infatti la prima citazione è del 2 ottobre 1900 in una lettera del tenente medico Giuseppe Messerotti Benvenuti e si riferisce alla partecipazione italiana nella cosiddetta “guerra contro i boxer” in Cina; la seconda frase è di Filippo Turati il quale nella seduta parlamentare del 18 dicembre 1913 si scagliava contro le infamie italiane in Libia.

Questi esempi sono ripresi dall’ultimo libro dello storico Angelo Del Boca, «Italiani, brava gente?» (Neri Pozza, 320 pagine, 16 euro) con il sottotitolo “Un mito duro a morire” che però l’editore ha omesso nella copertina.

Un libro da leggere, da regalare… non solo ai più giovani ma a chi vuol dimenticare e ai tanti che non hanno mai saputo. Dal punto di vista storico c’è ben poco di nuovo: a cercare nelle biblioteche si trova tutto ma è un patrimonio condiviso da relativamente poche persone, nonostante le molte pubblicazioni di Del Boca (con buone vendite) o di qualche altro storico e di rari giornalisti contro-corrente. Il principale merito di questo nuovo libro è nella sintesi accompagnata, come sempre, dall’efficacia del raccontare, dalla forza delle fonti, dall’onestà intellettuale di chi non accetta di registrare solo quel che torna a puntello di tesi precostituite.

«Pagine buie della nostra storia» sintetizza la quarta di copertina. Il libro apre con alcune riflessioni sulla identità (e sulla “reputazione”) degli italiani e prima di chiudersi sull’oggi, con considerazioni tutto sommato ottimistiche, squarcia il velo che avvolge 11 momenti della nostra storia. Eccoli in sintesi: il cosiddetto brigantaggio; l’isola-lager di Nocra davanti a Massaua; la tragicomica partecipazione italiana alla campagna contro i boxer in Cina; stragi, sconfitte e deportazioni nella prima “impresa” libica; le infamie di Cadorna (e non solo) durante la prima guerra mondiale; i molti misfatti africani del fascismo (in Somalia, poi nella ri-occupazione della Libia, e in due capitoli sull’aggressione all’Etiopia); il tentativo di «bonifica etnica» in Slovenia; infine la «resa dei conti» cioè il crollo del fascismo e la lotta di Liberazione (ma fu anche guerra civile) fino all’epurazione mancata contro i criminali fascisti con una permanente amnesia.

In questa lunga vicenda vi sono evidentemente sia elementi di continuità che di rottura; in particolare fra l’Italia del fascismo e quelle subito precedente o successiva. Mussolini insisteva sulla necessità che gli italiani si mostrassero feroci ma padre Agostino Gemelli aveva sostenuto, durante il massacro del ‘15-18, che «la miglior qualità del soldato nella guerra di massa e di lunga durata è appunto l’assenza di ogni qualità: l’essere rozzo, ignorante, passivo. Solo così è possibile appieno quella trasformazione della sua personalità (…) che fa di lui un perfetto pezzo della macchina bellica (…) il soldato cessa di essere padre, marito, cittadino per essere solo soldato». Quanto all’Italia repubblicana e democratica annota fra l’altro Del Boca che «la frustrazione e l’indignazione dei partigiani sarebbero stati anche maggiori se soltanto avessero saputo ciò che oggi noi sappiamo da quando sono stati desecretati i documenti dell’Office of Strategic Services»: per esempio che già «nell’ottobre 1945 ufficiali della Decima flottiglia Mas erano utilizzati presso una base sperimentale alleata a Venezia» o che nel novembre 1945 gli alleati cercavano di «sottrarre il principe Valerio Borghese alla giustizia italiana».

Il capitolo più sorprendente è forse quello sul brigantaggio, sulla censura che – dopo 150 anni – ancora avvolge un fenomeno complesso quanto poco esplorato: repressioni del tutto ingiustificate, campi di concentramento per meridionali, censure che resistono dopo un secolo e mezzo. Così commenta Del Boca: «Quante sono le vittime di questa insulsa guerra fratricida? Le statistiche sono scarse e sicuramente incomplete». Eppure oggi sarebbe possibile tracciare un quadro più veritiero anche perché «sono finalmente disponibili gli inventari dei documenti conservati negli Archivi di Stato e sono di più facile accesso l’Archivio segreto Vaticano e alcuni archivi spagnoli». Ma quando qualcuno prova a riaprire questa pagina ancor oggi fioccano (da destra e non solo) le accuse di “lesa patria”.

Questa incapacità di fare i conti con la storia è confermata – oggi, cioè nell’Italia democratica – da molti episodi: la permanente censura contro un film hollywoodiano («Il leone del deserto») colpevole solo di raccontare i misfatti italiani in Libia; il racconto a senso unico delle “foibe”; le reticenze sugli “armadi della vergogna” (cioè i documenti occultati sui crimini di guerra nazifascisti); la Rai che acquista dalla Bbc e traduce… per non trasmetterlo, «Fascist Legacy», un prezioso documentario inglese (di Ken Kirby) del 1989. Ed è in questa amnesia collettiva che può confermarsi, e forse rinascere, il ritornello dell’italiano comunque «buono e bravo» del quale il ministro Fini, in chiusura del 2005, ci ha cantato una nuova strofa. Il 28 dicembre infatti, rivolgendosi al contingente militare italiano nei Balcani, il ministro Gianfranco Fini ha detto: «Gli italiani per la loro storia non saranno mai percepiti come truppe d’occupazione ma di liberazione dalla guerra civile, dalla miseria e dalla povertà». Senza dubbio Fini va bocciato in storia: sia che si riferisse genericamente alle truppe italiane fuori dai confini sia che pensasse ai soli Balcani. Può verificarlo acquistando appunto, con soli 16 euro, «Italiani, brava gente?». Bisogna per onestà ammettere che il ministro Fini resta in larga compagnia: contrariamente alla Germania, l’Italia non ha saputo fare i conti con le ombre del suo passato. Così il mito dell’italiano «bravo», persino in guerra e addirittura nelle avventure coloniali, può resistere perché a scuola come nei media la maggior parte degli italiani è privata di decisive informazioni e alla voce degli storici scomodi (in testa Del Boca) vien messa la sordina. «L’Italia è ripetente, spesso promossa in latino, sempre bocciata in storia, all’ombra del tricolor» come suggeriva un cantautore ribelle degli anni ’60.

Anche per questo fare i conti con “guerre umanitarie” di oggi (Iraq ma anche Kossovo, per citare le ultime due dove sventola il tricolore) è difficile: i governi attuali dipingono di nuovo le imprese armate come portatrici di civiltà e pochi vanno a verificare. Mentre persino il presidente Ciampi resuscita un ambiguo concetto di patria. Per questo spiace che, quasi in chiusura dell’ultimo capitolo Del Boca, dopo tantissime affermazioni giuste (anche sull’Italia di oggi: «tutti ricchi, tutti felici, tutti anticomunisti» è l’ironico titolo), si lasci scappare questa frase sulle missioni di peace-keeping: «Dovendo fare confronti, si può persino sostenere che i militari italiani si sono comportati meglio dei colleghi degli altri contingenti. E non è poco, se pensa al passato». Non è poco a confronto degli orrori precedenti, d’accordo; ma appare riduttivo quanto si legge nell’ultima nota del libro, appunto a proposito del peacekeeping: «Un solo neo: durante la missione Restore Hope nel ’93 in Somalia (…) furono denunciati alcuni casi di violenza su prigionieri somali». Non fu l’unico caso, non è il solo “neo”: dal Kossovo come dall’Irak filtrano molte notizie vergognose anche se il coro mediatico preferisce parlare d’altro, negare, invocare assoluzioni senza processi. Davvero “un mito duro a morire” quello di noi «italiani, brava gente».

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Del Boca, lo storico che insegnò agli italiani che non erano brava gente – Francesco Filippi 

Angelo del Boca è stato tante cose: partigiano, giornalista, saggista e soprattutto storico; uno dei più grandi e influenti storici del Novecento italiano. Anche se per anni in molti, nel Paese di cui raccontò la storia, non la pensavano così. Estraneo all’accademia, quella che negli anni in cui lui portava avanti la propria indagine rimaneva abbarbicata alle proprie posizioni di rendita, Del Boca è stato soprattutto un indagatore, e di quelli bravi: un ricercatore che per informarsi o scrivere un pezzo sente la necessità di conoscere e vedere coi propri occhi. Un rigore per la fonte, per la realtà fattuale, che all’epoca fece deviare la sua carriera dal giornalismo portandola sui binari della ricerca storica. Uno “sbandamento” che avvenne a causa di uno dei grandi buchi neri della memoria pubblica: il colonialismo italiano con la sua barbarie.

È il 1965 quando si mette a scrivere e pubblica a puntate su La Gazzetta del Popolo un’inchiesta sull’invasione fascista dell’Etiopia. La ricerca darà vita a un libro, La guerra d’Abissinia 1935-1941, primo faro puntato sul passato prossimo di un’Italia ancora incrostata di narrazioni zoppicanti, omissioni e vere e proprie mistificazioni. Un lavoro pionieristico, coraggioso, che esce quando ancora il tema del passato coloniale è in mano a strutture come Il Comitato per la documentazione dell’opera dell’Italia in Africa, ente pubblico post coloniale dominato da figure che fino al 1941 furono “colonialisti attivi”, impegnati poi, negli anni della Repubblica, a tenere sotto controllo gli archivi coloniali per evitare che ne uscissero scomode verità e a pubblicare volumi encomiastici che avevano la funzione di raccontare agli italiani come bonari esportatori di civiltà.

Quel libro, che parlava di soprusi, violenze e stermini, fu un primo sasso lanciato contro il muro di omertà sulle responsabilità italiane nella corsa fascista all’Africa. Una sassata dirompente non solo perché ineccepibile dal punto di vista storiografico ma anche perché, ed era una bella novità per l’Italia del tempo, scritto benissimo.

Infatti, tra le molte altre cose, Angelo Del Boca era quel che si dice una penna felice, che ricorda bene la vecchia regola del mestiere di storico: scrivere di storia significa anche scrivere “una” storia.

La godibilità dei suoi saggi fu la chiave della loro diffusione e il grimaldello grazie a cui una parte dello sbarramento di omertà sulle vicende degli “italiani in Africa” creatosi dopo la guerra cominciò a cedere. Del Boca, il ricercatore non accademico, veniva letto, e le questioni poste dai suoi scritti cominciarono a infiltrarsi nella coscienza storica degli italiani.

Al primo libro seguirono altri, fondamentali tasselli per la ricostruzione della nostra memoria storica: su tutti i volumi dal titolo Gli italiani in Africa orientale e Italiani in Libia (Laterza), che ridisegnano il modo stesso di leggere il rapporto tra l’Italia e le sue colonie. Un vero e proprio terremoto che fece riemergere nella memoria un intero continente scomparso: quell’Africa invasa e sfruttata per un ottantennio e poi dimenticata in fretta in un’Italia proiettata al futuro dell’industrializzazione.

Un lavoro che cambiò la storiografia ma che condizionò pesantemente la stessa vita di Del Boca. Per anni fu attaccato brutalmente dall’estrema destra, che cercò addirittura di trascinarlo in tribunale, e venne difeso poco o nulla da quell’accademia a cui aveva la colpa di non appartenere. Famigerato lo scontro con Indro Montanelli, che ancora negli anni Novanta dichiarava dalle colonne del Corriere della Sera che lui i gas in Africa non li aveva mai visti e che quindi non c’erano. Lo scontro finì con Montanelli a fare retromarcia a denti stretti di fronte all’inconfutabilità delle fonti presentate da Del Boca, il quale fino a poco prima era stato sbertucciato dalla destra come un mitomane o, peggio, definito traditore.

La diatriba con Montanelli fu una grande lezione, per la storiografia in generale e per le ricerche sul rapporto tra storia e memoria in particolare: insegnò che a volte nemmeno le evidenze fattuali possono scalfire le narrazioni di comodo messe in campo per nascondere un passato non gradito.

Contro questi racconti cristallizzati Del Boca spese negli anni le sue energie, nella consapevolezza che senza un passato “sincero” non si sarebbe potuto avere un presente realmente pacificato.

Il suo Italiani, brava gente? (Neri Pozza, 2005), che cita nel titolo un vecchio adagio della vulgata sul “buon italiano”, smonta con precisione i falsi miti bellici mettendo il dito in una piaga mai realmente rimarginata, quella delle molte guerre sporche degli italiani. Un saggio dall’enorme successo editoriale ed esempio di meticoloso debunking storico contro i falsi miti storici italiani che col suo effetto dirompente segna un “prima” e un “dopo” nella memoria pubblica del Paese.

Angelo Del Boca, uomo del Novecento, divenne storico “sul campo”, con l’acume delle sue tante pubblicazioni – più di 70 titoli – e “dal campo” della ricerca insegnò a generazioni di storiche e storici che quello di chi studia il passato non può che essere un attento lavoro di scavo per portare alla luce i fatti, unico modo efficace per togliere di mezzo le scorie che ostruiscono il cammino di una società verso un rapporto sincero col proprio passato e, quindi, col proprio futuro.

https://www.micromega.net/del-boca-lo-storico-che-insegno-agli-italiani-che-non-erano-brava-gente/

 

SU ANGELO DEL BOCA E IL SUO «VIAGGIO NELLA LUNA» – Clau d’Io

A volte da fatti casuali possono nascere davvero grandi cose. Soprattutto quando tali fatti vengono ad assumere il carattere di vere e proprie folgorazioni.

Conoscevo Angelo del Boca come il più importante e documentato storico sul colonialismo italiano e quindi, dopo aver letto la sua ultima fatica, «Italiani brava gente», avevo pensato di invitarlo a Imola per una presentazione, nell’ambito del ciclo di incontri che organizziamo regolarmente come Circolo studi sociali Errico Malatesta. La sua visione non retorica ma sapientemente critica del nostro “imperialismo straccione” (tanto di quello dell’Italia liberale, quanto di quello fascista) sarebbe certamente stata accolta con interesse dal numeroso e partecipe pubblico presente ai nostri incontri. Pur apprezzando la proposta, Angelo Del Boca, con quella cortesia che avrei poi imparato a conoscere e apprezzare sempre più, si trovava costretto a declinare l’invito, giustificando tale rinuncia con l’incalzare di una età, sicuramente non più tanto verde.

Ma ecco, parlando del nostro Circolo e degli anarchici imolesi, la rivelazione: «Mi dispiace particolarmente di non poter venire anche perché ho grande rispetto nei confronti degli anarchici… durante la guerra partigiana sono stato ufficiale di Emilio Canzi, unico comandante della XIII zona, e ne conservo un ricordo straordinario».

Proprio in quei giorni era uscito, pubblicato da «A-rivista Anarchica», un inserto dedicato al “Colonnello anarchico” citato da Del Boca, quell’Emilio Canzi, anarchico, antifascista, combattente in Spagna a difesa della rivoluzione, che fra il 1943 e il 1945 comandò, con grande sapienza tattica e altrettanta generosa umanità, le forze partigiane di tutto il piacentino. Una figura tanto straordinaria quanto scomoda, nella sua assoluta indipendenza intellettuale. Scomoda, decisamente, anche per quell’ordine che stava cominciando a subentrare, con totalitaria grevità, al precedente. Non a caso morì nella sua Piacenza in circostanze “misteriose” pochi giorni dopo la Liberazione, e infatti anche Del Boca non manca di rammentarmi: «e si ricordi, l’hanno ucciso. Non ha avuto un malore, l’avevo visto pochi giorni prima e stava bene». E’ qui che accanto allo storico, allo studioso, si affianca ancora il partigiano, con tutte le sue passioni e i suoi sentimenti. Perché, come lui stesso vuole ricordarmi, «se partigiani lo si è per scelta, partigiani lo si è per sempre».

Naturalmente queste sue confidenze, accompagnate da tanta cordialità, non potevano restare senza risposta, e io comincio a ragionare su come rendere fertile e produttiva questa nuova, inaspettata comunanza di interessi culturali e tensioni ideali. Dopo una full immersion nei suoi testi di storia e la frenetica lettura della sua autobiografia (non mi è stato poi così difficile trovare, presso qualche libraio antiquario, anche le sue opere più lontane nel tempo) la decisione: devo avere una sua testimonianza diretta, una sua riflessione accompagnata ai ricordi, sulla guerra partigiana, sugli anarchici da lui conosciuti, su Emilio Canzi.

E quindi si parte. Nell’estate 2008 ci rechiamo a Crodo, presso il Centro Studi Ginocchi che lui ha contribuito a creare e a dirigere, per incontrarlo di persona, io e i due tecnici di ripresa incaricati della esecuzione tecnica della intervista-video che abbiamo concordata. Comincia l’intervista ed è un viaggio affascinante quello per il quale ci conduce, che attraversa vite ed esperienze che ai nostri occhi hanno quasi dell’incredibile, per la eccezionalità della fase storica attraversata, per la eccezionalità con la quale si è saputa affrontare tale fase, sempre drammatica, a volte tragica, ma sempre conservando la propria dignitosa umanità.

Nel congedarci mi chiede se ho quello che lui ritiene essere il suo scritto migliore, un racconto, «Viaggio nella luna». Mi descrive la trama, mi avvince, poi me ne regala una copia, una delle ultime rimastegli. Dopo averlo letto, il progetto che mi sta a cuore, e non poteva che essere così, assume altre dimensioni: con il suo generoso consenso, ripubblicare la riedizione del racconto corredata dalle preziose illustrazioni, che accompagnino il testo, dell’artista e caro amico Fulvio Fusella. A fianco l’intervista: non più soltanto quella iniziale pensata come semplice testimonianza da depositare presso l’Archivio storico della Federazione Anarchica Italiana ma qualcosa di più completo che potesse riportare alla luce, da quella miniera che è stata la vita di Del Boca, tutto il suo materiale prezioso.

Da poco Carlo Lucarelli aveva pubblicato, in uno dei suoi più riusciti romanzi, una avvincente ricostruzione dei drammatici giorni di Adua («L’ottava vibrazione», Einaudi 2008) sicuramente e necessariamente documentandosi soprattutto sui libri di Del Boca. La narrazione dell’atmosfera cupa e sensuale di quelle torride giornate sul Mar Rosso e sugli altopiani etiopi, riflette, in modo speculare, la profondità e la precisione con la quale lo storico Del Boca ha saputo narrare, con un altro registro, gli stessi avvenimenti. Per questa evidente affinità, mi sembra lui la persona più indicata per condurre, con la maggior cognizione di causa, l’intervista. Evidentemente anche Carlo deve pensarla così e infatti non c’è bisogno di convincerlo, si parte e il risultato è qui, sotto i nostri occhi, straordinario come altrimenti non poteva che essere.

Se cercate il libro:

  • Editrice La Mandragora

via Selice 92 – 40026 Imola (Bologna)
0542 642747
e-mail: info@editricelamandragora.it

Un POST SCRIPTUM di «Clau d’Io»

Col tempo siamo diventati amici, o meglio mi onora della sua amicizia. Ora scriverei ben altro, nella introduzione a «Viaggio nella luna». Inizio col dire che è tra i primi suoi scritti e racconta sì di partigiani ma sopratutto è letteralmente un viaggio che lo porta a sfiorare la follia. Rimane attardato dal suo gruppo e deve ricongiungersi. Sembra un viaggio di mesi, anni. In realtà sono pochi giorni. Aveva 20 anni ed era il comandante del gruppo scelto del XII zona.

Era stato addestrato a Genzevag in Germania con parte della divisione Monterosa: era il campo di addestramento dei corpi speciali tedeschi. Ne escono addestratissimi e armatissimi. Come e perché era li, come e perché poi è finito partigiano ve lo lascio scoprire da soli. Qui vi invito a leggere la sua biografia «Il mio Novecento» (Neri Pozza, 2008). Altro che le avventure di Salgari. La sua vita è stata tutta una avventura. Lui ha vissuto la storia, anzi, le storie. Nei primi anni ’60, con i suoi vecchi compagni e altri, pensa di ritornare sui monti. Poi altre e infinite avventure. Un giorno riceve una telefonata e, la faccio breve, Tito lo aveva insignito di una delle massime onoreficenze della Jugoslavia. Lui non lo conosceva e con la Jugoslavia non ci aveva a che fare. Aveva solo scritto un articolo, in epoca non sospetta, dove raccontava che la vulgata patriottarda e di destra sulle foibe era una bufala. E qui la lettura di «Italiani, brava gente?» (Neri Pozza, 2005) è doverosa.

Il 23 maggio compie 91 anni. Ancora oggi, in Etiopia, viene considerato alla stregua di un eroe. Nel 2014 l’Etiopia laurea Angelo Del Boca “honoris causa” per gli studi sul colonialismo: unico europeo a riceverlo, è stato insignito per il suo decisivo contributo alla ricostruzione delle responsabilità del fascismo nello sterminio delle popolazioni libiche ed etiopiche.

Sulla Libia e Gheddafi ha sempre detto, fin dal primo giorno e maledicendo Bernard-Henri Levy (la considerazione che ha per questo bel fighetto non può essere scritta, è turpiloquio allo stato puro) per quello che da Bengasi scriveva per fomentare la guerra: «La sua fine, voluta da Sarkozy, è stata salutata in modo incauto come una svolta positiva per il Nord Africa: è accaduto l’opposto e stiamo pagando le conseguenze di una instabilità politica terribile».

Le sue conoscenze sono incredibili. Il Centro di documentazione Del Boca-Fekini (CDDF) nasce nel 2005 dalla volontà dello scrittore e storico Angelo Del Boca di creare un polo in cui concentrare il risultato delle proprie ricerche e di offrire gli strumenti per far progredire gli studi sulla storia moderna e contemporanea dell’Africa e del Medio Oriente. L’incontro con Anwar Fekini, nipote di Mohamed Fekini (1858-1950), uno degli eroi della resistenza libica all’occupazione italiana, ha contribuito alla realizzazione di questo progetto: cfr http://www.cddelbocafekini.org/

Anwar Fekini, avvocato internazionalista, si occupa di cause a livello planetario, Stati contro multinazionali. Capo della Cabila Rogebàn. L’ho conosciuto, assieme a tre suoi cugini. Erano a Crodo alla presentazione del libro «A un passo dalla forca: atrocità e infamie dell’occupazione italiana della Libia nelle memorie del patriota Mohamed Fekini» (Baldini Castoldi Dalai, 2007). E anche qui ci sarebbe da scrivere un “Mahabharata”, nel senso di lungo poema epico.

Mi fermo. Oggi Angelo Del Boca ha 91 anni, lo interpellano ancora come mediatore e massimo conoscitore per quanto riguarda le ex colonie italiane. Sulla Libia posso immaginare che se la linea italiana non è spiccatamente interventista – mi gioco un dente – ma qualche cosa lui c’entra. Continua a ripetermi che è il caos più caos che si possa immaginare. Ma come si fa a mettere d’accordo 150 tribù? Altro che Isis.

https://www.labottegadelbarbieri.org/su-angelo-del-boca-e-il-suo-viaggio-nella-luna/

 

Addio ad Angelo Del Boca, inviato speciale nella Storia – Alberto Negri

Non c’è scaffale di libreria in questo Paese dove non si intraveda un suo libro. Come partigiano nell’Oltrepò e nella Val Trebbia fu tra i liberatori d’Italia, un’Italia che poi lui, da storico, liberò dallo stereotipo degli “italiani brava gente” coltivato durante un colonialismo spietato ma che ci ostinavamo a raccontare diverso dagli altri. Da inviato speciale del Giorno – diretto da un altro partigiano, Italo Pietra – ci ha lasciato cronache dall’Africa e dall’Asia indimenticabili, come indimenticabili sono i ritratti dei protagonisti di quel Novecento, da Nehru a Gheddafi, che Angelo Del Boca percorse e scandagliò in profondità.

È stato il maggiore storico del colonialismo italiano, il primo studioso italiano ad occuparsi della ricostruzione critica e sistematica della storia politico-militare dell’espansione italiana in Africa orientale e in Libia, e primo tra gli storici a denunciare i numerosi crimini di guerra compiuti dalle truppe italiane durante le guerre coloniali fasciste.

Fu anche sempre presente nei momenti topici della nostra storia: intervenendo a contrastare sui media versioni false del passato e anche della cronaca contemporanea. Era il «nostro inviato» nella storia e nell’attualità. Sul manifesto di ieri Salinari ricordava la polemica con Montanelli sui raid con l’iprite in Etiopia. In Etiopia, Del Boca incontrò più volte l’imperatore Hailé Selassié, che gli aprì il suo archivio riservato. Del Boca scriverà un libro che diventò un best seller internazionale II Negus. Vita e morte dell’ultimo Re dei Re. Nel 2014 l’Università di Addis Abeba gli conferì una laurea honoris causa in storia africana rendendo Angelo Del Boca il primo italiano e il primo europeo a ottenere questo riconoscimento dall’Etiopia dopo la seconda guerra mondiale. Una stima che si è potuta leggere, affiancata a una serena critica, nel suo ritratto dell’imperatore etiopico in cui Del Boca conclude: «Qualunque sia il giudizio finale su Hailè Selassiè, la sua figura merita rispetto e considerazione. È impossibile non provare un senso di grande ammirazione e di riconoscenza verso l’uomo che il 30 giugno 1936, dalla tribuna ginevrina della Società delle Nazioni, denunciava al mondo i crimini del fascismo e avvertiva che l’Etiopia non sarebbe stata che la prima vittima di quella funesta ideologia».

Ma del Boca non guardava soltanto indietro. Il suo sguardo era puntato sempre anche sull’attualità. Criticò con forza i raid della Nato in Libia nel 2011 di cui ancora oggi tutti paghiamo le conseguenze. E intervenne anche con puntualità quando allora i media rilanciarono la fake news di fosse comuni con migliaia di vittime. La sua precisazione fu tagliente: «Innanzitutto è evidente anche dalle immagini che non si tratta di fosse comuni. Il luogo poi non è la spiaggia ma il cimitero di Tripoli perché si vedono un minareto e varie case che sono le ultime abitazioni della città, proprio dove comincia il cimitero». Non aveva mai smesso di essere un reporter. A Del Boca interessava appurare la realtà dei fatti, che fosse storia o cronaca.

E fu anche il primo a far raccontare la storia coloniale dai protagonisti e dai testimoni locali, non soltanto dalle fonti italiane, sempre di parte e assi edulcorate, se non censurate. Basta sfogliare alcune delle sue opere maggiori come Gli italiani in Libia ma anche alcune meno conosciute. Nello scaffale della libreria trovo un volume che forse è meno noto di altri, A un passo dalla forca, le memorie del patriota libico Mohammed Fekini. Nel 2006 Del Boca ebbe l’opportunità di consultare un documento di cui si ignorava l’esistenza, le memorie di Mohamed Fekini, capo della tribù dei Rogebàn, che come Omar el Mukhtar in Cirenaica fu uno dei più irriducibili oppositori alla dominazione italiana. Del Boca ci offre con la narrazione lucida e precisa di Fekini una ricostruzione finalmente completa e attendibile del periodo che va dal 1911, anno dello sbarco degli italiani a Tripoli, fino agli anni Trenta. Di quella conquista della “quarta sponda” che nell’arco di vent’anni fece 100mila vittime tra i libici.

Altro che italiani brava gente.

da qui

 

 

Il j’accuse di Del Boca: “quella era l’Italia peggiore” – Gianfranco Pagliarulo

Revisionismi e faziosità non hanno permesso al nostro Paese di fare i conti con il passato. Nel 2009 in una intervista di Gianfranco Pagliarulo tratta da “Italiani brava gente? Viaggio nel cuore di tenebre degli italiani”, Itsos Albe Steiner Comunicazioni multimediali, lo storico Angelo Del Boca sfata il mito di “tutti brava gente” che ha accompagnato le vicende del Regno a partire dal 1861 con l’Unità fino al secondo dopoguerra.

Del Boca: “Uno dei progetti del fascismo in Etiopia era la sostituzione etnica: gli italiani al posto della popolazione locale”

Lo studioso ripercorre i fatti: genocidi, deportazioni, maltrattamenti dei prigionieri, uso massiccio dei gas in Africa autorizzato direttamente da Mussolini, campi di concentramento, numeri dei morti e nomi dei generali complici dei massacri. Documenta il perché, con stereotipi e falsità, intere generazioni di classi dirigenti si sono autoassolte e quei crimini spaventosi contro civili (bambini compresi) e oppositori, sono sempre rimasti impuniti.

Una parte della conversazione è dedicata alle foibe, dramma dalle radici lontane. Del Boca racconta lo sterminio di un intero popolo in Slovenia, le condizioni inumane in cui vennero costrette le persone recluse, addirittura peggiori di quelle dei lager nazisti.

Le foibe furono la reazione di una popolazione che per anni aveva dovuto subire soprusi e violenze e che si “vendicò” in due momenti, nel 1943 e nel 1945. Senza dimenticare i 350mila italiani costretti a lasciare quelle terre pagando per responsabilità prima sabaude poi fasciste. “Solo conoscendo la storia – spiega Del Boca –si può comprendere il perché di tanto odio”. Infine affronta il tema della rimozione collettiva,  alimento della marea montante di revisionismi e della pericolosa riabilitazione dei fascismi.

Buona visione.

da qui

 

qui (https://www.noipartigiani.it/angelo-del-boca/) racconta di quando era sotto le armi

 

 

No a un’altra guerra in Libia – Angelo Del Boca e Alex Zanotelli

L’abbattimento del regime di Gheddafi ha riportato la Libia al clima politico ed economico di due secoli fa, prima della colonizzazione italiana e ancora prima della presenza ottomana. In altre parole, si è tornati a una tribalizzazione del territorio. Scomparsi i confini amministrativi, ogni tribù difende le proprie frontiere e sfrutta le risorse petrolifere. Non c’è alcun dubbio che Muammar Gheddafi sia stato un crudele dittatore, ma nei suoi 42 anni di regno ha mantenuta intatta la nazione libica, l’ha dotata di un forte esercito e di un’eccellente amministrazione al punto che il reddito procapite del libico era il più alto dell’Africa e si avvicinava a quello dei paesi europei. Ma soprattutto ha dato ai libici una fierezza che non avevano mai conosciuto.
A tre anni dal suo assassinio (avrebbe meritato un processo), la Libia è nel caos più completo e già si parla con insistenza di risolvere la questione inviando truppe dall’estero per organizzarvi una seconda, micidiale e sciagurata guerra. Nel corso della prima infausta guerra, voluta soprattutto dalla Francia di Sarkozy, il paese ha subito danni immensi, 25 mila morti e distruzioni valutate dal Fondo Monetario Internazionale in 35 miliardi di dollari.
Poiché le voci di un intervento militare italiano si fanno più frequenti, noi chiediamo alle autorità del nostro Paese di non commettere il gravissimo errore compiuto nel 2011 quando offrimmo sette delle nostre basi aeree e più tardi una flotta di cacciabombardieri per aggredire un paese sovrano, violando, per cominciare, gli articoli 11, 52, 78 e 87 della nostra Costituzione. In un solo caso l’Italia può intervenire, nell’ambito di una missione di pace e dietro la precisa richiesta dei due governi di Tripoli e di Tobruk che oggi si affrontano in una sterile guerra civile.
Ma anche in questo caso l’azione dell’Italia deve essere coordinata con altri paesi europei e l’Unione Africana (Ua), animati soprattutto dal desiderio di riportare la pace in un paese la cui popolazione ha già sofferto abbastanza. Ci appelliamo al nostro ministro degli esteri Gentiloni, che non si faccia catturare dai venti di guerra che stanno soffiando insistenti. Ma sopratutto chiediamo a tutto il movimento per la pace perché faccia pressione sul governo Renzi affinché l’Italia, come ex-potenza coloniale, porti i vari rivali libici attorno a un tavolo. Questo per il bene della Libia, ma anche per il bene nostro e dell’Europa.

http://www.ildialogo.org/FormAdesioneAppelli.php?doc=nolibia2

 

 

Chissà se Angelo Del Boca sapeva che fra gli aeroporti italiani, intitolati a Leonardo, Falcone e Borsellino, san Francesco d’Assisi, Caravaggio, Fellini, fra gli altri, uno è intitolato a un “eroe” fascista, morto nella Guerra d’Etiopia.

Nel sito della società che gestisce l’aeroporto di Cagliari-Elmas (intitolato a Mario Mameli) si legge:

“L’aeroporto di Cagliari dall’aprile del 1937 è intitolato al s.tenente pilota Mario Mameli, caduto da eroe, nel cielo d’Abissinia durante la battaglia del Tembien, il 1° marzo 1936 mentre svolgeva una missione di guerra a bordo d’un “Caproni 101”.

Mameli era considerato, in quegli anni pionieristici dell’aeronautica militare italiana, uno degli “eroi” dell’arma azzurra, simbolo ed esempio di grandi qualità aviatorie e d’ardimento. Dedicargli l’aeroporto della sua città natale (allora il più importante idroscalo del Mediterraneo), era parso alle nostre autorità di governo, un atto giusto ed un riconoscimento doveroso.

Mario Mameli era nato a Cagliari nel 1910, da una famiglia di commercianti,  fin da giovanissimo si era entusiasmato per le imprese aviatorie di Francesco De Pinedo (che ebbero a Cagliari il loro più importante scenario), tanto da volersi arruolare, non appena completati gli studi (a Prato nel celebre collegio “Cicognini” e diploma di perito industriale a Cagliari), nell’Aeronautica militare, come allievo ufficiale di complemento nella scuola di Capua. Nel settembre del 1931, ad Aviano, conseguirà il brevetto di pilota, seguito dalle  specializzazioni nella Scuola di guerra aerea.

Allo scoppio della guerra d’Etiopia,  nell’ottobre del 1935, chiedeva ed otteneva di arruolarsi come volontario fra gli equipaggi destinati alle operazioni belliche. Verrà destinato alla squadriglia “La Disperata” posta sotto il comando del genero di Mussolini Galeazzo Ciano (con lui erano anche i due giovani figli del Capo del governo, Vittorio e Bruno).

Nei primi cinque mesi di campagna, il ten. Mameli si distinse per le sue grandi qualità di pilota e, soprattutto, per il suo ardimento, meritandosi diverse citazioni nei bollettini militari e l’inserimento, in servizio effettivo, nei ruoli della Regia Aeronautica. A giudizio dei suoi commilitoni era ritenuto uno dei migliori piloti militari.  Per queste sue qualità veniva impiegato nelle missioni più difficili.

Come capitò quel 1° marzo del 1936, il giorno della sua eroica morte. Per ricordare i fatti pare giusto citare la motivazione con cui gli verrà concessa la medaglia d’argento al valor militare “sul campo”, alla memoria: «Pilota d’apparecchio da bombardamento, partecipava con slancio, entusiasmo e valore a numerose incursioni offensive. Negli attacchi aerei della valle di Maj Mescic, della valle del Samre, di Amba Aradam, del Tembien, piana di Andino contribuiva ad infliggere al nemico gravissime perdite mediante attacchi a bassa quota dai quali il velivolo rientrava spesso colpito. Il 1° marzo 1936, durante il bombardamento e mitragliamento condotto con brillante aggressività a volo radente, per meglio assolvere il proprio compito, sfidava arditamente l’offesa nemica svolgendo azione valorosa che culminava con il sacrificio della propria esistenza. Cielo di Monte Andino 1° marzo 1936».”

da qui

 

chissà se Angelo Del Boca sarebbe stato d’accordo nel dedicare l’aeroporto di Cagliari-Elmas ad Antonio Gramsci (qui la proposta)

 

PERCHE’ QUESTA è UNA «SCOR-DATA»?

Qui in “bottega” la nostra sezione «scor-date» rimanda a eventi o persone che il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna deformano, rammentano “a rovescio” o cancellano. Lo straordinario lavoro sui nodi più spinosi della recente storia italiana (con qualche più rara incursione nell’attualità) di Angelo Del Boca è tutta una paradossale “scor-data” con specifiche caratteristiche italiane. Da un lato gli scritti di Del Boca hanno permesso di rompere l’omertà di chi vorrebbe tutti gli italiani sempre «brava gente» (nel caso specifico del fascismo con l’obiettivo di non fare i conti con un ventennio di infamie, stabilendo invece un’assurda continuità con la democrazia versione “guerra fredda”) e sono ben noti a ricercatori e studiosi in tutto il mondo ma dall’altra parte QUASI TUTTI i politici, i giornalisti e gli “opinion leader” si sono tenuti lontani dal prenderne atto, svelando cosa c’era in quel tragico verminaio e  continuando dunque a NON parlare dei misfatti italiani in Africa (e altrove, Italia compresa) proprio come se Del Boca non avesse scritto una riga, come se non esistessero documenti, confessioni, testimoni e prove. I nostri governanti si sono impegnati per nascondere un lavoro della Bbc – «Fascist Legacy» – e persino un film hollywoodiano («Il leone del deserto») pur di non affrontare quei nodi storici. Lo “schifezzario” di Affile per Rodolfo Graziani (con denaro pubblico) è solo l’ultima dimostrazione di come la destra non provi vergogna e di come la maggioranza delle altre forze politiche preferisca giocare allo struzzo. Il nostro piccolo impegno invece sarà di non dimenticare e di continuare a parlare il più spesso possibile di Del Boca e della sua coerenza.

 

Redazione
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