Sognare quel che sarà
di Kristian Williams (*)
Vi ricordate di Walidah Imarisha, vero? Prima di essere una poeta, una giornalista, una documentarista, un’attivista nelle prigioni e un’istruttrice al college, Walidah Imarisha era affascinata dai Klingon e dagli Elfi. Lo è ancora.
«La prole di Octavia», una nuova antologia edita da Imarisha e dalla studiosa di fantascienza, scrittrice e facilitatrice Adrienne Maree Brown, raccoglie i racconti di 23 attivisti e organizzatori politici. Costoro usano fantascienza, fantasy e horror per riflettere sulle esperienze relative all’oppressione, le sfide poste dalla resistenza e la possibilità di nuovi mondi basati sulla giustizia.
All’inizio di aprile, poco prima dell’uscita ufficiale del libro, Imarisha e io ci siamo seduti insieme a parlare delle connessioni tra fantascienza e attivismo.
Perché la fantascienza?
WALIDAH IMARISHA: La fantascienza è l’unico genere letterario che non solo ti permette di lasciare da parte tutto quel che ti è stato insegnato come “realistico”, ma in effetti richiede tu lo faccia. In questo modo ti consente di muoverti oltre i confini di quel che è realistico e quel che è reale, nel regno nell’immaginazione: il che è, invero, quanto gli organizzatori fanno ogni singolo giorno. Tutto il lavoro organizzativo è fantascienza. Quando gli organizzatori immaginano un mondo senza povertà, senza guerra, senza confini o prigioni – quella è fantascienza. Essere capaci di sognare collettivamente questi nuovi mondi significa che possiamo cominciare a crearli, qui.
Cosa può dirci il femminismo della fantascienza? In particolare sulle convenzioni del genere e il modo in cui le storie sono narrate? In che modo la fiction “visionaria” ci aiuta a comprendere il femminismo, in particolare?
WALIDAH IMARISHA: In maggioranza, le persone che sono state coinvolte in questo processo, e che amavano la fantascienza prima di essere coinvolte, si sono sempre sentite marginalizzate. Intendo, io sono cresciuta come una secchiona. Mi piace ancora Star Trek. Ho passato fin troppo tempo ad imparare nomi di pianeti e linguaggi che non esistono in alcun contesto utile. Pure, quei mondi non erano creati da me, non mi comprendevano. Avevo ben chiari i limiti della fantascienza mainstream nella sua capacità di interagire con le complessità della mia identità o con il fatto che gente come me riuscisse a vivere nel futuro.
Penso sia per questo che Octavia Butler e altri scrittori di sf che hanno infuso nei loro lavori un senso di giustizia e scritto dal punto di vista della gente di colore siano così importanti: perché hanno operato un mutamento nel modo in cui guardiamo a noi stessi.
La prima volta in assoluto in cui ho visto una persona nera in un libro di fantascienza l’ho dovuta a «Kindre«» di Octavia Butler. Sono una liceale in una libreria dell’usato e fisso questa copertina su cui ci sono due volti di donne nere che si incrociano… era la prima volta in cui vedevo persone che mi assomigliavano sulla copertina di un libro di fantascienza. Ho pensato: Non ho bisogno di leggere il riassunto in quarta, questo lo compro, ovviamente e intendo leggere qualsiasi altra cosa l’autrice abbia scritto!
Riguarda il dare alle persone il potere di scrivere se stesse nella storia. Sfidare l’idea che solo determinate persone sono abilitate a creare la narrativa su cosa sarà il futuro è anche sfidare l’idea che solo determinate persone abbiano la capacità di costruirlo, o di immaginare come le nostre vite dovrebbero essere strutturate.
Uno dei princìpi della fiction visionaria è rendere centrali le persone che sono state marginalizzate. Tu sai che la stragrande maggioranza dei personaggi creati da Octavia Butler sono giovani donne di colore. Quando noi guardiamo attraverso gli occhi di persone con identità intersezionali – razza, genere, nazionalità, abilità – non solo spostiamo il modo in cui guardiamo il mondo, ma trasformiamo questo modo completamente. E trasformiamo anche ciò che crediamo essere liberazione.
Per me, come femminista, questa è una convinzione di base: il muovere le persone che sono state marginalizzate al centro della scena, non per poterle assimilare all’esistente struttura oppressiva di potere, ma in modo da guardare alla liberazione tramite nuovi occhi. Il racconto di Leah Lakshni Piepzna-Samarasinha nella nostra antologia, «Bambini che volano», è uno straordinario esempio di ciò. L’idea di fondo è che ci sono questi sopravvissuti al trauma, per lo più sopravvissuti ad abusi sessuali patiti da bambini, e stanno attraversando un processo dissociativo – il che, come ci viene detto, è un problema, giusto? Qualcosa su cui tu ti devi impegnare, per curarlo, qualcosa per cui devi andare in terapia. Ma la storia, invece di dire che queste donne di colore, queste persone transessuali, sono “rotte”, suggerisce che la loro capacità di uscire dai corpi è finalizzata a unire le loro energie per cominciare a guarire questo “rotto” mondo. Penso sia una rilettura incredibilmente potente.
La questione identitaria è davvero centrale a molti dei racconti. Ma queste storie sono anche destabilizzanti delle stesse identità che narrano: costringono il lettore a riflettere davvero sul modo in cui razza e genere sono costruiti. Perciò, portano l’attenzione sull’idea di identità ma la mettono anche in discussione. Era parte del progetto iniziale o è risultato così per via delle persone a cui hai chiesto di scrivere i racconti?
WALIDAH IMARISHA: Penso sia parte di quel che significa avere organizzatori, attivisti, agenti del cambiamento, che scrivono queste storie: sono persone che hanno le loro radici nell’idea di costruire nuovi mondi. Vedono le complessità perché le vivono. Una cosa è leggere sul giornale della brutalità della polizia e pensare di scriverci su una storia, un’altra è essere sul territorio, organizzarsi, andare a una dimostrazione, confrontarsi con la polizia, lavorare con i familiari di chi ha subìto la violenza della polizia. Ciò ti fornisce una cornice che ha più sfumature, è più complessa e vera, e nei termini della costruzione di un nuovo mondo è più “utile”.
Molti degli autori sono persone che vivono nelle intersezioni delle identità: donne queer di colore, giovani con disabilità, molte identità multiple allo stesso tempo. Perciò riconoscono che il modo semplicistico in cui noi parliamo delle identità – razza o genere o sessualità – non funziona. Le categorie suddette sono dinamiche e interattive e questo conferisce la capacità di essere visionari.
Una delle persone che ha contribuito al progetto del libro, Morrigan Phillips, ha creato un seminario dal titolo «Fantascienza e organizzazione di azioni dirette». Prende dei mondi esistenti nella fantascienza, come Oz o Mordor, e ti chiede di scegliere le persone marginalizzate al loro interno, di creare uno scopo per esse e di sviluppare azioni dirette per raggiungere tale scopo. E’ il seminario più divertente del nostro pianeta, e anche di qualsiasi altro pianeta! Ti trovi con le scimmie volanti di Oz che reclamano il diritto al ritorno, perché sono state portate via dalla loro terra natale. E ti trovi con i combattenti Uruk-hai a Mordor che si sollevano contro i loro padroni schiavisti, o con il Fronte di Liberazione degli Elfi che crea corsi di istruzione politica.
Certo molti di questi mondi fantastici sono “problematici”, ma questo non significa che dobbiamo gettarli da parte. Se abbiamo investito del tempo in essi, vuol dire che per qualche ragione ci hanno parlato. Per cui sì, Star Trek ha come sfondo una forza militare che sta colonizzando l’intera galassia, è assolutamente problematico e io – santo cielo – ho imparato la lingua dei Klingon. Il nostro punto di vista al proposito è rendere le persone legittimate a interagire con questi mondi, a ri-visualizzarli e reinterpretarli in modo da rispondere ad essi e sovvertirli. E, di converso, l’altro lato della faccenda è sentirsi abbastanza potenti da creare cambiamenti.
Noi nei movimenti radicali spesso lottiamo “contro” qualcosa invece di costruire qualcosa d’altro. E dobbiamo certamente fare ciò, ma non vogliamo neppure consumare l’intera nostra energia nella semplice sfida all’esistente. Dobbiamo coltivare la nostra capacità di sognare quel che sarà, e renderlo reale. Questo è il modo in cui tutti i cambiamenti più significativi sono avvenuti.
(*) La traduzione è di Maria G. Di Rienzo e il post è ripreso dal suo bellissimo blog «lunanuvola». Questa è una sintesi dell’originale «Demanding the Impossible: Walidah Imarisha Talks About Science Fiction and Social Change».