Sono a favore di un trasferimento obbligatorio…

… e non ci vedo niente d’immorale, diceva Ben Gurion nel 1938.

articoli e video di Chris Hedges, Manlio Dinucci, Rafael Poch, Seraj Assi, Bertell Olmann, Eric Salerno, Luana Seddone, Giuliano Marrucci, Gideon Levy, Nick Burbank, Gianni Tognoni, Alberto Negri, Mazen Kerbaj, Francesco Masala, Elio Vittorini, Norman Filkelstein

Chris Hedges – “La fase finale del genocidio israeliano a Gaza: la fame di massa pianificata”

Non c’è mai stata alcuna possibilità che il governo israeliano accettasse una tregua nei combattimenti proposta dal Segretario di Stato Antony Blinken, tanto meno un cessate il fuoco. Israele è sul punto di dare il colpo di grazia alla sua guerra contro i palestinesi di Gaza: la fame di massa.
Quando i leader israeliani usano l’espressione “vittoria assoluta”, intendono la decimazione totale, l’eliminazione totale. I nazisti nel 1942 affamarono sistematicamente i 500.000 uomini, donne e bambini del ghetto di Varsavia. Questo è un numero che Israele intende superare.

Israele, e il suo principale protettore, gli Stati Uniti, tentando di chiudere l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei Rifugiati Palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA), che fornisce cibo e aiuti a Gaza, non solo sta commettendo un crimine di guerra, ma è in flagrante sfida alla Corte Internazionale di Giustizia (ICJ).

La Corte ha ritenuto plausibili le accuse di genocidio mosse dal Sudafrica, che includevano dichiarazioni e fatti raccolti dall’UNWRA. Ha ordinato a Israele di attenersi a sei misure provvisorie per prevenire il genocidio e alleviare la catastrofe umanitaria. La quarta misura provvisoria invita Israele a garantire misure immediate ed efficaci per fornire assistenza umanitaria e servizi essenziali a Gaza.

I rapporti dell’UNRWA sulle condizioni di Gaza, che ho seguito come reporter per sette anni, e la sua documentazione degli attacchi indiscriminati israeliani mostrano che, come ha detto l’UNRWA, “le “zone sicure” dichiarate unilateralmente non sono affatto sicure. Nessun luogo di Gaza è sicuro”.

Il ruolo dell’UNRWA nel documentare il genocidio e nel fornire cibo e aiuti ai palestinesi fa infuriare il governo israeliano. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha accusato l’UNRWA, dopo la sentenza, di aver fornito informazioni false alla Corte internazionale di giustizia. Già bersaglio israeliano da decenni, Israele ha deciso che l’UNRWA, che sostiene 5,9 milioni di rifugiati palestinesi in tutto il Medio Oriente con cliniche, scuole e cibo, doveva essere eliminata. La distruzione dell’UNRWA da parte di Israele ha un obiettivo politico e materiale.

Le accuse israeliane all’UNRWA, prive di prove, secondo cui una dozzina dei 13.000 dipendenti avrebbe legami con coloro che hanno compiuto gli attacchi in Israele del 7 ottobre, che hanno visto la morte di circa 1.200 israeliani, hanno fatto centro. Ha indotto 16 grandi donatori, tra cui Stati Uniti, Regno Unito, Germania, Italia, Paesi Bassi, Austria, Svizzera, Finlandia, Australia, Canada, Svezia, Estonia e Giappone, a sospendere il sostegno finanziario all’agenzia di soccorso da cui quasi tutti i palestinesi di Gaza dipendono per il cibo. Dal 7 ottobre Israele ha ucciso 152 lavoratori dell’UNRWA e danneggiato 147 installazioni dell’UNRWA. Israele ha anche bombardato i camion dei soccorsi dell’UNRWA.

Più di 27.708 palestinesi sono stati uccisi a Gaza, circa 67.000 sono stati feriti e almeno 7.000 sono dispersi, probabilmente morti e sepolti sotto le macerie.

Secondo le Nazioni Unite, più di mezzo milione di palestinesi (uno su quattro) sta morendo di fame a Gaza. I palestinesi di Gaza, di cui almeno 1,9 milioni sono sfollati all’interno del Paese, non solo non hanno cibo sufficiente, ma anche acqua pulita, ripari e medicine. Ci sono pochi frutti e verdure. C’è poca farina per fare il pane. La pasta, così come la carne, il formaggio e le uova, sono scomparsi. I prezzi al mercato nero di prodotti secchi come lenticchie e fagioli sono aumentati di 25 volte rispetto ai prezzi precedenti la guerra. Un sacco di farina al mercato nero è passato da 8 dollari a 200 dollari. Il sistema sanitario di Gaza, con solo tre dei 36 ospedali di Gaza parzialmente funzionanti, è in gran parte collassato. Circa 1,3 milioni di sfollati palestinesi vivono nelle strade della città meridionale di Rafah, che Israele ha designato come “zona sicura”, ma che ha iniziato a bombardare. Le famiglie tremano sotto le piogge invernali, sotto teloni inconsistenti e in mezzo a pozze di liquami grezzi. Si stima che il 90% dei 2,3 milioni di abitanti di Gaza sia stato cacciato dalle proprie case.

“Non esiste un caso, dalla Seconda guerra mondiale, in cui un’intera popolazione sia stata ridotta alla fame estrema e all’indigenza con tale rapidità”, scrive Alex de Waal, direttore esecutivo della World Peace Foundation della Tufts University e autore di “Mass Starvation: The History and Future of Famine”, pubblicato sul Guardian. “E non c’è caso in cui l’obbligo internazionale di fermarla sia stato così chiaro”.

Gli Stati Uniti, in passato il maggior contribuente dell’UNRWA, hanno fornito 422 milioni di dollari all’agenzia nel 2023. L’interruzione dei fondi assicura che le consegne di cibo dell’UNRWA, già molto scarse a causa dei blocchi da parte di Israele, si fermeranno in gran parte entro la fine di febbraio o l’inizio di marzo.

Israele ha dato ai palestinesi di Gaza due scelte. Andarsene o morire.

Nel 1988 ho seguito la carestia in Sudan che ha provocato 250.000 vittime. Ho delle macchie ai polmoni, cicatrici dovute al fatto di essere stato in piedi in mezzo a centinaia di sudanesi che stavano morendo di tubercolosi. Io ero forte e in salute e ho combattuto il contagio. Loro erano deboli ed emaciati e non ce l’hanno fatta. La comunità internazionale, come a Gaza, ha fatto poco per intervenire.

Il precursore della fame – la denutrizione – colpisce già la maggior parte dei palestinesi di Gaza. Chi muore di fame non ha abbastanza calorie per sostenersi. In preda alla disperazione, le persone iniziano a mangiare foraggio animale, erba, foglie, insetti, roditori e persino sporcizia. Soffrono di diarrea e infezioni respiratorie. Strappano piccoli pezzi di cibo, spesso avariato, e li razionano.

Ben presto, in mancanza di ferro sufficiente a produrre emoglobina, una proteina dei globuli rossi che trasporta l’ossigeno dai polmoni al corpo, e mioglobina, una proteina che fornisce ossigeno ai muscoli, insieme alla mancanza di vitamina B1, diventano anemici. Il corpo si nutre di se stesso. I tessuti e i muscoli si deperiscono. È impossibile regolare la temperatura corporea. I reni si bloccano. Il sistema immunitario si blocca. Gli organi vitali – cervello, cuore, polmoni, ovaie e testicoli – si atrofizzano. La circolazione sanguigna rallenta. Il volume del sangue diminuisce. Malattie infettive come il tifo, la tubercolosi e il colera diventano un’epidemia che uccide migliaia di persone.

È impossibile concentrarsi. Le vittime emaciate soccombono al ritiro mentale ed emotivo e all’apatia. Non vogliono essere toccate o spostate. Il muscolo cardiaco è indebolito. Le vittime, anche a riposo, si trovano in uno stato di insufficienza cardiaca virtuale. Le ferite non guariscono. La vista è compromessa dalla cataratta, anche nei giovani. Alla fine, tra convulsioni e allucinazioni, il cuore si ferma. Questo processo può durare fino a 40 giorni per un adulto. I bambini, gli anziani e i malati muoiono più rapidamente.

Ho visto centinaia di figure scheletriche, spettri di esseri umani, che si muovevano con passo glaciale nell’arido paesaggio sudanese. Le iene, abituate a cibarsi di carne umana, fanno abitualmente strage di bambini piccoli. Mi sono soffermato su gruppi di ossa umane sbiancate alla periferia di villaggi dove decine di persone, troppo deboli per camminare, si erano sdraiate in gruppo e non si erano più rialzate. Molti erano i resti di intere famiglie.

Nella città abbandonata di Maya Abun i pipistrelli penzolavano dalle travi della chiesa della missione italiana sventrata. Le strade erano invase da ciuffi d’erba. La pista d’atterraggio in terra battuta era fiancheggiata da centinaia di ossa umane, teschi e resti di braccialetti di ferro, perline colorate, cesti e brandelli di vestiti. Le palme erano state tagliate a metà. La gente aveva mangiato le foglie e la polpa all’interno. Si diceva che il cibo sarebbe stato consegnato in aereo. La gente aveva camminato per giorni fino alla pista di atterraggio. Hanno aspettato e aspettato e aspettato. Nessun aereo arrivò. Nessuno ha seppellito i morti.

Ora, da lontano, osservo quanto accade in un’altra terra e in un altro tempo. Conosco l’indifferenza che ha condannato i sudanesi, soprattutto i dinka, e che oggi condanna i palestinesi. I poveri, soprattutto se di colore, non contano.  Possono essere uccisi come mosche. La fame a Gaza non è un disastro naturale. È il piano di Israele.

Ci saranno studiosi e storici che scriveranno di questo genocidio, credendo falsamente che possiamo imparare dal passato, che siamo diversi, che la storia può impedirci di essere, ancora una volta, dei barbari. Terranno conferenze accademiche. Diranno “Mai più!”. Si vanteranno di essere più umani e civilizzati. Ma quando arriverà il momento di parlare di ogni nuovo genocidio, temendo di perdere il loro status o le loro posizioni accademiche, si rintaneranno come topi nelle loro tane. La storia umana è una lunga atrocità per i poveri e i vulnerabili del mondo. Gaza è un altro capitolo.

da qui

 

 

Prova – Francesco Masala

1

Il 29 settembre 1945 fu pubblicato il primo numero de Il Politecnico, diretto da Elio Vittorini, che pubblicò un editoriale che riportiamo.

Una Nuova Cultura – Elio Vittorini

Non più una cultura che consoli nelle sofferenze ma una cultura che protegga dalle sofferenze, che le combatta e le elimini.

Per un pezzo sarà difficile dire se qualcuno o qualcosa abbia vinto in questa guerra [1] . Ma certo vi è tanto che ha perduto, e che si vede come abbia perduto. I morti, se li contiamo, sono più di bambini che di soldati; le macerie sono di città che avevano venticinque secoli di vita; di case e di biblioteche, di monumenti, di cattedrali, di tutte le forme per le quali è passato il progresso civile dell’uomo; e i campi su cui si è sparso più sangue si chiamano Mauthausen, Maidanek, Buchenwald, Dakau [2] .

Di chi è la sconfitta più grave in tutto questo che è accaduto? Vi era bene qualcosa che, attraverso i secoli, ci aveva insegnato a considerare sacra l’esistenza dei bambini. Anche di ogni conquista civile dell’uomo ci aveva insegnato ch’era sacra; lo stesso del pane; lo stesso del lavoro. E se ora milioni di bambini sono stati uccisi, se tanto che era sacro è stato lo stesso colpito e distrutto, la sconfitta è anzitutto di questa «cosa» che c’insegnava la inviolabilità loro. Non è anzitutto di questa «cosa» che c’insegnava l’inviolabilità loro?

Questa «cosa», voglio subito dirlo, non è altro che la cultura: lei che è stata pensiero greco, ellenismo, romanesimo, cristianesimo latino, cristianesimo medioevale,. umanesimo, riforma, illuminismo, liberalismo, ecc., e che oggi fa massa intorno ai nomi di Thomas Mann e Benedetto Croce, Benda, Huitzinga, Dewey, Maritain, Bernanos e Unamuno, Lin Yutang e Santayana, Valéry, Gide e Berdiaev [3] .

Non vi è delitto commesso dal fascismo che questa cultura non avesse insegnato ad esecrare già da tempo. E se il fascismo ha avuto modo di commettere tutti i delitti che questa cultura aveva insegnato ad esecrare già da tempo, non dobbiamo chiedere proprio a questa cultura come e perché il fascismo ha potuto commetterli?

Dubito che un paladino di questa cultura, alla quale anche noi apparteniamo, possa darci una risposta diversa da quella che possiamo darci noi stessi: e non riconoscere con noi che l’insegnamento di questa cultura non ha avuto che scarsa, forse nessuna, influenza civile sugli uomini…

continua qui

 

Provate a sostituire alla parola fascismo la parola sionismo, non fa una grinza.

Provate a sostituire Mauthausen, Maidanek, Buchenwald, Dakau con Gaza e vedete l’effetto che fa.

 

2

nel 1938 Ben Gurion disse: “Il trasferimento obbligatorio ci frutterebbe un’immensa regione. Sono a favore di un trasferimento obbligatorio e non ci vedo niente d’immorale” (da Il crimine dell’occidente, di Viviane Forrester, p.137).

 

 

“L’industria dell’Olocausto”. L’introduzione – di Norman Filkelstein

L’Olocausto non è un concetto arbitrario, si tratta piuttosto di una costruzione intrinsecamente coerente, i cui dogmi-cardine sono alla base di rilevanti interessi politici e di classe.

Per meglio dire, l’Olocausto ha dimostrato di essere un’arma ideologica indispensabile grazie alla quale una delle più formidabili potenze militari del mondo, con una fedina terrificante quanto a rispetto dei diritti umani, ha acquisito lo status di «vittima», e lo stesso ha fatto il gruppo etnico di maggior successo negli Stati Uniti.

Da questo specioso status di vittima derivano dividendi considerevoli, in particolare l’immunità alle critiche, per quanto fondate esse siano. Aggiungerei che coloro che godono di questa immunità non sono sfuggiti alla corruttela morale che di norma l’accompagna.

Da questo punto di vista, il ruolo di Elie Wiesel come interprete ufficiale dell’Olocausto non è un caso. Per dirla francamente, non è arrivato alla posizione che occupa grazie al suo impegno civile o al suo talento letterario: Wiesel ha questo ruolo di punta perché si limita a ripetere instancabilmente i dogmi dell’Olocausto, difendendo di conseguenza gli interessi che lo sostengono.

Lo stimolo iniziale per questo libro è stato uno studio fondamentale di Peter Novick, The Holocaust in American Life (L’Olocausto nella vita americana), che ho recensito per una rivista letteraria inglese.

Le pagine che seguono sono pervase del dialogo critico che ho avviato con Novick e ciò spiega la messe di riferimenti al suo studio. Più un insieme di intuizioni provocatorie che un saggio critico strutturato, The Holocaust in American Life si colloca nel solco della venerabile tradizione americana della denuncia di scandali.

Ma, come la maggior parte dei cacciatori di scandali, Novick si concentra solamente sugli abusi più clamorosi. Per quanto pungente e piacevole in molti punti, The Holocaust in American Life non è una critica radicale. Gli assunti di base non vengono messi in discussione.

Pur rimanendo all’interno dell’orizzonte delle opinioni tradizionali, il libro, né scontato né eretico, si colloca agli estremi margini di questo stesso orizzonte, su posizioni controverse e, come prevedibile, ha avuto una vasta eco, suscitando commenti sia positivi sia negativi sui media americani.

La categoria analitica centrale di Novick è la «memoria». Attualmente di gran moda tra gli intellettuali, il concetto di «memoria» è senza dubbio il più impoverito fra quelli prodotti negli ultimi anni dal mondo accademico. Con l’allusione d’obbligo a Maurice Halbwachs, Novick mira a dimostrare come la «memoria dell’Olocausto» sia stata forgiata da «preoccupazioni di oggi».

C’era un tempo in cui gli intellettuali dell’opposizione mettevano in campo robuste categorie politiche come «potere», «interessi» da una parte e «ideologia» dall’altra. Tutto quello che resta oggi è il fiacco, spoliticizzato linguaggio di «preoccupazioni» e «memoria». Eppure, data la documentazione che Novick adduce, la memoria dell’Olocausto è una costruzione ideologica elaborata sulla base di precisi interessi.

Secondo Novick, per quanto scelta, la memoria dell’Olocausto è «il più delle volte» arbitraria; questa scelta, cioè, non verrebbe tanto condotta in base a un «calcolo di vantaggi e svantaggi», quanto piuttosto «senza dare troppo peso… alle conseguenze». Al di là di queste sue parole, però, la documentazione che lui stesso raccoglie suggerisce la conclusione opposta.

Il mio interesse nei confronti dell’Olocausto nazista prese le mosse da vicende personali.

Mia madre e mio padre erano dei sopravvissuti al ghetto di Varsavia e ai campi di concentramento. Tranne loro, tutti gli altri membri dei due rami della mia famiglia furono sterminati dai nazisti.

Il mio primo ricordo, per così dire, dell’Olocausto nazista è l’immagine di mia madre incollata davanti al televisore a seguire il processo ad Adolf Eichmann (1961) quando io rientravo a casa da scuola. Anche se erano stati liberati dai campi solamente sedici anni prima del processo, nella mia mente un abisso incolmabile separò sempre i genitori che conoscevo da quella cosa.

A una parete del soggiorno erano appese fotografie di parenti di mia madre. (Nessuna foto della famiglia di mio padre sopravvisse alla guerra.) In pratica non riuscii mai a mettere in relazione me stesso con quelle facce, men che mai a immaginare quello che era successo. Erano le sorelle, il fratello e i genitori di mia madre, non le mie zie, mio zio e i miei nonni.

Ricordo di avere letto da bambino The Wall (Il muro di Varsavia, di John Hersey) e Mila 18, di Leon Uris, due romanzi ambientati nel ghetto di Varsavia. (Mi torna alla mente mia madre che si lamentava perché, immersa nella lettura di The Wall aveva sbagliato fermata andando al lavoro.)

Per quanto mi sforzassi, non riuscii mai, nemmeno per un istante, a fare quel salto d’immaginazione che saldava i miei genitori, con tutta la loro normalità, a quel passato. Francamente, non ci riesco neanche ora.

Ma il punto più importante è un altro: se si esclude questa presenza spettrale, non ricordo intrusioni dell’Olocausto nazista nella mia infanzia e la ragione principale sta nel fatto che a nessuno, fuori della mia famiglia, sembrava interessare quello che era accaduto.

I miei amici di gioventù leggevano di tutto e discutevano appassionatamente degli avvenimenti contemporanei, eppure, in tutta onestà, non ricordo un solo amico (o un suo genitore) che abbia fatto una sola domanda su quello che mia madre e mio padre avevano passato. Non era un silenzio dettato dal rispetto, era semplice indifferenza. Sotto questa luce, non si possono che accogliere con scetticismo le manifestazioni di dolore dei decenni seguenti, quando era ormai consolidata.

A volte penso che la «scoperta» dell’Olocausto nazista da parte dell’ebraismo americano sia stata peggiore del suo oblio. I miei genitori continuavano a ripensarci nel loro privato e la sofferenza che patirono non ricevette pubblici riconoscimenti. Ma non fu forse meglio dell’attuale, volgare sfruttamento del martirio degli ebrei?

Prima che l’Olocausto nazista divenisse l’Olocausto, sull’argomento furono pubblicati solo pochi studi scientifici, come The Destruction of The European jews (La distruzione degli ebrei d’Europa), di Raul Hilberg, e testimonianze come Man’s search for Meaning (Alla ricerca di un significato della vita), di Viktor Frankl, e Prisoners of Fear (Prigionieri della paura), di Ella Lingens-Reiner.

Eppure questa piccola raccolta di gemme è migliore degli scaffali di cianfrusaglie che ora affollano biblioteche e librerie.

I miei genitori, pur rivivendo giorno dopo giorno il passato fino alla fine della loro vita, negli ultimi anni persero interesse per l’Olocausto come pubblico spettacolo.

Uno degli amici di più lunga data di mio padre era stato con lui ad Auschwitz ed era, o almeno sembrava, un incorruttibile idealista di sinistra che per principio rifiutò dopo la guerra il risarcimento tedesco.

In seguito divenne un dirigente del museo israeliano dell’Olocausto, lo Yad Vashem. Con riluttanza e sinceramente deluso, mio padre dovette ammettere che perfino un uomo come quello era stato corrotto dall’industria dell’Olocausto, adattando le proprie idee al potere e al profitto.

Dal momento che l’interpretazione dell’Olocausto assumeva forme sempre più assurde, a mia madre piaceva citare, non senza ironia, Henry Ford: «La storia è una sciocchezza». I racconti dei «sopravvissuti all’Olocausto» (tutti prigionieri dei campi di concentramento, tutti eroi della resistenza) a casa mia erano una fonte particolare di amaro divertimento.

D’altronde già molto tempo fa John Stuart Mill aveva compreso che «le verità se non sottoposte a continua revisione, cessano di essere verità. E, attraverso le esagerazioni, diventano falsità».

Mio padre e mia madre si chiesero spesso perché m’indignassi di fronte alla falsificazione e allo sfruttamento del genocidio perpetrato dai nazisti. La risposta più ovvia è che è stato usato per giustificare la politica criminale dello Stato d’Israele e il sostegno americano a tale politica. Ma c’è anche un motivo personale. Ho infatti a cuore che si conservi la memoria della persecuzione della mia famiglia.

L’attuale campagna dell’industria dell’Olocausto per estorcere denaro all’Europa in nome delle «vittime bisognose dell’Olocausto» ha ridotto la statura morale del loro martirio a quella di un casinò di Montecarlo. Ma anche tralasciando queste preoccupazioni, resto convinto che sia importante preservare l’integrità della ricostruzione storica e lottare per difenderla.

Alla fine di questo libro sostengo che nello studio dell’Olocausto nazista possiamo imparare molto non solamente riguardo ai «tedeschi» o ai «gentili», ma a noi tutti. Eppure penso che per fare questo, cioè per imparare sinceramente dall’Olocausto nazista, occorra ridurre la sua dimensione fisica ed enfatizzarne quella morale.

Troppe risorse pubbliche e private sono state investite nella commemorazione del genocidio e gran parte di questa produzione è indegna, un tributo non alla sofferenza degli ebrei, ma all’accrescimento del loro prestigio.

È da tempo che dobbiamo aprire il nostro cuore alle altre sofferenze dell’umanità: questa è la lezione più importante impartitami da mia madre. Non l’ho mai sentita dire: «Non fare paragoni». Lei li fece sempre.

Certo si devono fare distinzioni storiche, ma porre distinzioni morali tra la «nostra» sofferenza e la «loro» è a sua volta un travisamento morale. «Non potete mettere a confronto due sventurati» osservò Platone «e dire quale dei due sia più felice

Di fronte alle sofferenze degli afroamericani, dei vietnamiti e dei palestinesi, il credo di mia madre fu sempre: siamo tutti vittime dell’Olocausto.

da qui

 

 

La sadica vendetta dei complici – Rafael Poch

Il piano israeliano di espellere da Gaza l’UNRWA, organizzazione che sostiene due milioni di esseri umani nei loro bisogni più elementari, al fine di rendere ancora più insopportabile ai palestinesi la sopravvivenza nel territorio, era già noto da dicembre. Poche ore dopo che la Corte internazionale di giustizia dell’Aia aveva ordinato a Israele di “adottare misure immediate per consentire la fornitura di servizi di base e di assistenza umanitaria essenziale”, e mentre – secondo l’ONU – più di 750mila abitanti di Gaza stanno affrontando una “carestia catastrofica”, 16 paesi hanno sospeso i finanziamenti all’UNRWA. Si tratta, tra gli altri, di Italia, Stati Uniti, Germania, Inghilterra, Canada, Olanda, Francia, Svizzera, Australia, Giappone, Finlandia e Romania. Cos’è questa se non una vendetta del genocidio e dei suoi complici? La domanda di Rafael Poch non lascia spazio ad alcuna esitazione. Il pretesto della “denuncia” israeliana verso 12 persone tra i 13mila dipendenti dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi che il 7 ottobre avrebbero partecipato alle violenze seguite all’apertura della breccia nelle recinzioni della Striscia di Gaza (e dunque – chissà a quale titolo? – alle stragi) in altre circostanze susciterebbe ilarità

 

La risoluzione della Corte internazionale di giustizia dell’Aia sul genocidio israeliano a Gaza, resa pubblica il 26 gennaio, è soggetta a diverse interpretazioni. In quello stesso giorno, i palestinesi di Gaza hanno espresso su Al Jazeera la loro amarezza e disperazione perché la corte non ha chiesto il Cessate il Fuoco immediato di cui hanno bisogno per sopravvivere e che il Sudafrica aveva richiesto.

Israele può continuare a bombardare, impegnandosi però a fare in modo che la guerra contro la popolazione di Gaza non si trasformi in genocidio“, riassumeva Junge Welt, uno dei pochi giornali tedeschi decenti, scandalizzato dalla dichiarazione della corte. “Una parte del genocidio è già avvenuta, l’obiettivo era impedirne l’avanzata e il compimento ma è proprio ciò che la Corte non ha fatto”, si legge in un media dissidente negli Stati Uniti.

La maggior parte dei media imperiali che hanno dedicato un po’ di attenzione manipolata all’evento dell’Aja – per esempio, menzionando appena la formidabile presentazione degli avvocati sudafricani e riportando invece nei dettagli la grottesca e spudorata “difesa” israeliana durante l’udienza – hanno posto l’accento sul fatto che “il tribunale si rifiuta di ordinare un cessate il fuoco a Gaza”, come recitava sabato 27 gennaio, per esempio, il titolo in prima pagina del Wall Street Journal, suggerendo una vittoria del suo soggetto della disputa protetto.

 

La realtà è che la risoluzione dell’Aia ha completamente rovesciato la tesi israeliana. Ha stabilito che l’accusa sudafricana secondo cui “Israele ha commesso, sta commettendo e rischia di continuare a commettere atti di genocidio contro il popolo palestinese a Gaza” è “plausibile”; e ha quindi approvato la maggior parte delle misure precauzionali presentate dal Sudafrica e ha stabilito che Israele deve “prendere tutte le misure” per prevenire atti di genocidio a Gaza.

Che un tribunale storicamente concepito dall’egemonismo occidentale dopo la Seconda Guerra Mondiale, quello che non aveva mai osato indagare e condannare le malefatte occidentali nel mondo, presieduto da una ex alta funzionaria del Dipartimento di Stato Usa e i cui giudici assumono l’incarico solo dopo aver dimostrato comprensione e la sottomissione alla parodia della giustizia universale di cui fanno parte, abbia concluso una cosa del genere, è un fatto clamoroso ed esplosivo per la reputazione di chi sta commettendo il genocidio e dei suoi complici, indipendentemente dalle conseguenze giuridiche pratiche che questo avrà. Ricordiamo che sia Israele che gli Stati Uniti, come anche Parigi e Berlino hanno già dichiarato che ignoreranno ogni eventuale condanna contro Israele.

La realtà è che, nonostante quanto detto, la risoluzione dell’Aja è stata perfettamente compresa dal genocida e dai suoi complici negli Stati Uniti e nell’Unione europea. Le autorità israeliane, le ambasciate e gli agenti di rimozione della vergogna sono fuori di sé. Accusano la corte di antisemitismo. Il ministro della Difesa Yoav Gallant ha detto che la corte ha oltrepassato i suoi limiti nel considerare la “denuncia antisemita del Sudafrica”. Il ministro degli Interni, Itamar Ben Gvir, ha aggiunto che “la decisione del tribunale antisemita dell’Aia dimostra ciò che già sapevamo: che questo tribunale non cerca giustizia ma piuttosto la persecuzione del popolo ebraico”. Lo stesso Wall Street Journal, che aveva pubblicato quel rassicurante titolo in prima pagina, all’interno del giornale ha attaccato con un editoriale intitolato “La guerra delle Nazioni Unite contro Israele”.

Per contrastare la sconfitta informativa e vendicarsi dell’audacia mostrata dall’ONU, di cui la Corte è il braccio giudiziario, lo stesso venerdì 26 le autorità israeliane hanno presentato la loro “denuncia” contro quella dozzina dei 13mila dipendenti dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (UNRWA) che avrebbero partecipato alle violenze seguite all’apertura della breccia nelle recinzioni del “grande campo di concentramento” di Gaza (la definizione è di Giora Eiland, alta funzionaria della sicurezza israeliana, ed è stata espressa nel marzo 2004, molto prima del blocco del territorio). L’accusa si basa sugli interrogatori dei servizi di sicurezza israeliani alle migliaia di detenuti palestinesi maltrattati e torturati dopo il 7 ottobre.

Il piano israeliano di espellere da Gaza l’UNRWA, organizzazione che sostiene due milioni di esseri umani nei loro bisogni più elementari, al fine di rendere ancora più insopportabile la sopravvivenza nel territorio, era già noto da dicembre, quando la televisione israeliana fece trapelare un rapporto del Ministero degli Affari Esteri. La prima fase del piano era quella di “affermare la cooperazione tra l’UNRWA e Hamas”La seconda era quello di “ridurre le attività di educazione e assistenza” dell’agenzia, e la terza era di “trasferire” la sua funzione a nuovi organismi. È accaduto così che immediatamente 16 paesi hanno sospeso i finanziamenti all’UNRWA. Si tratta, tra gli altri, di Stati Uniti, Germania, Inghilterra, Canada, Olanda, Italia, Francia, Svizzera, Australia, Giappone, Finlandia e Romania. In totale essi rappresentano circa il 60% dei finanziamenti dell’agenzia.

 

Ripetiamo: poche ore dopo che l’Aia aveva ordinato a Israele di “adottare misure immediate per consentire la fornitura di servizi di base e di assistenza umanitaria essenziale di fronte alle avverse condizioni di vita dei palestinesi a Gaza”, e mentre – secondo l’ONU – più di 750mila abitanti di Gaza stanno affrontando una “carestia catastrofica” con un rischio mostruoso di malattie e infezioni, tutti quei paesi complici del “diritto di Israele a difendersi” sospendono i finanziamenti alla principale agenzia umanitaria e aumentano gli effetti del massacro che ha eliminato più dell’1 per cento della popolazione e ferito più del 2 per cento negli ultimi tre mesi. Cos’è questa se non una vendetta del genocidio e dei suoi complici di fronte alla risoluzione giudiziaria?

Dopo che per la prima volta nella storia un paese del sud ha osato mettere sul banco degli imputati l’Occidente coloniale, esigendo la fine di un massacro contro la martoriata popolazione indigena della Palestina, la risoluzione dell’Aia invoca la solidarietà internazionale. Per adesso, solo gli Houthi dello Yemen hanno risposto ai massacratori e ai loro complici in modo dignitoso e coerente, interrompendo selettivamente il traffico marittimo nel Mar Rosso.

fonte e versione originale: Ctxt

Traduzione per Comune-info. marco calabria

da qui

 

 

Rappresaglia contro l’Unrwa – Seraj Assi

I paesi occidentali hanno sospeso i finanziamenti all’Agenzia dell’Onu che si occupa di rifugiati in Palestina. È una scelta che suona come una vendetta dopo il recente pronunciamento della Corte internazionale di giustizia

Appena un giorno dopo che la Corte internazionale di giustizia ha ordinato a Israele di fermare l’uccisione di civili a Gaza – ritenendo plausibile l’accusa secondo cui il paese potrebbe violare la Convenzione sul genocidio – i paesi occidentali, guidati dagli Stati uniti, hanno sospeso i finanziamenti per l’Agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati palestinesi, meglio conosciuta come Unrwa.

È stata una mossa sorprendentemente vendicativa, uno sfrontato atto di punizione collettiva nel contesto della carestia a Gaza, dove più di due milioni di persone dipendono dall’Unrwa per la sopravvivenza di base. L’Unrwa gestisce rifugi per oltre un milione di persone, fornendo cibo e assistenza sanitaria di base ai palestinesi sfollati. Circa tremila membri dello staff, la maggior parte dei quali rifugiati palestinesi, continuano a operare a Gaza sotto gli incessanti bombardamenti israeliani (Almeno 156 lavoratori dell’Unrwa sono stati uccisi da Israele negli ultimi tre mesi, e Israele ha anche bombardato innumerevoli rifugi e scuole dell’Unrwa, uccidendo migliaia di civili sfollati).

La sospensione degli aiuti all’Unrwa ha sbalordito i funzionari delle Nazioni unite. «La guerra continua, i bisogni si aggravano e la carestia incombe – ha affermato il capo dell’Unrwa Philippe Lazzarini – È una macchia per noi tutti». Il segretario generale dell’Onu António Guterres ha lanciato un appello ai paesi contribuenti affinché non puniscano i «due milioni di civili di Gaza che dipendono dall’assistenza fondamentale dell’Unrwa», mentre Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni unite per i territori palestinesi occupati, ha avvertito che il taglio dei fondi dell’Unrwa «è apertamente una sfida» all’ordine della Corte internazionale di giustizia di consentire l’assistenza umanitaria a Gaza.

La decisione è arrivata dopo che Israele ha accusato diversi membri dello staff dell’Unrwa di coinvolgimento negli attacchi di Hamas nel sud di Israele il 7 ottobre. Sebbene Israele abbia precedentemente accusato l’Unrwa di aiutare Hamas, all’inizio di gennaio un ex funzionario israeliano è arrivato al punto di chiedere lo smantellamento dell’Unrwa, affermando che «sarà impossibile vincere la guerra se non distruggiamo l’Unrwa, e questa distruzione deve iniziare immediatamente», il tempismo delle accuse di Israele suggerisce che si tratti di una punizione per la sentenza della Corte internazionale di giustizia. Gli Stati uniti, la Germania e l’Ue sono i maggiori sostenitori dell’Unrwa, contribuendo a oltre il 60% del suo finanziamento complessivo.

L’ultima capitolazione dell’Occidente nei confronti di Israele sottolinea la sua continua complicità nei crimini di guerra di israeliani: i governi degli Stati uniti e dell’Unione europea stanno effettivamente affamando i rifugiati palestinesi in una Gaza devastata dalla guerra, mentre elargiscono miliardi in aiuti militari e finanziari a Israele. Con armi e sostegno occidentali, Israele ha finora ucciso oltre ventiseimila palestinesi a Gaza, tra cui oltre tredicimila bambini. Centinaia di palestinesi sono stati uccisi da Israele dopo la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia della scorsa settimana.

La tragica ironia è che l’Unrwa è stata fondata dopo la Nakba del 1948 – l’espulsione di massa di 750 mila palestinesi che accompagnò la fondazione di Israele – per sollevare Israele dai suoi obblighi nei confronti dei rifugiati che aveva cacciato dalle loro terre e case. Gaza ha sopportato il peso maggiore del trasferimento, con 250 mila persone sradicate che si sono riversate nella piccola striscia. Il resto si stabilì in Cisgiordania e nei paesi vicini Libano, Siria e Giordania.

Otto campi profughi furono creati a Gaza in seguito alla Nakba. La crisi era così profonda che il primo dicembre 1948 le Nazioni unite istituirono un’agenzia speciale per aiutare i rifugiati palestinesi, la United nations relief for Palestine refugees, che in seguito diede vita all’Unrwa. Dieci giorni dopo, l’11 dicembre, l’Assemblea generale delle Nazioni unite approvava la Risoluzione 194, che chiedeva di raggiungere una soluzione definitiva per garantire il diritto dei rifugiati palestinesi al ritorno alle loro case (Israele ha ignorato la risoluzione, ma da allora è stata ribadita dall’Assemblea generale delle Nazioni unite quasi ogni anno).

La risoluzione 194 fece venire i brividi lungo la schiena alla leadership israeliana, che era ancora perseguitata dallo spettro del ritorno dei palestinesi. Pertanto, quando un anno dopo l’Unrwa fu fondata da una risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni unite per portare avanti programmi di soccorso diretto e di lavoro per i rifugiati palestinesi, Israele fu tra i principali paesi a sostenere la risoluzione, insieme agli Stati Uniti e ai paesi arabi.

Israele era ben consapevole che l’Unrwa non era stata istituita per risolvere la crisi dei rifugiati, ma la crisi dei rifugiati israeliani. Mentre di tanto in tanto i leader israeliani si scagliavano pubblicamente contro quello che consideravano il pregiudizio anti-israeliano dell’Unrwa, l’agenzia era una manna dal cielo internazionale per Israele, alleviando sia i dubbi morali che gli obblighi finanziari.

In quel periodo, leader israeliani come David Ben-Gurion e Moshe Dayan ammisero che i rifugiati palestinesi avevano subito una grande ingiustizia da parte di Israele ed erano vittime di guerre e violenze, per questo le loro lamentele dovevano essere affrontate se Israele voleva bloccare il loro ritorno. I leader israeliani si rendevano anche conto che i campi profughi sparsi lungo i confini di Israele avrebbero rappresentato un pesante fardello per il futuro dello Stato. Di conseguenza, e sotto la crescente pressione internazionale, Israele era pronto a discutere la questione del risarcimento e del rimpatrio, a condividere con i paesi arabi e la comunità internazionale l’onere finanziario dei rifugiati e persino a consentire il ricongiungimento dei rifugiati con le loro famiglie in Israele. Allo stesso tempo, Israele ha continuato a incoraggiare l’integrazione dei rifugiati negli stati arabi ospitanti, cosa che era al centro della missione dell’Unrwa.

E così, con un forte mandato e finanziamenti internazionali, l’Unrwa iniziò le operazioni nel maggio 1950. L’agenzia operò anche in Israele fino al 1952, e godette del sostegno di Israele a lungo. Nel 1967, Israele chiese all’Unrwa di continuare il suo lavoro in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, e regolarmente espresse la sua approvazione per la sua missione umanitaria nei paesi arabi ospitanti. Non ci furono praticamente proteste israeliane quando, nel 1996, l’Unrwa trasferì il suo quartier generale da Vienna a Gaza, dove allora viveva un quarto dei rifugiati palestinesi.

Ma ora, mentre Israele colpisce Gaza con una furia genocida, l’Unrwa starebbe commettendo il peccato di cercare di mantenere in vita i rifugiati palestinesi. E invece di lavorare per prevenire i crimini di Israele a Gaza, i governi occidentali, guidati dall’amministrazione Biden, hanno rivolto la loro ira contro le vittime, prendendo di mira un popolo la cui sopravvivenza ora dipende dalla carità internazionale (L’Unrwa accetta ancora donazioni da privati).

Se Israele desidera davvero spazzare via l’Unrwa, l’unica alternativa è garantire il ritorno dei rifugiati palestinesi alle loro case in Israele. Nelle parole dello storico Ilan Pappe, «la risoluzione [194] chiedeva il ritorno incondizionato dei rifugiati palestinesi. L’Unrwa potrà essere smantellata solo se tale risoluzione verrà rispettata».

*Seraj Assi è uno scrittore palestinese. Vive a Washington e ha scritto My Life As An Alien (Tartarus Press). Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.

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LETTERA DI DIMISSIONI DAL POPOLO EBRAICOBertell Olmann

Pubblichiamo la lettera che l’ebreo americano Bertell Olmann scrisse nell’ottobre del 2004, ma decisamente più attuale che mai. La scelta, già di per sé inusuale, di dimettersi da un’appartenenza etnico-religiosa (ed in particolare quella “eletta da Dio”) è ancora più curiosa nella misura in cui proviene da un professore americano della New York University, un ambiente certamente non anti-sionista e neppure antisemita. Anzi, è lo stesso professore di sociologia a raccontarsi anti-israeliano, sconfessando per l’ennesima volta (cosomai ce ne fosse ancora bisogno) che la critica libera e sacrosanta all’operato di Israele non ha nulla a che vedere con l’odio razziale e men che meno religioso nei confronti degli ebrei. Finché le sorti del popolo ebraico saranno sovrapposte alle aspirazioni sioniste di Israele, il professore farà radicale atto di dimissioni dal suo stesso popolo. Se ne facciano quindi una ragione coloro i quali saranno probabilmente stupiti nel venire a conoscenza di una kippah che si solleva dall’interno, senza ovviamente essere l’unica. Sulla stessa barca infatti troviamo Ilan Pappe, coraggioso divulgatore della pulizia etnica dei palestinesi orchestrata da IDF e Haganah; Edward Said, importante intellettuale e autore di studi non ortodossi sulla questione palestinese; più indietro nel tempo lo stesso Ollman riporta le affermazioni di un certo Albert Einstein il quale condannava già in tempi non sospetti il progetto sionista; senza dimenticare pensatori come Hannah ArendtNoam Chomsky, nonché attivisti del calibro di Mordechai Vannunu o il nostro Moni Ovadia e tanti altri ebrei uniti nella dissociazione aperta e consapevole da una delle peggiori tragedie della storia moderna.

Bertell Ollman, Lettera di dimissioni dal popolo ebraico

Non ti sei mai chiesto quale sarebbe stato il tuo ultimo pensiero prima di morire, o prima di credere di morire? Bene, io sì: alcuni anni fa, nei momenti di declino della consapevolezza prima di andare sotto il bisturi per un intervento in cui avrei rischiato la vita, ho trovato la risposta. Mentre gli infermieri spingevano la barella in camera operatoria, sono diventato improvvisamente consapevole non, come ci si potrebbe aspettare, della paura di morire, ma di una terribile angst all’idea di morire da ebreo. Ero atterrito all’idea di concludere la mia vita con il cordone ombelicale ancora legato a un popolo con cui non posso più identificarmi. Che questo dovesse essere il mio ‘ultimo’ pensiero mi ha sorpreso molto, all’epoca, e mi sorprende ancora. Cosa voleva dire? e perché è così difficile dimettersi da un popolo?

Sono nato a Milwaukee da genitori ebrei russi, che non sono mai andati alla sinagoga o mangiato kasher, ma che spesso a casa parlavano yiddish e si consideravano ebrei. Sono andato alla scuola ebraica per quattro anni e ho fatto il bar mitzvà. Con questo retroterra, ho mantenuto qualche vaga credenza religiosa ebraica fino quasi ai vent’anni, quando sono diventato ateo. Mi identificavo sempre come ebreo, ma in un senso che è diventato sempre più difficile da definire. Alcuni dei miei amici erano diventati sionisti, e – benché io abbia per un breve periodo giocato a pallacanestro per un club giovanile sionista – non hanno fatto alcun progresso nel convertirmi alla loro causa: credo principalmente perché il loro scopo di base sembrava richiedere che si emigrasse in Israele. Tuttavia, ciò che ho imparato in quegli anni sulla Shoà e sulla critica situazione ebraica nel mondo era sufficiente a far sì che fossi ben disposto verso l’idea di una patria ebraica, supponendo – ho sempre aggiunto – che si potesse giungere ad un qualche accordo con i palestinesi che già vivevano lì. È stato all’università – l’Università del Wisconsin a metà degli anni ’50 – che sono diventato socialista ed internazionalista. Milwaukee, almeno la mia Milwaukee, era stata molto provinciale, ed ero stato molto contento delle opportunità offerte a Madison per incontrare persone da tutto il mondo. Penso di aver fatto parte di tutte le organizzazioni di studenti stranieri nel primo anno di università, e di diversi circoli politici progressisti. È pure stato lì che ho sentito parlare molto di più di Israele/Palestina: ora però imparavo non come ebreo del Milwaukee ma da internazionalista, da appartenente alla comunità umana, di cui ebrei e arabi fanno parte come eguali.

Negli anni seguenti, mentre il conflitto fra Israele ed i palestinesi prima grave, diventava gravissimo, ed infine pessimo, sono cominciati a svilupparsi fatti nuovi – sorprendenti, almeno per me. Mi sono trovato, malgrado i miei migliori sforzi di essere equo verso entrambe le parti, a diventare sempre più anti-israeliano: la maggior parte degli ebrei americani, compresi alcuni amici ebrei mai consideratisi sionisti, invece, sono diventati entusiasti sostenitori della causa israeliana. Già negli anni ’80, con la prima intifada, l’oppressione israeliana e l’umiliazione dei palestinesi si sono aggravati tanto che ho trasalito al pensiero di appartenere allo stesso popolo di coloro che potevano commettere tali crimini o che, nel caso degli ebrei americani, potevano razionalizzarli con tanta facilità. Ora le cose hanno raggiunto un punto tale che voglio andarmene; il problema è come farlo. Si può lasciare un club, una religione (ci si può convertire), un Paese (si può prendere un’altra cittadinanza e andare a vivere altrove), persino un genere (data l’attuale scienza medica), ma come si fa a dimettersi dal popolo in cui si è nati? Per la repulsione provata per gli atti della propria chiesa, si dice che alcuni cattolici francesi abbiano scritto una lettera al papa chiedendo un certificato di sbattezzo. Un precedente? Ma a chi dovrei scrivere? E cosa dovrei chiedere? Bene, ho deciso di scrivere a TIKKUN, senza chiedere altro che un’udienza.

In base a quel che ho affermato finora, per alcuni sarebbe facile respingermi come un ebreo che odia sé stesso, ma sarebbe sbagliato. Sono semmai un ebreo che ama se stesso, ma l’ebreo che amo in me è quello diasporico, quello benedetto per 2000 anni dal non avere un Paese da definire come proprio. Che questo fosse accompagnato da molti crudeli svantaggi è ben noto, ma aveva definitivamente un vantaggio, che torreggiava su tutto il resto. Essendo un outsider in ogni Paese, ed appartenendo alla famiglia degli outsiders di tutto il mondo, gli ebrei come insieme sono stati meno affetti dai ristretti pregiudizi che rovinano tutte le forme di nazionalismo. Se non potevi essere un cittadino nel pieno senso del termine, ad un livello di parità con gli altri, nel Paese in cui vivevi, potevi essere un cittadino del mondo, o per lo meno iniziare a pensarti come tale, persino prima che esistesse il concetto per chiarire questa sensazione. Non sto dicendo che questo è come realmente pensassero la maggior parte degli ebrei in diaspora, ma per alcuni era così: fra i più noti ci sono Spinoza, Marx, Freud e Einstein. Per altri, l’opportunità e l’inclinazione a fare lo stesso derivavano proprio da quel rifiuto, da tutti sperimentato, nei Paesi in cui vivevano. Persino il diffuso trattamento degli ebrei come di qualcuno un po’ meno che umano provocava una risposta universalista. Gli ebrei sostenevano, quando era possibile, e pensavano, quando una discussione aperta era impossibile, che, come figli dello stesso Dio, avevano le stesse caratteristiche umane dei loro oppressori, e che ciò avrebbe dovuto avere la precedenza su qualunque altro argomento. Quindi l’accusa antisemita, che gli ebrei sono sempre ed ovunque stati cosmopoliti e non sufficientemente patriottici, ha almeno questa parte di vero…

Pubblicata per la prima volta il 1 gennaio 2005 sulla rivista Tikkun.

Bertell Ollman (Milwaukee, 30 aprile 1935), professore presso il dipartimento di studi politici della New York University. Insegna sociologia ed è autore di una dozzina di libri sul marxismo e il socialismo.

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La colonizzazione ebraica senza freni mentre Biden inventa sanzioni inutili – Eric Salerno

Campagna per le presidenziali negli Usa da una parte, sopravvivenza dell’attuale governo in Israele dall’altra. La decisione blanda della Casa Bianca di imporre sanzioni nei confronti di quattro coloni israeliani in Cisgiordania, assassini non perseguiti, gesto più di politica interna americana che un tentativo vero di fermare la distruzione di Gaza e favorire la creazione di uno stato palestinese indipendente nella Striscia e in Cisgiordania

E né Netanyahu, né il suo ministro delle Finanze, il falco degli insediamenti Bezalel Smotrich, gli danno peso.

Due opportunismi politici in un colpo solo

«Il segnale», così è stato definita la scelta fatta da Biden per cercare di fermare il massacro, e costringere-convincere Netanyahu e la sua coalizione di estrema destra a rinunciare all’idea stessa di annettere, prima Gaza e poi la Cisgiordania, che in Israele convince pochi o non spaventa nessuno.

L’ultradestra teocratica e razzista

Il ministro delle Finanze israeliano, esponente dell’estrema destra, Bezalel Smotrich si è limitato a criticare le sanzioni (tutte ancora da verificare), dicendo «è un peccato che l’amministrazione Biden stia cooperando con una campagna antisemita ritraendo i coloni come violenti in un momento in cui i coloni stanno pagando un prezzo pesante in sangue con i loro figli più preziosi a Gaza».

Gli ha fatto eco il presidente di una comunità di coloni, che ha definito le sanzioni statunitensi emesse giovedì contro i coloni israeliani «un complotto anti-semita».

Colonizzazione in corso e ipocrisia Usa

Proprio in questi giorni sono stati pubblicati alcuni dati importanti sul processo di colonizzazione della Cisgiordania. Nel 2023, il governo israeliano ha creato 12.349 unità abitative in Cisgiordania (esclusa Gerusalemme Est). Un numero record da una quindicina di anni. È stato anche deciso, l’anno scorso, di trasferire la responsabilità delle procedure di pianificazione dal Ministro della Difesa al responsabile per gli Insediamenti, Smotrich.

Netanyahu-Smotrich-Ben Gvir

Secondo l’organizzazione Peace Now, «Il governo Netanyahu-Smotrich-Ben Gvir continua la sua costruzione distruttiva in Cisgiordania…Il governo di Israele inizia il 2024 con un chiaro segnale che si sta dirigendo verso l’eliminazione della soluzione a due stati, nonostante la chiara comprensione che solo questa soluzione può fermare il ciclo della violenza».

Analisi su Haaretz

Dahlia Scheindlin è una consulente politica che ha lavorato a otto campagne elettorali in Israele e in altri 15 paesi. In un’analisi pubblicata dal quotidiano israeliano Haaretz si è riferita alle origini del processo di colonizzazione. «Questa settimana è diventato chiaro il motivo per cui le frange radicali non dovrebbero mai essere sottovalutate. Fu un gruppo di attivisti danzanti e di ispirazione divina che si trasferirono al Park Hotel di Hebron per un ‘seder pasquale’ nel 1968 che formarono il nucleo di quello che in seguito divenne ‘Kiryat Arba’ e il movimento degli insediamenti».

Ideologia tra Coloni e Stato ebraico

«Ma c’è un altro fenomeno troppo spesso ignorato in questo conflitto: la perfetta alleanza tra frange ideologiche e istituzioni dello Stato israeliano. Come ha sostenuto Gershom Gorenberg nel suo libro ‘The Accidental Empire’, che non invecchia mai, è stato il pesante, anche se semi-tacito, coinvolgimento del governo guidato dai laburisti nel primo decennio dopo il 1967 a fornire il sistema di sostegno all’intera economia del progetto coloniale nella sua fase iniziale».

Dai laburisti ai para fascisti

«Cinque decenni dopo, la partnership tra stato e coloni ha reso gli accordi quasi irreversibili, e la partnership è fiorente. Ricordiamo che Smotrich ricopre una posizione ministeriale nel Ministero della Difesa, insieme a Gallant. In quella posizione civile, si è appropriato dei poteri un tempo gestiti dai militari per governare i coloni ebrei israeliani…».

Israele dal Giordano al mare

Fin dal 1967 era chiaro dove Israele stava puntando. Non sarà facile tornare indietro. Per ora si parla molto di possibile, forse imminente tregua e liberazione degli ostaggi, ma sembra che ci sia ancora un enorme divario tra le posizioni di Hamas e Israele. Osama Hamdan, un alto funzionario del movimento islamico a Beirut, ha affermato che il gruppo punta a cessare il fuoco permanente e vuole il rilascio di migliaia di prigionieri palestinesi per atti legati al conflitto con Israele, compresi quelli che stanno scontando l’ergastolo.

Tra di loro Marwan Barghouti, un leader popolare della rivolta palestinese, considerato una figura unificante, capace di sostituire, in eventuali elezioni sia a Gaza che in Cisgiordania, l’attuale presidente dell’Autorità nazionale Abu Mazen.

Oltre Abu Mazen, e ma soprattutto oltre Netanyahu e camerati

Oltre a Barghouti, l’esponente di Hamas ha fatto il nome di Ahmed Saadat, il capo del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, una piccola fazione dell’OLP. Il rilascio del prigioniero è una «causa nazionale», non solo per Hamas, ha spiegato.

Lo è anche in senso opposto, per Netanyahu che respinge l’idea stessa di rilasciare migliaia di prigionieri dalle carceri israeliane e non vuole nemmeno prendere in considerazione quelli condannati per omicidio (dunque no a Barghouti).

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A Gaza, Hind è mortaLuana Seddone

Hind Rajab è morta. la bambina palestinese di sei anni, scomparsa da quasi due settimane nel mezzo degli scontri a Gaza, è stata trovata senza vita, è finita la speranza di trovarla ancora viva.

La piccola si trovava in macchina con gli zii per sfuggire agli attacchi israeliani ma questi, li hanno seguiti, come un’onda e una furia nera che passa sulle teste, che avvolge col suo male, non risparmia nessuno, nemmeno una creatura di sei anni talmente grande da comunicare con i soccorritori della Mezzaluna Rossa.

Hind si trovava in quell’automobile solo perché era troppo piccola per camminare ore a piedi, come invece hanno fatto i suoi fratelli più grandi e i suoi genitori, per provare a raggiungere l’ospedale Ahli, nella speranza di trovarvi rifugio.

In quella macchina, che doveva essere la sua salvezza, la sua voce descriveva l’avvicinarsi di un carro armato, una piccola donna avvezza al pericolo, in grado di riconoscerlo e anticiparlo, supplicava aiuto, lo ha fatto per ore.

Eri sopravvissuta ad un attacco che aveva ucciso i membri della sua famiglia. Eri riuscita a chiamare i soccorsi, diventando voce della disperazione di un intero popolo.

La guerra non ascolta le suppliche, non vede i bambini, non cura le ferite, non seppellisce i morti, la guerra non ha mai ragione, è devastazione, abominio, crimine, l’esaltazione pura della crudeltà, non ha ragioni ma solo pulsioni e Hind è morta.

Muoiono i bambini, li smembrano, li esplodono, non mangiano, vagano soli ma nessuno la ferma, questa guerra.

Bombardano le ambulanze che vanno a salvare i bambini.

Quanto vorremmo fermare queste carneficine, quanto vorremmo porre fine a questa crudeltà ma siamo bloccati in attesa che qualcuno lo faccia con un dolore profondo che non ha tregue,

La immagino Hind, scappare in cerca di salvezza, tremante, come quando aveva gli incubi la notte e la mamma la cullava tra le braccia per consolarla, quella mamma lontana, non poteva raggiungerla.

La furia non ha risparmiato la bambina senza abbraccio ma spero che, quando la vita la stava abbandonando ne abbia ricordato il calore, il profumo e abbia dimenticato i mostri, di quando il signore della guerra decretò la fine dell’umanità.

Sarai un simbolo, Hind, il simbolo del coraggio, il simbolo di un’altra guerra che avrà solo vinti, sarai l’eroina di una storia di morte,

Stasera quando andremo a dormire, al caldo e protetti, volgiamo gli occhi al cielo e salutiamo Hind che, in braccio alle fate, vola verso un mondo migliore, di pace, amore e speranza.

Che la terra ti sia lieve, piccola Hind, che le fate ti accompagnino e, con loro, l’abbraccio di tutti noi che ancora crediamo in un mondo migliore.

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Israele segnata dall’odio che reagisce nella paura- Eric Salerno

La forza che ha ancora Netanyahu

Questo dato dovrebbe essere sufficiente per capire che i negoziati multilaterali per mettere fine al massacro della popolazione di Gaza da parte di Israele, sul futuro della striscia e anche della Cisgiordania occupata e, va sempre ricordato, di Gerusalemme Est, territorio occupato – dove proprio ieri il nuovo, molto discusso, il presidente argentino ha detto a Netanyahu che vuole trasferire l’ambasciata del suo paese – sono soprattutto una maratona della diplomazia, tragica e orribile, per cercare di evitare un conflitto più vasto.

Biden e le varie assenze

Uno dei suoi protagonisti più importanti è ovviamente il presidente americano Biden che proprio ieri, parlando in televisione, non è riuscito a ricordare il nome dell’organizzazione che ha scatenato la guerra con il suo attacco a Israele del 7 ottobre. «C’è del movimento e non voglio, non voglio… beh, forse devo scegliere bene le mie parole. C’è del movimento, c’è stata una risposta da… c’è stata una risposta da parte dell’opposizione…». ‘Hamas?’, è intervenuto un giornalista cercando di aiutare il presidente visibilmente imbarazzato e in difficoltà. «Sì… da parte di Hamas”, ha detto Biden. «Ma sembra un po’ esagerato. Non siamo sicuri di dove sia. C’è una trattativa in corso in questo momento».

Negoziare con chi e su cosa?

Della necessità di negoziare ancora ha insistito il segretario di stato Blinken arrivando in Israele dopo aver fatto l’ennesimo giro del Medio Oriente e dopo aver sentito dal reggente al trono saudita che eventuali relazioni diplomatiche tra il suo paese e Israele restano legate alla creazione di uno stato palestinese a fianco di Israele. Su questo punto Netanyahu risponde con un netto rifiuto. E come abbiamo visto dal sondaggio israeliano, la maggioranza degli israeliani concorda con lui anche se, non necessariamente lo sostiene in materia di politica interna.

Fin dall’altra sera, agenzie di stampa e televisioni avevano già registrato alcune voci che a nome del governo israeliano facevano fatto capire che ci voleva molto lavoro ancora per cercare di avvicinare le posizioni di Hamas e di Israele.

Casa Bianca tra Israele e mondo

La Casa bianca continua a incassare critiche e protestare negli Usa e presso gli alleati americani, per la sua politica ambigua nei confronti del conflitto e di Israele ed è probabilmente per questo che Blinken ha voluto prendere le distanze da Israele. Si è detto preoccupato per i disastrosi effetti che avrà sulla popolazione civile palestinese la nuova operazione militare e di averne parlato con il premier israeliano e con il ministro della Difesa Yoav Gallant. Come era prevedibile, le richieste di Hamas, che includono una cessate il fuoco di quattro mesi e mezzo e la definitiva cessazione delle ostilità, sono state rapidamente e formalmente respinte da Netanyahu.

No di Netanyahu e i ‘forse’ in tre fasi

No, al rilascio di centinaia di terroristi dalle carceri israeliane, no al ritiro completo delle forze israeliane da Gaza, insiste Natanyahu. Ma del piano presentato da Hamas delle tre fasi si continuerà a discutere al Cairo. La prima fase include il rilascio di ostaggi a Gaza -donne e bambini sotto i 19 anni non arruolati nell’esercito israeliano, anziani e malati-, in cambio di tutti i prigionieri palestinesi, giovani, malati e anziani, nonché di 500 prigionieri nominati da Hamas, compresi quelli condannati a vita e per reati gravi.

Uno, ostaggi e aiuti

La prima fase, include l’intensificazione degli aiuti umanitari, lo spostamento delle forze israeliane «al di fuori delle aree popolate», una ‘cessazione temporanea’ delle operazioni militari e della ricognizione aerea, l’inizio dei lavori di ricostruzione consentendo alle Nazioni Unite e alle sue agenzie di fornire servizi umanitari e stabilire case provvisorie. Previso anche il ritorno dei palestinesi sfollati nelle loro case in tutte le aree della Striscia e garantirebbe la libertà di movimento per tutti. Inoltre, durante questa prima fase inizieranno colloqui indiretti sui «requisiti necessari per un cessate il fuoco completo», e negoziati sui dettagli per la seconda e la terza fase.

Due, cessazione delle ostilità

La seconda fase, ha proposto Hamas, vedrebbe la conclusione dei colloqui su una cessazione delle ostilità, il rilascio di tutti gli ostaggi maschi «in cambio di un numero specifico di prigionieri palestinesi». In questa fase -ipotesi più volte respinta da Israele- le forze israeliane dovrebbero uscire completamente dall’enclave. È sufficiente leggere i dettagli delle due fasi della proposta di Hamas per ipotizzare una cessazione del fuoco e un rilascio in tempo breve degli ostaggi.

Terza fase, il forse del mai

Inutile parlare della terza fase che comprende anche una parte più politica che includerebbe l’approvazione di un progetto concreto e ben definito per la creazione di uno stato palestinese nei territori occupati da Israele, compresa la parte orientale di Gerusalemme. La risposta di Netanyahu alle proposte di Hamas è arrivata, come al solito la sera, in prima serata televisiva. Il governo ha ordinato alle forze armate di cominciare l’assalto a Rafah nel sud della striscia di Gaza. La pressione militare, ha detto per l’ennesima volta, è necessaria per garantire il rilascio degli ostaggi israeliani. Tutto quello che Blinken chiedeva di frenare.

La colpa sempre e solo di Hamas

Netanyahu ha ripetuto quello che poco prima il suo ministro della difesa aveva detto a Blinken: «la risposta di Hamas è stata formulata per garantire il rifiuto di Israele», insistendo sulla linea dura. «Arrendersi alle richieste deliranti di Hamas porterà a un altro massacro e a una grande tragedia su Israele che nessuno sarebbe disposto ad accettare».

Sono riprese, come ormai tutti i giorni, le proteste delle famiglie israeliane degli ostaggi che chiedono iniziative concrete per garantire il loro ritorno a casa. Della sorte dei quasi trentamila palestinesi uccisi a Gaza, delle centinaia di migliaia di feriti, della distruzione delle case, degli ospedali, di tutte le strutture pubbliche non si parla.

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La dignità di Israele sarà danneggiata, Hamas sarà incoronato vincitore, ma la guerra finirà – Gideon Levy

Anche se si ottenesse la “vittoria totale” di Benjamin Netanyahu, cosa che ovviamente non accadrà mai, Hamas ha vinto la guerra. Pertanto, è meglio porre fine a tutto ciò.

I termini dell’accordo emergente con Hamas vengono presentati da Israele come comportanti un “prezzo doloroso.” Si basa sul presupposto che qualunque cosa sia positiva per Hamas debba essere negativa per Israele e che tutto ciò che è male per i palestinesi è bene per noi: un gioco senza vincitori.

Israele si è convinto di non dover firmare un accordo che possa in alcun modo avvantaggiare Hamas; può solo essere dannoso per Israele e può solo esigere un prezzo doloroso.

Non dovremmo accettare queste ipotesi. Ci sono elementi dell’accordo che sono positivi sia per Israele che per Hamas. Il “prezzo” non è sempre davvero un prezzo. Non è sempre così doloroso come vogliono farci credere.

La liberazione dei prigionieri di sicurezza palestinesi e la cessazione dei combattimenti andranno a vantaggio di Hamas. Forse andranno a beneficio anche di Israele. In ogni caso, l’alternativa sarà molto peggiore per Israele. Hamas non libererà i suoi ostaggi incondizionatamente, proprio come Israele non libera i suoi prigionieri senza ottenere qualcosa in cambio, e ne detiene migliaia in questo momento.

Israele ha insegnato ai palestinesi che possono ottenere il rilascio anticipato dei loro prigionieri detenuti da Israele solo scambiandoli con ostaggi. A proposito, entrambe le parti hanno degli ostaggi: molti dei detenuti palestinesi sono stati prelevati dai loro letti in piena notte e non sono mai stati processati.

Le carceri israeliane sono piene di prigionieri di sicurezza che, contrariamente a come vengono presentati nella propaganda dei media, non sono tutti “terroristi con le mani sporche di sangue”.

Tra loro ci sono numerosi prigionieri politici di un regime che vieta ai palestinesi ogni tipo di attività organizzativa. Molti altri sono stati giudicati colpevoli di reati banali e condannati a pene draconiane. Se c’è ancora bisogno di dimostrare l’esistenza dell’Apartheid israeliano, è quello dei sistemi giudiziari separati per israeliani e palestinesi.

Nelle prigioni israeliane ci sono anche spregevoli assassini palestinesi. Ma molti hanno scontato la loro pena e meritano di essere liberati un giorno, proprio come i loro compagni di prigionia israeliani. Il rilascio degli anziani veterani della lotta armata palestinese non danneggerà Israele.

Ci sono anche quelli la cui liberazione andrà a beneficio di Israele, primo fra tutti Marwan Barghouti, ma non solo lui. Se Israele è seriamente interessato a trovare una controparte per cambiare la realtà delle guerre senza fine, lo si può trovare nelle prigioni israeliane. La prossima generazione di leader palestinesi è detenuta nelle carceri israeliane, da Megiddo a Nafha.

Le lotte di liberazione nel corso della storia, compresa quella del popolo ebraico, hanno prodotto leader coraggiosi che sono usciti dalle prigioni dei loro conquistatori. Ci saranno famiglie israeliane in lutto che hanno perso i loro cari anni fa e non vorranno vedere gli assassini rilasciati. Ciò è comprensibile, ma certamente non si può permettere loro di dettare ciò che è nel miglior interesse di Israele.

Foto: Il leader palestinese Marwan Barghouti è stato incarcerato prima di comparire davanti alla Pretura di Gerusalemme nel 2012. Credito fotografico: Baz Ratner / Reuters

La linea d’azione più saggia che Israele avrebbe dovuto intraprendere molto tempo fa era quella di rilasciare volontariamente i prigionieri di sicurezza come gesto e non solo come concessione nei negoziati. Ma non esiste alcuna possibilità che ciò accada: è troppo intelligente. Liberare 1.500 prigionieri, come chiede Hamas, non è né un disastro né un dolore. Riporterà gli ostaggi a casa. Disastri e dolore si verificheranno solo se non verranno salvati.

Né sarebbe un disastro o una sofferenza porre fine a questa guerra maledetta, durante la quale Israele ha perso la sua umanità senza raggiungere i suoi obiettivi a causa di uccisioni e distruzioni indiscriminate, come si è visto solo nelle guerre più brutali.

La dignità di Israele sarà infatti danneggiata, Hamas sarà incoronato vincitore della guerra, un vincitore dubbio ma comunque vincitore (tranne che si era già incoronato tale il 7 ottobre). Anche se si ottenesse la “vittoria totale” di Benjamin Netanyahu, cosa che ovviamente non accadrà mai, Hamas ha vinto la guerra. Pertanto, è meglio porre fine a tutto ciò.

Dobbiamo mettere da parte i cliché e gli stanchi slogan con cui gli israeliani sono stati nutriti e considerare con calma le questioni importanti: L’accordo è davvero così pessimo? In quale modo? Ce n’è uno migliore?

Gideon Levy è editorialista di Haaretz e membro del comitato editoriale del giornale. Levy è entrato in Haaretz nel 1982 e ha trascorso quattro anni come vicedirettore del giornale. Ha ricevuto il premio giornalistico Euro-Med per il 2008; il premio libertà di Lipsia nel 2001; il premio dell’Unione dei giornalisti israeliani nel 1997; e il premio dell’Associazione dei Diritti Umani in Israele per il 1996. Il suo ultimo libro, La punizione di Gaza, è stato pubblicato da Verso.

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

da qui

 

 

 

QUI, su InvictaPalestina, alla luce degli avvenimenti attuali in Palestina, numerosi cinéasti hanno messo i loro film sulla Palestina a disposizione online, Potete visionarli e farli circolare.

 

 

Meritiamo la verità su quanto accaduto il 7 ottobre – Nick Burbank

Le storie delle atrocità del 7 ottobre sono state utilizzate per giustificare l’assalto in corso a Gaza. Ma si è scoperto che molte di queste affermazioni di alto profilo erano basate su testimoni inaffidabili o addirittura inventate del tutto. Meritiamo di sapere la verità.

All’indomani degli attacchi del 7 ottobre da parte di Hamas, le narrazioni di atrocità dominarono  il flusso delle notizie. Solo adesso, quattro mesi dopo, gli eventi di quel giorno vengono chiariti. Secondo quanto riferito, il New York Times ha pubblicato un podcast di alto profilo sull’“arma” dello stupro in risposta alle preoccupazioni di “importanti discrepanze”. I giornalisti stanno sfidando i portavoce dello stato e i ricercatori, confrontando le affermazioni con l’elenco delle vittime del terrorismo gestito dall’amministrazione israeliana per la sicurezza sociale, dimostrando che diverse storie terrificanti inizialmente raccontate ai giornalisti dai primi soccorritori e dai membri dell’IDF non riflettono persone o morti reali. Lo stesso IDF ha affermato di non poter confermare alcuni dei propri rapporti.

Tuttavia, queste storie si sono  ampiamente diffuse . Il fondatore di Oct7FactCheck.com ha visto l’impatto che hanno avuto sui suoi amici e sulla sua famiglia. Persone che in precedenza avevano protestato contro il governo del primo ministro Benjamin Netanyahu ora insistevano sul fatto che “queste persone”, i palestinesi di Gaza, erano irredimibili. Hanno citato le atrocità riportate nei notiziari come prova.

Eppure, è diventato evidente che molte delle storie usate per giustificare la violenza in corso a Gaza sono proprio questo: storie.

Oct7FactCheck.com è un gruppo di ricerca composto da sei membri, noto collettivamente come “Nick Burbank”. Il gruppo, composto da uno studente di giurisprudenza dell’Ivy League, uno studente laureato in politica, due analisti dell’intelligence, un veterano delle forze armate statunitensi e un imprenditore tecnologico, aveva iniziato a verificare queste affermazioni a novembre. Il loro obiettivo era identificare l’origine di una determinata affermazione, chi l’aveva propagata e se le prove confermavano o smentivano l’affermazione. Le loro scoperte sono condivise in un documento  che viene aggiornato man mano che vengono alla luce nuove informazioni. Finora, il team è giunto a conclusioni su 12 diverse accuse e ha identificato importanti discrepanze in un’altra: accuse di stupro a mano armata che erano state riportate, ma che ora sono oggetto di nuova indagine da parte del New York Times.

Per essere chiari:

Non c’erano bambini appesi ai fili del bucato. Non c’erano bambini decapitati o messi nei forni, né donne incinte con lo stomaco squarciato.

Le fonti responsabili di queste invenzioni sono citate in articoli che raccontano lo “stupro di massa” di donne israeliane da parte dei combattenti armati di Hamas. Diverse storie condivise da più organi di stampa utilizzano queste fonti, sollevando interrogativi ancora aperti sulla forza di questo reporting. Un articolo del Guardian del 19 gennaio ripete esattamente lo stesso linguaggio di un articolo pubblicato più di un mese prima su un sito diverso. L’articolo del New York Times ha ricevuto critiche negative da parte della famiglia della vittima profilata, che sosteneva che non era vittima di violenza sessuale; alcuni membri di quella famiglia hanno rilasciato nuove dichiarazioni al NYT…

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L’odore di Gaza e la disumana banalità dei genocidi – Gianni Tognoni

Senza fogne e raccolta dei rifiuti funzionanti, gli abitanti della Striscia sono costretti a vivere in “una discarica a cielo aperto” sotto le bombe. Un’incubatrice perfetta per le epidemie. “Il genocidio di un popolo passa anche per la sua condanna a dimenticare di essere umano”, osserva Gianni Tognoni del Tribunale permanente dei popoli

Leggere, ascoltare, vedere e parlare di Gaza giorno dopo giorno è diventato tragicamente ripetitivo. Cambiano solo i numeri, aumentano. Morti, feriti e mutilati di tutte le età, da tutte le parti, per i bombardamenti, per uccisioni dirette, per tutte le cause, nelle strade, sotto le case, nelle scuole, negli ospedali, nei luoghi protetti, nei campi che invece dovrebbero essere sicuri.

Solo i numeri delle vittime tra i bambini forse costringono -ogni tanto- a fermarsi. Più per un brivido di incredulità che per avere il tempo di sentire “più” orrore. Difficile perfino scegliere i report delle agenzie internazionali più aggiornati e più o meno completi. Mentre scrivo, sono circa 11.500 i morti registrati tra i più piccoli e secondo le stime di Unicef almeno 17mila minori -non si sa di quale età- sono rimasti soli perché orfani o perché hanno perso i contatti con i loro familiari. Sono più di mille quelli che hanno subito l’amputazione di un arto (non si sa quante volte con anestesia), almeno 84mila bambini con meno di cinque anni soffrono di diarrea grave e un numero altrettanto importante è affetto da infezioni respiratorie. Cercare di mantenere una traccia epidemiologica quanto più possibile accurata sembra rispondere più al bisogno di essere testimoni responsabili e a quello di garantire almeno un diritto di habeas corpus in uno scenario dove è stato cancellato ogni rituale di un funerale degno di questo nome. Dove i cimiteri possono essere stravolti, come tutto il resto, per scovare-contare i “nemici”.

“La prima cosa che viene in mente quando mi chiedono di parlare della situazione di Gaza -ha spiegato un membro dello staff dell’organizzazione umanitaria Norwegian refugee council (Nrc)- è merda. Letteralmente e metaforicamente. Certo, dopo, parole come disgustoso, invivibile, nauseante e inumano possono descrivere l’odore e le condizioni. Ma quando ci si avvicina a dei luoghi d’accoglienza collettivi l’odore può colpirti e lasciarti senza parole fin da 30 metri: ti brucia il naso e gli occhi fino a farti lacrimare”. Forse non c’è nulla che riassuma meglio il non dicibile più reale di questa shit, che è al centro di un approfondimento a firma della giornalista Dawn Clancy, pubblicato dal sito PassBlue, una testata indipendente che monitora le attività delle Nazioni Unite.

Il rapporto è importante per la banalità concreta di quello che ricorda: le centinaia di migliaia di persone che non sanno più dove fuggire sono state private delle misure minime di una decenza anche nella gestione dei corpi. Non per qualche giorno ma per un quotidiano che è qualcosa di più e di diverso anche di una guerra “classica”. Una guerra mortale e senza senso tanto quanto (o forse peggio) per l’orrore delle cronache, il cui quotidiano dura ormai da oltre quattro mesi.

Per affrontare questa situazione, l’Unicef ha lanciato un programma di cash-for-work rivolto a volontari che vengono pagati l’equivalente di 10-12 dollari al giorno per la gestione dei rifiuti di tutti i tipi. Ma soprattutto escrementi umani che si accumulano dappertutto. Il finanziamento “per l’aiuto umanitario che arriva dall’Australia ha come nucleo centrale la gestione di tutte le forme di escrementi umani”, si legge nell’articolo.

La giornalista spiega che l’aumento di infezioni respiratorie, diarrea e malattie da acque contaminate è legato a cause semplici e strutturali: una delle ragioni è il fatto che non esiste più il sistema fognario o la raccolta dei rifiuti solidi. “Anche gli appositi contenitori settici disponibili nei rifugi o nelle scuole si riempiono rapidamente e non c’è modo di svuotarli in spazi dedicati”, continua l’autrice dell’inchiesta raccogliendo la testimonianza di un’operatrice del Norwegian refugee council. Le acque reflue possono solo trasformarsi in torrenti che scorrono tra le tende. A questo problema si somma quello della raccolta dei rifiuti, che sono dappertutto: “Tutta l’area è un’unica grande crescente discarica a cielo aperto”, continua la referente dell’organizzazione umanitaria. Condizioni che fanno di Gaza un’incubatrice perfetta per lo scoppio di epidemie.

Il linguaggio, le immagini, gli odori di questa cronaca non hanno l’educazione, la decenza e l’importanza delle cronache dei bombardamenti e dei massacri perfettamente asettici e tecnologici. Il processo di genocidio di un popolo passa anche e soprattutto per la sua condanna ad essere (meglio, dimenticare di essere) umano. È una regola antica di tutti i genocidi più o meno passati o in corso, più o meno riconosciuti ufficialmente. E parlare di merda, di scarti, acque contaminate, cibi avariati o di animali da mangiare perché non c’è altro, di acqua di scolo o altro da filtrare quando si può e c’è tempo: tutto questo è veramente noioso e disgustoso. Anzi puzza, tanto da renderti ancor più inavvicinabile e ti obbliga a pensarti non degno di essere membro di una società civile.

L’odore di Gaza non è un segno in più della gravità di ciò che succede. È l’espressione perfetta del ritorno di una banalità che si sperava non potesse più tornare: quella di un male assoluto, come la guerra e i genocidi contro quei popoli di cui si vuole cancellare identità, e quindi dignità e l’esistenza. Questa banalità è tornata ed è protagonista anche della nostra storia.

La grande diplomazia (che si spera produca almeno pause, tregue, liberazioni di prigionieri: anche solo domani è troppo tardi) non si interessa degli escrementi umani, né della distanza e dell’intensità dei loro odori. E Gaza (anche questo è detto spesso: ma non è mai abbastanza) non è purtroppo sola a giocare, in una lista di attesa che non si sa a quali algoritmi-interessi risponda, il ruolo della “vittima inevitabile”.

Le cronache arrivate a inizio gennaio sul popolo dei Rohingya presentano la stessa “banalita”. Ma sono tanti i luoghi in Africa dove la cronaca “seria, perché militare e politica” nasconde l’odore banale che dà il titolo a questa riflessione. Quotidiano, per tutte le età: se ci si pensa bene è il test che sempre più dovrebbe essere posto alla “civiltà” di Paesi che, ogni giorno di più, fanno la scelta di economie di guerra.

Grazie alla giornalista Dawn Clancy che ha scelto la banalità degli escrementi come occasione e strumento per fare resistenza insieme ai tantissimi che nel mondo sembrano meno disponibili al ricatto dei discorsi che chiedono di non schierarsi e/o raccontano storie che hanno in comune la caratteristica di rendere invisibili le vittime concrete delle tante Gaza.

Gianni Tognoni è ricercatore in alcuni dei settori più critici della sanità, con progressiva concentrazione sugli aspetti di salute pubblica e di epidemiologia della cittadinanza. È segretario generale del Tribunale permanente dei popoli

da qui

 

 

QUI La Strategia del Genocidio, di Manlio Dinucci

 

 

QUI un’interessante (come al solito) intervista con Alberto Negri

 

 

QUI Cartoline dalla Palestina, di Mazen Kerbaj (su Internazionale)

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