Una «festa di Liberazione», molto tempo dopo

25 aprile e oggi – 1

Con un racconto di Giacomo Verri inizia un “monografico” (appunti e idee senza pretese di completezza) sulla Resistenza di allora e su un buon uso della memoria ma anche sui fascismi e sulle lotte dell’oggi

CopertinaGiacomoVerri

Questo è l’inizio del racconto «Festa di liberazione» di Giacomo Verri (*)

La prima festa di Liberazione, quella del 1945, fu come la prima domenica concessa da Dio agli uomini. Festa altissima e piena di gioia. Ma con una malinconia albeggiante per un che di straordinario finito lì, per sempre».

E questa è la conclusione.

«Da quando sei nata ti ho sempre portata ai cortei del 25 aprile, ti ho raccontato le avventure, ti ho mostrato le foto.

Una volta mi hai detto delle bellissime parole: che tra me e te ci sono due generazioni, che io sono come un mito, che le storie che narro sono talmente memorabili da sembrare false. Che nessuno dei tuoi amici potrà mai essere come sono stato io all’età che hanno loro adesso. Che mi vuoi bene. Che sei fiera di me. Che la generazione successiva alla mia, quella di tuo padre insomma, sbiadisce, mentre la mia è sempre colma. Che i padri sono piccoli e i nonni dei giganti. I nonni come me, dici. E anche le nonne.

Io non ti ho mai detto che assomigli in maniera singolare alla tua nonna Dora quand’era giovane. E non ti ho neppure detto che ogni anno, ogni 25 aprile era ed è per me un boccone amaro, e che tuttavia cerco di ringoiare per sentire se cambia di sapore. Nel 1945 qualcosa è finito e non è più cominciato. S’è fatta la Repubblica e una Costituzione lucente e degna di tutti i morti che abbiamo perduti. Ma a ogni ricorrenza ho visto le persone peggiorare, le belle idee farsi fioche e prive di gusto, le feste della Liberazione diventare dei vezzi logori e sgradevoli. Si smetteva di fare bene per fare benino, ogni volta di più. La gente intorno a me, e io stesso, diventavamo avventati predaci sulla libertà. Fino a snobbarla a causa delle meritate inerzie che, dopo la guerra, divennero fatali.

Non so dove sia la colpa. È che la vita è andata avanti. Bene, molto meglio di come l’avevamo noi vissuta. Ma a me non piace più. Sto bene solo quando ti racconto le nostre storie, mie e della nonna, e dei monti, delle vigilie di guardia, degli amici che sono rimasti giovani nei cimiteri, delle gioie per un pezzettino di carne scovato tra pelucchi di lana, per una pagnotta morbida in mezzo a tante rigide come il marmo.

Non fa niente. Non ti preoccupare. Sono vecchio, cosa pretendi che capisca! Sono felice per te, vedo che i tuoi occhietti di ragazza sono distesi e tranquilli.

Noi anziani invece siamo scontenti. Di continuo e per tutto. Forse la guerra non c’entra niente, e neanche la Liberazione, e le passioni, e le felicità sbocciate tra le crepe della paura. Forse i pensieri che io credo dettati dalla ragione sono solo i capricci di un corpo e di una mente, come i miei, che vanno alla malora. Senz’altro sbaglio a credere che il gusto della libertà assaporato quando si combatteva s’è poi stemperato, come fanno i fumi, nel cielo.

Lo dovrai dire tu, non a me che non ci sarò, ma ai tuoi bimbi. Se vorranno ascoltarti.

Io me ne vado con un sorriso amaro, di quelli che si incastrano nel viso quando la soddisfazione è a metà, e quello che manca sembra molto più di ciò che già è qui.

Non fa niente, bambina, non fa niente.

Come disse una volta il nostro comandante: quanto sarebbe stato inutile essere felici!».

 

Una narrazione non retorica e proiettata sull’oggi: per questo doppiamente interessante. Ma davvero è «inutile essere felici» o invece fu proprio «la felicità» (**) uno dei doni inattesi di quei giorni terribili fra guerra e Liberazione?

L’autore di questo racconto, Giacomo Verri, è del 1978 dunque nato oltre 30 anni dopo quei giorni. E’ insegnante di Lettere a Borgosesia, zona partigiana («che c’importa se si muore» è una strofa della canzone «Valsesia»). Cosa lo lega alla Resistenza? Qui lo stralcio di una sua intervista. (***)

Che cosa spinge un giovane esordiente a confrontarsi, di questi tempi, con il tema della Resistenza?
Il fascino di un’epoca sentita come remota: perché remoti sono i suoi ideali, remoti i modi di vita di chi ci fu. Confrontarsi con la Resistenza significa prendere coscienza dell’incolmabile divario che separa l’oggi da ieri. Significa porsi in un atteggiamento di umiltà, in un atteggiamento che vuole dire la difficoltà di raccontare oggi la Resistenza. E significa però anche la volontà etica di rimettere sotto agli occhi dei lettori un tema, certo abusato, e proprio per questo ‘rovinato’ dal troppo discorrervi intorno. Vuol dire cercare una via diversa dal solito per raccontarla, per cercare di farla vedere davvero con occhi diversi. Vuol dire impegnarsi, magari fallendo, ma impegnarsi. Significa ammonire a non accontentarci di forme di memoria esteriori e stereotipate.

QUESTO PICCOLO MONOGRAFICO

Ovviamente non è la prima volta che qui in “blottega” parliamo di Resistenza. Se avete la pazienza di cercare troverete molti post. Addirittura nel 2013 “martellammo” con 24 post – uno ogni ora – perché la nostra piccola redazione sentì il bisogno di tentare una riflessione: canzoni, testi, proposte intrecciando il passato all’oggi (riprendemmo anche una intervista alla mamma di Dax, il compagno ucciso dai fascisti il 16 marzo 2003) come faremo oggi. Dunque a quei testi – li trovate numerati così: da Quel 25 aprile e oggi-1 a Quel 25 aprile e oggi – 24– – vi rimando per altri approfondimenti (db)

(*) Ripreso dal suo «Racconti partigiani», Biblioteca dell’Immagine 2015 «»

(**) Cfr questo post «Sono solo i partigiani a inventare un’altra Italia»: recensione e riflessioni su «La felicità dei partigiani e la nostra: organizzarsi in bande» di Valerio Romitelli

(***) da http://www.mangialibri.com/

 

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Un commento

  • 25 aprile. Non si dirà mai abbastanza che la Resistenza fu tradita. Tradita dagli stessi che soffocarono la rivoluzione in Spagna e ovunque abbiano avuto un potere, che mandarono i compagni in galera il 7 aprile del 1979. Tradita dagli stalinisti, istituzionali e non.

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