Davvero sappiamo cosa fu il fascismo italiano?

25 aprile e oggi – 2

Con due testi (*) di Carlo Spartaco Capogreco continua il “monografico” (appunti e idee senza pretese di completezza) sulla Resistenza di allora e su un buon uso della memoria ma anche sui fascismi e sulle lotte dell’oggi

CampiDelDuce

COLONIALISMO “UMANITARIO”

Di Carlo Spartaco Capogreco, pubblichiamo un brano tratto dal libro “I campi del duce – l’internamento nell’Italia fascista 1940 – 1943” (Einaudi, 2004). Capogreco (1955), docente presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università della Calabria è presidente della Fondazione Ferramonti. Tra i suoi scritti “Ferramonti. La vita e gli uomini del più grande campo d’internamento fascista 1940-1945” (Giuntina, Firenze 1987) e “Renicci. Un campo di concentramento in riva al Tevere” (Mursia, Milano, 2003).

(…) Nei territori jugoslavi, occupati o annessi dopo l’invasione nazifascista del 6 aprile 1941, l’Italia ricorse spesso a metodi repressivi che prevedevano l’incendio dei villaggi, la fucilazione di ostaggi civili e la deportazione della popolazione negli speciali campi di concentramento “per slavi”. Allestiti in Italia e negli stessi territori invasi, e gestiti quasi sempre dal Regio Esercito, quei campi costrinsero i reclusi a un internamento rigoroso e durissimo che portò alla morte migliaia di persone, tra cui moltissimi bambini. Eppure nel nostro paese si sa ancora poco, non solo di quelle vicende, ma anche della stessa esistenza di campi di concentramento italiani durante la Seconda guerra mondiale. “Internamento in condizioni disumane”: ecco il capo d’accusa che figurava nell’elenco – stilato nel dopoguerra dal governo jugoslavo – dei crimini che avrebbero commesso gli occupanti italiani. Ma la nostra giovane Repubblica “nata dalla Resistenza” evitò di sottoporre a processo anche i principali fautori e organizzatori di quei campi, i cui nomi, per l’appunto, compaiono tra quelli degli italiani dei quali la Jugoslavia chiese inutilmente l’estradizione.

Sia l’insabbiamento delle indagini sui criminali di guerra italiani che l’epurazione di facciata del personale coinvolto col fascismo contribuirono al formarsi di una coscienza collettiva della recente storia nazionale largamente autoassolutoria e rassicurante. Il colonialismo italiano fu definito “umanitario”; l’antisemitismo fu liquidato quale “prodotto d’importazione”, e i delitti commessi dalle nostre truppe nelle colonie e nei Balcani vennero coperti da una cortina di silenzio. In tal modo cominciò a sedimentarsi nel senso comune quella visione edulcorata del comportamento degli italiani in tempo di pace e, ancor più, in tempo di guerra, che li rappresenta sempre “umani e bendisposti” nei confronti delle popolazioni dei paesi invasi e, in ultima analisi, vittime anch’essi della dittatura e delle guerre volute da Mussolini.

Al rafforzarsi di questa immagine, nel dopoguerra contribuì anche l’atteggiamento delle forze politiche di sinistra e dell’antifascismo nel suo insieme, che, in nome della “ragion di Stato”, preferirono sottolineare i meriti dell’Italia partigiana piuttosto che le colpe di quella fascista. L’argomento della “bontà nazionale” costituì il nucleo centrale del discorso egemonico della nuova classe dirigente, che perseguiva l’obiettivo della riconciliazione di tutti “i buoni italiani”, facendo ricorso alla “virtuosità” dell’intero popolo per esaltare il carattere tirannico del fascismo, presentato come “regime senza consenso” e quindi come “corpo estraneo” alla storia e al “carattere nazionale” degli italiani. In tal modo fu possibile offuscare la più semplice verità che la dittatura – come osservò acutamente Carlo Rosselli – in realtà aveva espresso i vizi, le debolezze e le miserie di tutto il nostro popolo. Lungo questa strada, intrapresa da un paese come il nostro non abituato all’autocritica, c’è voluto poco perché si giungesse alla quasi totale rimozione delle gravissime responsabilità italiane nel ventennio e nella Seconda guerra mondiale. Gli stessi ebrei italiani, che pure erano stati tra le principali vittime della dittatura, in un clima non certo favorevole all’accettazione di identità particolari, preferirono, nel dopoguerra, rifugiarsi in una memoria “di carattere riconciliatorio”.

D’altro canto, era la particolare efferatezza dei crimini nazisti a fornire un alibi assai comodo al diffondersi dell’oblio nostrano: ci volle ben poco perché il confronto fra il comportamento dei due alleati portasse a relativizzare e minimizzare (se non a trascurare del tutto) le specifiche responsabilità fasciste. Pertanto gli italiani, che sin dagli anni Trenta erano ricorsi proprio ai campi di concentramento per “pacificare” le colonie africane, finirono con l’adagiarsi sulla comoda presunzione che questo capitolo emblematico della storia del XX secolo li riguardasse solo come vittime. E quando Giorgio Rochat, nel 1973, Si “permise” di pubblicare uno dei pochi studi tuttora disponibili sui campi coloniali italiani, venne accusato di “faziosità anti-italiana preconcetta” e coperto da ingiurie personali. (…)

Nel romanzo La frontiera (1964) di Franco Vegliani, ad esempio, è addirittura a un anziano jugoslavo avviato nei campi di concentramento fascisti che si fa dichiarare – in ossequio alla “bontà italiana” – che “gli italiani, alla fine, sono brava gente…”, mentre in anni più recenti, quella stessa “bontà” permeerà il pluripremiato film di Gabriele Salvatores Mediterraneo. Ancora: quando negli anni Sessanta una delegazione di ex combattenti jugoslavi giunse nel nostro paese per rendere omaggio alle spoglie mortali dei suoi connazionali deceduti nel campo di Monigo, né le autorità comunali né le associazioni partigiane seppero indicare il luogo della sepoltura. Addirittura, fu solo grazie a quella visita che moltissimi cittadini di Treviso presero coscienza della passata esistenza di un campo di concentramento alle porte della loro città. È potuto accadere, d’altra parte (errore tecnico o volontà italiana di deresponsabilizzazione?), che immagini di internati jugoslavi scheletriti dalla fame nei campi di concentramento di Mussolini venissero presentate come documenti dell’universo concentrazionario nazista; o che – in un contesto da Italietta festosa e nostalgica – la canzone-simbolo delle guerre coloniali fasciste, Faccetta nera, venisse riproposta dalla televisione pubblica senza alcun accenno ai lutti e ai disastri provocati a tanti popoli dal nostro colonialismo. Infine, chiudendo un elenco che potrebbe essere molto lungo, una doverosa riflessione sulle dichiarazioni fatte nel dicembre 1990 dall’allora presidente della Repubblica Cossiga, nel corso di una sua visita in Germania (“Noi italiani non abbiamo conosciuto gli orrori dei campi di concentramento…”); e su quelle rilasciate, nel settembre 2003, dal nostro presidente del Consiglio (“Mussolini non ha mai ammazzato nessuno; Mussolini mandava la gente a fare vacanza al confino”), che riducono la dittatura fascista pressoché ad una sorta di tour-operator (…).

L’INTERNAMENTO FASCISTA NEI BALCANI

Di Carlo Spartaco Capogreco, professore presso l’università della Calabria e presidente della Fondazione Internazionale Ferramonti di Tarsia, pubblichiamo questo scritto tratto da “Aspetti e peculiarità del sistema concentrazionario fascista. Una ricognizione tra storia e memoria” (in “Lager, totalitarismo, modernità”, Bruno Mondatori 2002). Capogreco è autore fra l’altro del libro “I campi del duce. L’internamento civile nell’Italia fascista” (Einaudi, 2004).

(…) I modelli di riferimento dei campi fascisti della seconda guerra mondiale non sono da ricercare – come, purtroppo, talvolta avviene – nei lager tedeschi, e neppure in quelli di altri regimi totalitari, ma piuttosto nella stessa prassi concentrazionaria italiana che, negli anni quaranta, aveva alle spalle una sua esperienza ben consolidata.

Le deportazioni e l’internamento dei civili erano pratiche già note all’Italia monarchico-liberale, che le aveva utilizzate sia nella penisola che nei possedimenti d’oltremare. Si pensi, per esempio, alle tristi condizioni delle migliaia di libici deportati a Ustica e alle isole Tremiti dopo la rivolta di Sciara Sciat del 1911, o al terribile campo di prigionia di Nocra, istituito nel 1895 su una delle isolette che fronteggiano Massaua. Tuttavia fu sotto il fascismo, soprattutto durante alcune particolari campagne coloniali, che i campi di concentramento vennero utilizzati dall’Italia in grande stile, e le deportazioni si spinsero ai limiti della “pulizia etnica” e dello sterminio.

(…) nei territori del regno di Jugoslavia occupati o annessi in seguito all’invasione nazifascista del 6 aprile 1941 (…) nel quadro di un’occupazione violenta e dalle connotazioni esplicitamente razziste, l’esercito italiano e, in misura minore, le autorità civili di occupazione, fecero frequente ricorso a metodi tipicamente nazisti, quali l’incendio di villaggi, la fucilazione di ostaggi civili e la deportazione in massa della popolazione in speciali campi di concentramento. Nei territori jugoslavi, oltre all’obiettivo di allontanare dalle principali località nuclei consistenti di civili suscettibili di aiutare i partigiani o di prendere le armi contro gli italiani, il provvedimento d’internamento perseguiva quello – certamente non secondario – della “sbalcanizzazione” dei territori. Questo vecchio proposito fascista (che oggi diremmo di pulizia etnica), nella Slovenia occupata e annessa all’Italia come “provincia”, si pensò di realizzarlo attraverso la sostituzione delle popolazioni autoctone con coloni italiani, provenienti da lontane regioni del Regno.

Nel Montenegro le deportazioni dei civili vennero avviate sin dal luglio 1941, nel quadro di quella “carta bianca” concessa, di fatto, dai comandi militari superiori ai vari reparti per ottenere maggiore durezza repressiva nei confronti dell’insurrezione popolare. Nelle altre regioni della Jugoslavia ciò avvenne in misura consistente a partire dal gennaio 1942, momento in cui il potere dell’esercito divenne pressoché assoluto, e i suoi vertici indicarono, tra le prime misure da adottare, “I’internamento totalitario” delle popolazioni locali.

Nella famigerata “Circolare 3 C”, emanata il 1° marzo 1942, il generale Mario Roatta, comandante della Il^ armata, delineò la summa tattico-operativa del comportamento delle truppe e dell’atteggiamento da tenere verso le popolazioni sottomesse. La circolare – che in parte ricalcava misure già in vigore nel Montenegro sin dal luglio 1941, e in parte anticipava quelle adottate dal Feldmaresciallo Albert Kesselring nel 1944 per stroncare la Resistenza italiana – sarebbe divenuta la principale pezza d’appoggio in base alla quale, nel dopoguerra, la Jugoslavia avrebbe chiesto (invano, ndr) all’Italia l’estradizione per crimini di guerra dello stesso generale Roatta.

E’ in quel testo che si rinvengono le prime disposizioni scritte sull’internamento manu militari, configurato come provvedimento di primaria importanza nel quadro della lotta volta a stroncare la rivolta popolare jugoslava. Le direttive di Roatta prevedevano, nelle zone di operazione, la deportazione di interi gruppi sociali e professionali “pericolosi”, comprese quelle famiglie dalle quali, “senza chiaro motivo”, risultassero assenti componenti di sesso maschie di età compresa tra i sedici e i sessant’anni. In primo luogo l’internamento era previsto per operai, disoccupati, profughi, senzatetto, ex militari, frequentatori di dormitori pubblici, studenti disoccupati, persone senza famiglia, studenti universitari, maestri, impiegati, professionisti, operai, ex militari italiani trasferitisi in Jugoslavia dalla Venezia Giulia dopo l’avvento del fascismo e, infine, per i “simpatizzanti del movimento partigiano”.

La stessa sorte (con in più la confisca del bestiame e la distruzione delle abitazioni) sarebbe toccata agli abitanti delle case prossime ai luoghi in cui venivano attuati dei sabotaggi, a meno che, entro quarantotto ore dall’attentato, non fossero stati identificati i responsabili. Quanto alle persone da internare, una prima codificazione comprendeva gli uomini dai sedici ai sessant’anni, ma questo limite venne presto superato, e il provvedimento fu esteso anche alle donne e ai bambini. Al contempo, la prevista demarcazione tra internamento “protettivo”, “precauzionale” e “repressivo” diveniva sempre più labile e, di fatto, difficilmente individuabile.

(…) I campi ad amministrazione militare dislocati in Italia, al contrario di quelli del Ministero dell’interno, avevano una localizzazione centro-settentrionale, con netta prevalenza nelle regioni del Nord-Est. Ciò fu determinato dalla particolare vicinanza di quelle aree al confine con la Jugoslavia e dal fatto che, all’epoca della loro istituzione, le regioni meridionali del paese non erano più considerate “distanti” dal fronte come lo erano state due anni prima. Tra i campi di questo tipo, quello dalle maggiori dimensioni ospitava mediamente 5000 civili sloveni e croati, e operò, dal marzo 1942, a Gonars (in provincia di Udine), dove, in un anno e mezzo di attività, persero la vita più di 400 deportati. Nel luglio 1942, due campi di circa 3000 e 4000 posti furono attrezzati in altrettante caserme dell’esercito a Monigo di Treviso e a Chiesanuova di Padova. Tra il 1942 e il 1943, altri due enormi campi di concentramento vennero istituiti a Renicci di Anghiari, in provincia di Arezzo (dal settembre 1942), e a Visco, allora in provincia di Trieste (dal gennaio 1943).

Dal Gennaio 1943, dopo essere stato ingrandito e risistemato, venne utilizzato per i deportati montenegrini il campo di Colfiorito, in Umbria, che sino alla fine del 1940 aveva operato come luogo d’internamento alle dipendenze del Ministero dell’interno. Nello stesso periodo veniva destinato agli “allogeni” della Venezia Giulia (come venivano indicati, con disprezzo, gli appartenenti alle minoranze slovena e croata che il fascismo, per anni, cercò rozzamente di “italianizzare”) l’ex campo per prigionieri di guerre n. 93, sito a Cairo Montenotte (Savona). Due campi di transito per “allogeni”, capaci di circa 250 posti ciascuno, furono attivi dall’ottobre 1942 a Gorizia e nella vicina Poggio Terza Armata. Ubicate in un vecchio convento e in un ex stabilimento tessile, le due strutture erano a disposizione delle questure di Gorizia e di Trieste, che le utilizzavano come prigioni sussidiarie. A Tavernelle (Perugia), Fossalon di Grado (Gorizia) e Fertilia (Sassari) funzionarono, per alcuni periodi, dei campi di lavoro per internati civili sloveni e croati.

In territorio jugoslavo, sull’isola di Arbe (Rab), da poco tempo annessa all’Italia, nel luglio 1942 venne avviato l’allestimento di un campo di concentramento che – con i 16 000 posti preventivati – avrebbe dovuto contribuire in modo sostanziale al previsto “sgombero totalitario” delle popolazioni slave della provincia di Lubiana, del Fiumano e del distretto di Abar. Nel campo di Arbe, per le pessime condizioni igienico sanitarie, la carenza di cibo e la mancanza di tutela o assistenza internazionale, sino al settembre 1943, persero la vita non meno di 1400 deportati, in maggioranza sloveni. Tra il 20 maggio e il 10 luglio 1943, in un settore del campo vennero internati protettivamente 2700 ebrei jugoslavi e di altre nazionalità, che precedentemente risiedevano o si erano rifugiati nelle zone della Jugoslavia controllate dall’esercito italiano.

Nella regione di Fiume (Rijeka), i principali campi italiani funzionarono a Buccari (Bakar), a Portorè (Kraljevica) e nella stessa città di Fiume. Il grande lager della Dalmazia, che arrivò a contenere 3500 persone, venne allestito dal Governatorato nel giugno 1942 sull’isola di Melada (Molat): in un anno di attività, per la fame, gli stenti e le esecuzioni per rappresaglia degli ostaggi di sesso maschile, vi persero la vita centinaia di internati. Campi di minori dimensioni erano stati istituiti precedentemente dalle prefetture dalmate a Vodice, Osljak, Zlarin, Divulje, Uljan e in altre località.

In Montenegro i principali campi italiani furono allestiti a Bar, Prevlaka e Mamula. Ma molti montenegrini venivano deportati in Italia o nei campi albanesi di Kukés, Klos, German, Kavaje. Dalla Macedonia occidentale, ormai parte integrante della “Grande Albania”, i civili venivano deportati nel campo di Porto Romano, allestito dagli italiani nei pressi di Durazzo. Nelle vicinanze di questa città funzionò anche il campo di Shijak. In Albania, altri campi italiani operarono a Lushnje, Pristina, Prizren, Puke, Scutari e Berat.

Anche in Grecia, in sostanza, gli occupanti italiani consideravano gli abitanti quali appartenenti a una razza inferiore; tuttavia – come confermano gli studi di Davide Rodogno – inizialmente le truppe in grigio-verde venivano richiamate all’ideale della “giustizia romana” e al rispetto degli autoctoni. Ma, non appena la Resistenza locale cominciò a dimostrare la sua determinazione, la “giustizia” e “I’umanità” delle truppe di Mussolini lasciarono il posto alla brutalità della repressione.

Il campo di concentramento italiano più temuto fu quello di Larissa, in Tessaglia. Tra gli internati civili (la struttura ospitava anche prigionieri di guerra) la mortalità per malnutrizione, malaria e tubercolosi fu altissima. Dei 1100 reclusi, per la gran parte cretesi, arrestati durante la grande manifestazione di protesta svoltasi ad Atene il 16 luglio 1941, circa la metà vi perse la vita. Molti erano i civili trattenuti nel campo come ostaggi: il 6 giugno 1943, gli italiani eliminarono per rappresaglia 106 di loro. Triste ricordo conservano anche i campi italiani di Vanitsa, Corfù, Trikala, Fanos e Nauplia, strutture “miste” che accolsero sia prigionieri di guerra che internati civili. In alcune zone della Grecia, gli italiani “internavano” i civili soprattutto nelle carceri comuni (tipico fu il caso delle prigioni di Volo), mentre nelle aree sottoposte dalle forze armate a speciali cicli operativi, spesso venivano impiantati campi temporanei. Una struttura del genere, capace di ben 1700 persone, operò nell’ottobre 1942 a Tebe, in Attica; un’altra, di dimensioni minori, operò a Kalávryta, nel Peloponneso. Nelle isole Jonie funzionò il campo di concentramento di Paxos, affiancato da “sottocampi” dislocati a Othoni e Lazarati. Le tre strutture ospitarono circa 3500 “internati politici” greci, nonché, per alcuni periodi, alcune centinaia di “sudditi nemici” inglesi e russi. Secondo varie testimonianze, in quei campi gli italiani praticarono sugli internati diverse forme di tortura fisica: dall’olio bollente versato sulle ferite, agli spilli conficcati sotto le unghie, al gonfiaggio degli intestini con pompe pneumatiche.

(…) i campi gestiti dalle autorità militari presentavano quasi tutti dimensioni considerevoli e, salvo poche eccezioni, costringevano i deportati (che non disponevano di alcun sussidio) a un sistema di detenzione rigoroso e a dure condizioni di vita. Nel campo di concentramento di Renicci (una delle principali strutture di questo tipo tra quelle ubicate in Italia) la lotta per la sopravvivenza fu quasi costantemente all’ordine del giorno: nel breve volgere di un anno vi persero la vita, per fame e per stenti, oltre 150 deportati jugoslavi. Nel campo italiano posto sull’isola di Arbe (anch’esso amministrato dall’esercito), negli ultimi mesi del 1942, la mancanza di cibo era così grave e diffusa che anche gli internati più giovani e in pieno vigore fisico subivano in poco tempo i dimezzamento del peso corporeo. Era scena consueta, in quel luogo, l’immagine di centinaia di figure scheletriche che, sfinite dalla fame, si trascinavano nell’improbabile ricerca di qualcosa da mangiare. Il campo di concentramento di Melada, dipendente dal Governatorato della Dalmazia, venne definito “un sepolcro di viventi” dal vescovo cattolico di Sebenico; affermazione tutt’altro che metaforica, se si considera che – stando a un rapporto dello stesso direttore del campo – nel solo periodo che va dal 30 giugno al 25 novembre 1942 vi persero la vita 442 internati.

(…) alla fine del conflitto, i principali responsabili e organizzatori dei campi di concentramento e del sistema di deportazione impiantato dall’esercito italiano (tra i primi, il generale Mario Roatta, solitamente ricordato come “protettore di ebrei”), vennero additati come criminali di guerra. E, quantunque la mancanza di una “Norimberga italiana” abbia fatto sì che le accuse di “internamento in condizioni disumane”, come quelle relative ad altri crimini, inoltrate alle apposite commissioni internazionali dal governo jugoslavo e da quello di altre nazioni aggredite dall’Italia, siano cadute praticamente nel vuoto, è innegabile che buona parte di quegli internamenti di massa siano più assimilabili alle deportazioni arbitrarie e ai crimini di guerra che non alle tradizionali misure discrezionali adottabili, nel corso di un conflitto, nei confronti della popolazione civile.

(…) Parlando dei campi fascisti, una questione appare ineludibile: quella del “vuoto di memoria” che ha accompagnato quei fatti per così lungo tempo nel dopoguerra; gli italiani “brava gente” si sono adagiati per anni nella presunzione che i campi di concentramento li riguardassero solo in quanto vittime, e non anche nel ruolo attivo di deportatori e costruttori di lager, cosicché quella realtà è rimasta sostanzialmente estranea alla memoria pubblica nazionale del dopoguerra.

Diversamente che in Germania, dove la riflessione e l’elaborazione sulle responsabilità del nazismo hanno interessato profondamente larghi settori della società, in Italia i conti col passato sono stati fatti in misura molto trascurabile. Peraltro, l’eccessiva insistenza sul radicamento sociale della Resistenza – come sottolinea Anna Bravo – “ha finito per avvalorare l’idea di un popolo unanimemente antinazista e perciò riabilitato in massa. Un popolo nella sostanza incolpevole, quando non vittima”.

Come ho avuto modo di scrivere in altre occasioni, le cause di una rimozione tanto forte e generalizzata sono molteplici: alcune specifiche dell’internamento, altre di tipo più generale che si sovrappongono e si confondono con la questione ben più ampia della mancata elaborazione del passato fascista e coloniale italiano. Tra le prime cause c’è sicuramente la “relativizzazione” dell’internamento civile determinatasi (non soltanto in Italia) al cospetto dell’universo concentrazionario nazista. La particolare efferatezza dei crimini commessi dai tedeschi, la drammatica forza emotiva di Auschwitz fornivano un alibi assai comodo per relativizzare e sminuire le responsabilità dell’Italia fascista di fronte all’alleato tedesco.

Va poi considerato l’oggettivo interesse degli Alleati a “non colpevolizzare”, alla fine della guerra, un’Italia ormai entrata a far parte della loro orbita politico-strategica. Interesse che ha determinato, di fatto, la mancata condanna dei criminali di guerra italiani e ha ridotto a un’operazione di facciata l’epurazione del personale civile e militare coinvolto col vecchio regime. Si favorivano così l’affermarsi nel nostro paese di un senso comune largamente autoassolutorio e di una rappresentazione oltremodo “rassicurante” della storia italiana del Novecento (…)

(*) Riprendo questi stralci da «Pollicino Gnus», mensile reggiano: rispettivamente dal numero 146, gennaio 2007, monografico sulla giornata della memoria e dal numero 124, gennaio 2005, sull’occupazione italiana nei Balcani.

 


Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *