Val Susa: la pozione magica nel villaggio resistente

Ancora sul libro di Wu Ming 1 «Un viaggio che non promettiamo breve. Venticinque anni di lotte No Tav»

di Giuliano Spagnul 

Sono andato alla presentazione del libro «Un viaggio che non promettiamo breve. Venticinque anni di lotte No Tav» al Piano Terra di Milano, uno spazio di resistenza all’interno di quel quartiere/cantiere di punta del processo di gentrificazione di questo paesone vicino a Monza (come è stato definito da Peter Brook). Tra i pochi fortunati, in una sala strapiena, ad avere un posto seduto (approfitto sempre della reticenza a occupare i posti in prima fila) ho assistito alla bella performance oratoria, tutta impostata sui toni del diaframma, di un raffreddato Wu Ming 1 reduce da troppe presentazioni in centri sociali precariamente riscaldati. Del libro ho già parlato,1 qui mi interessa evidenziare una domanda che emerge fin dalle sue prime pagine e che in questa occasione (ma immagino anche in altre) è rimbalzata con insistenza in più interventi: PERCHÉ LÀ SÌ e ALTROVE NO? Perché in Val di Susa le lotte vanno avanti da 25 anni con evidenti successi (non riconosciuti ovviamente dalla controparte ma innegabili e ampiamente dimostrabili) mentre le tante altre lotte simili in numerosi altri posti del nostro martoriato Paese non danno altrettanti risultati? La tentazione e il sospetto di credere veramente a una pozione magica che, come nel villaggio di Asterix, venga somministrata giornalmente a tutti i valsusini è inevitabilmente molto forte. Più prosaicamente Wu Ming 1 ha parlato delle caratteristiche peculiari che hanno reso possibile le vittorie contro il Tav: quella geografica, essere una valle che racchiude e conserva le proprie esperienze ma allo stesso tempo essere anche una via di passaggio che impedisce qualsivoglia sclerotizzazione e isolamento; la propria storia con le lotte del passato, partigiane, sindacali, socialiste; la mancanza di un egemonia del partito comunista, come succede al contrario (anche se sempre più in misura decrescente) nell’Emilia “rossa”, con il suo corollario di deficit di pensiero (tanto c’è il partito che pensa per noi e ci dice cosa è giusto fare).

Ma è sufficiente questo a farci mettere da parte l’irrazionale idea di un segreto, ben custodito, che stia alla base della forza del movimento No Tav in Val di Susa? Già il libro aveva confuso il nostro pensare razionale pescando nel torbido di un potere opaco definito come “entità”; qualcosa di metastorico posto al di là delle pervasive relazioni fra potere e sapere che attraversano tutti i conflitti inerenti alla nostra natura affatto storica di esseri umani. A ben guardare, forse, nella domanda iniziale che porta con sé implicita l’ulteriore domanda di come si possa esportare quel risultato in altri contesti, c’è un errore profondo, un baco malato che infetta il nostro legittimo desiderio di lottare contro la mostruosa entità: l’idea militaristica o se si preferisce calcistica che si possa ragionare solo per vittorie o sconfitte. Ciò che si perde in questa logica binaria è proprio la cosa più importante: la lotta, il conflitto, cioè quel processo che porta al cambiamento di sé e alla consapevolezza che il cambiamento del mondo comincia già nell’atto del cambiamento di noi stessi. Da intendersi questo non come un ripiego soggettivista, già visto e rivisto dopo le grandi ondate di ogni fase rivoluzionaria, quanto consapevolezza che il cambiamento interiore che le pratiche di lotta producono sortiscono inevitabilmente anche una mutazione oggettiva dello stato di cose, declinabile positivamente in un avanzamento collettivo o negativamente nella chiusura soggettivistica, presuntuosamente autosufficiente.

Non c’è una vittoria finale, il progetto del Tav può essere ritirato completamente ma è già pronta la nuova devastante minaccia dell’elettrodotto con le centrali nucleari francesi.

Non è neanche la creazione dell’utopia di una repubblica liberata, che si sa le utopie che fine fanno, quanto piuttosto quella capacità di un sentire singolo e collettivo che si va a trasformare con e grazie alle lotte, a quelle pratiche di libertà. Ma allora si deve lottare sempre? Certo! Perché la lotta per la vita non è per sempre? Come scrive uno storico, amico di Foucault: «Non vi è salvezza possibile: possiamo scegliere solo tra il niente e il caos, nel quale siamo vivi. Smettere di cambiare, voler sfuggire a una realtà esteriore e interiore che è definitivamente caotica, significa vivere come morti»2 . E significa anche, possiamo aggiungere, rinunciare al piacere che l’atto del cambiare produce in noi stessi. Quella gioia del vivere come vivi, inscindibile dalla sofferenza che comunque l’essere vivi ci riserva ma che trova nel fare insieme agli altri il punto di sintesi, mai definitivo ma sempre pronto a ricominciare, a rinnovarsi, a vivere! Quindi non è uno sbaglio interrogarci su come esportare qualcosa da una situazione a un’altra, quando quello che conta realmente è comune già a tutt’e e due, in tutti i posti in cui si lotta? Non si fa il gioco dell’avversario oscurando le vittorie dei presunti fallimenti? Dei cari amici/compagni veneziani, quando ho chiesto il loro parere su una trasmissione televisiva su Venezia (nel programma “I dieci comandamenti” del 12/12/2016) mi hanno scritto: «Ho visto i “10 comandamenti” di RAI3 su Venezia e…. …E ne ho violati almeno 7 porconando…. Diciamolo senza giri di parole, è stata una pseudoinchiesta di merda. Il solito inviato dalla Capitale che nelle poche ore che gli danno di trasferta rimacina ciò che già pensava della periferia, quindi trasforma in servizio questo suo rimestare e ce lo sbrodola addosso. L’impacchettamento prevedibile del solito sottoprodotto culturale turiveneziano (davvero già vecchio negli anni 70), l’eterna storia della “serenissima decadenza”, narrata ovviamente tralasciando le cento reali resistenze della città, riducendole anzi a maschere individuali, folli, senza speranza. Isolate e ridicolizzate, peggio, paternalisticamente ridicolizzate». Che ne sappiamo in fondo di questa città che resiste (e dei tanti altri luoghi di resistenza)? Nulla, o poco, troppo poco; fino a che continueremo come i compagni contemporanei alla rivoluzione bolscevica di 100 anni fa, tedeschi, italiani che si dicevano: se è riuscita nella feudale Russia perché non qui nella capitalistica Europa? Umano, troppo umano ricercare la rivoluzione trionfante (e la conseguente fine della storia) ma il nuovo millennio ci apparecchia nuove storie a cui dobbiamo predisporre nuovi attrezzi per un nuovo modo di pensare e di agire. Wu Ming 1 ci ha messo la sua parte allargando la prospettiva anche fuori da quella valle, sta a tutti noi tentare di pensare l’impensato, il possibile di un nuovo modo di intendere le lotte, le vittorie e le sconfitte.

NOTA 1: https://www.labottegadelbarbieri.org/wu-ming-1-molti-mondi-oltre-le-colline/

NOTA 2: Paul Veyne, «Foucault. Il pensiero e l’uomo» Milano, Garzanti 2010, p. 149.

 

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *