Vecchie e nuove povertà
riflessioni di Gian Marco Martignoni su «Il lavoro non basta» di Chiara Saraceno
Condizioni di miseria e di povertà hanno caratterizzato la storia del nostro Paese, soprattutto concentrate nel Mezzogiorno, tanto che nel 1951, dopo il libro denuncia di Carlo Levi «Cristo si è fermato a Eboli», la Commissione parlamentare d’ inchiesta verificò che un quarto della popolazione viveva in case sovraffollate o di tipo improprio, oltre a patire gravi carenze sul piano dei consumi alimentari di base (carne, zucchero ecc. ).
Se l’inchiesta fece emergere i limiti del nostro sistema assistenziale, una diminuzione della povertà assoluta si registrò solo negli anni ‘70, quando l’ introduzione della pensione sociale e di quella integrata al minimo permise a molti anziani di sfuggire da vere e proprie condizioni d’indigenza. Il fenomeno fu di nuovo monitorato solo nel 1986 dalla Commissione d’indagine sulla povertà, presieduta da Ermanno Gorrieri, per diventare poi macroscopico nella sua drammaticità con la recessione economica che a partire dal biennio 2008-2009 ha investito sia l’ Europa che il nostro Paese.
I dati a questo proposito forniti da Chiara Saraceno nel suo recente «Il lavoro non basta» (Feltrinelli: pagg 136, euro 15) sono eloquenti: 43 milioni di cittadini europei non dispongono di sufficiente alimentazione e nel 2012 l’Eurostat ha rilevato che il 24,8% della popolazione dei 28 Paesi Ue è a rischio di esclusione e povertà. Mentre in Italia la povertà assoluta è passata dal 4,1% del 2007 al 7,9% del 2013, diversamente da quella relativa, il cui aumento è risultato più contenuto.
Quel che emerge, al di là delle statistiche, sono le nuove figure trascinate nel vortice della povertà: i nuclei famigliari lacerati dall’instabilità coniugale, le famiglie monoreddito, i working poors (cioè lavoratori a intermittenza e/o con un basso reddito), le donne che scontano maggior inattività, part-time involontari e contratti atipici che comportano retribuzioni molto basse.
Le ricadute di questi fattori in particolare sui bambini sono preoccupanti, in quanto il 4% di essi non fa un pasto proteico al giorno e soprattutto patisce sia una forte deprivazione materiale che educativa, con gravi ripercussioni sui naturali percorsi di apprendimento.
Pertanto, in un contesto segnato da questo approfondimento delle disuguaglianze, è grave per la Saraceno che il nostro Paese non si sia ancora dotato di un sistema di protezione sociale adeguato, mentre una serie di provvedimenti adottati negli ultimi anni (dall’abolizione dell’imposta di successione allo sconto fiscale degli 80 euro, dall’eliminazione dell’Ici e dell’Imu sulla prima casa alla Tasi) hanno mobilitato risorse volte a favorire i ceti più abbienti oppure con finalità puramente di carattere elettorale.
D’altronde, non solo siamo uno dei Paesi d’Europa dove non è previsto un reddito minimo per i poveri a livello nazionale ma sia le sperimentazioni avviate sporadicamente nel recente passato (reddito minimo di inserimento, carte acquisti, social card, sostegno di inclusione attiva e Asdi, cioè l’assegno disoccupazione) sia la nuova Asdi varata dal governo Renzi per il quadriennio 2016-2019 non hanno avuto e non hanno alcun respiro di carattere universalistico.
Seppur in Parlamento giacciono una serie di proposte di legge di sostegno al reddito dei poveri e alcune regioni (Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, Valle d’Aosta) hanno attivato amisure in questa direzione, anche se limitate nella temporalità, però bisogna convenire con la Saraceno quando amaramente afferma che il «contrasto alle povertà, oggi come un tempo, non produce né mobilitazione né indignazione».