Cile: verità e giustizia per le 119 vittime dell’Operación Colombo

Tra il 1974 e il 1975, in una sorta di anticipo del Plan Condor, 119 militanti della sinistra cilena, in gran parte appartenenti al Mir, furono uccisi dal regime di Pinochet, ma la loro morte fu derubricata a regolamenti di conti interni alla guerriglia.

di David Lifodi

Sono trascorsi 43 anni e 2 mesi circa dall’Operación Colombo, un’operazione non troppo dissimile da quella più recente dei falsos positivos in Colombia e che anticipò il Plan Condor, il piano di sterminio degli oppositori politici condotto da ll’internazionale nera che negli anni Settanta si era installata in America latina. L’Operación Colombo, che avvenne principalmente in Cile, fu caratterizzata dall’uccisione di 119 militanti appartenenti in gran parte al Mir (Movimiento Izquierda Revolucionaria), l’organizzazione guerrigliera cilena. La morte dei suoi membri, avvenuta per mano della Dina, la polizia politica di Pinochet, fu fatta passare come una sorta di regolamento di conti interno alla stessa guerriglia, per dare l’idea, di fronte all’opinione pubblica, che i miristas si fossero uccisi tra di loro a causa di una serie di faide interne.

A distanza di così tanto tempo da quella manovra di vera e propria disinformazione, ancora oggi i familiari dei desaparecidos attendono verità e giustizia. Finora la magistratura si è pronunciata soltanto sulla scomparsa di circa 60 persone, ma a preoccupare è la decisione della Corte suprema che, nel marzo 2018, ha autorizzato l’esercito a mantenere il segreto di stato sull’identità degli ex agenti della Dina coinvolti nei casi di sparizione dei desaparecidos per evitare che “la loro vita privata fosse in pericolo”, annullando così la sentenza di segno contrario emessa dalla Corte d’appello.

Finora le pene più alte sono state comminate nei confronti dei responsabili del sequestro e della morte dell’operaia Eugenia Martínez Hernández e dello studente universitario Gerardo Silva Saldívar. La ragazza fu sequestrata il 24 ottobre 1974 all’interno della fabbrica presso cui lavorava e che per alcuni mesi era stata autogestita dagli stessi operai, mentre il giovane fu rapito all’interno della biblioteca dell’Universidad de Chile. Entrambi furono condotti in un centro di detenzione clandestino, torturati e uccisi. Sono stati condannati a 10 anni l’allora generale Raúl Iturriaga Neumann, che promosse l’ Operación Colombo anche in Brasile e Argentina, l’ex colonnello Manuel Carevic ed altri uomini della Dina. Tuttavia, l’altra faccia della medaglia racconta anche di centinaia di militari e agenti assolti semplicemente perché gli imputati non hanno mai confessato i loro misfatti e alla fine sono riusciti a farla franca, come nel caso della morte della mirista María Angélica Andreoli.

In Argentina, al contrario, il 26 luglio 2017 è passato alla storia come il giorno del juicio a los jueces, con la condanna all’ergastolo per quattro magistrati, Luis Francisco Miret, Otilio Romano, Rolando Evaristo Carrizo e Guillermo Max Petra Recabarren, conniventi con i militari e che avevano cercato di prendere la loro difesa, ma la notizia, riportata dal quotidiano argentino La Nación, è stata del tutto ignorata dalla stampa cilena e se ne intuisce facilmente il motivo. Dall’altro lato della cordigliera, infatti, il presidente della Corte Suprema Hugo Dolmetsch si era adoperato, in ogni modo, per concedere la libertà, per ragioni di età avanzata, anche ai militari condannati.

La stessa stampa, negli anni Settanta, sia batté in ogni modo per presentare la morte dei 119 miristas come il risultato di vendette interne consumatesi all’interno della guerriglia, sfruttando anche il timore della popolazione per la nascita di un possibile gruppo guerrigliero in grado di operare tra Argentina, Brasile e Cile. Il 16 giugno 1975 il cileno El Mercurio, ancora oggi di impronta assai conservatrice, titolò: “Paso de miristas armados a Chile”. La Segunda ribadì: “Extremistas chilenos son adiestrados en guerrillas”. La Tercera urlò: “Forman ejército guerrillero contra Chile”. Contemporaneamente, agli inizi di luglio 1975, per le strade di Buenos Aires apparvero i corpi di tre persone con accanto dei cartelli che indicavano il Mir come responsabile della morte e le carte d’identità di Jaime Robotham Bravo, Luis Guendelman Wisniak e Juan Carlos Perelman, detenuti e desaparecidos a Santiago del Cile nei mesi precedenti, ma in realtà quei cadaveri non corrispondevano a loro. Lo stesso era accaduto alcuni mesi prima, nell’aprile 1975, con il ritrovamento, nei sotterranei di un edificio di Buenos Aires, di David Silbermann Gurovhic, con accanto la sua carta d’identità e un foglio su cui era riportata la scritta: “Giustiziato dal Mir”.

Il quotidiano brasiliano Novo O Día e la rivista argentina Lea, il 22 giugno 1975, avevano pubblicato inoltre la lista dei 119 miristas, dati per morti a seguito di scontri a fuoco con la polizia oppure uccisi a causa di purghe interne ordinate dagli stessi vertici del Mir. Tra i 119 desaparecidos figuravano 94 militanti effettivi del Mir, 9 socialisti, 7 comunisti ed un appartenente al Mapu (Movimiento de Acción Popular Unitaria). In gran parte erano studenti, operai, giornalisti e attivisti tra i 18 e i 25 anni. Considerando la lentezza con cui si muove la Corte Suprema, saranno molto pochi i familiari dei los 119 che avranno giustizia.

David Lifodi
Sono nato a Siena e la mia vera occupazione è presso l'Università di Siena. Nel mio lavoro "ufficioso" collaboro con il sito internet www.peacelink.it, con il blog La Bottega del Barbieri e ogni tanto pubblico articoli su altri siti e riviste riguardo a diritti umani, sindacalismo, politica e storia dell’America latina, questione indigena e agraria, ecologia.

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