«2119 – la disfatta dei Sapiens»
Marinella Correggia intervista Sabina Guzzanti sul suo romanzo (*)
Malvenuti nella distopia. Sono passati novantotto anni da oggi e sul pianeta Terra va in scena un futuro indesiderabile che minaccia di sfociare nella fine della specie umana, autodefinitasi sapiente. Ma c’è chi lavora per la salvezza, verso una possibile ecotopia. Fra queste due tensioni opposte si svolge l’intreccio e l’intrigo di «2119 – la disfatta dei sapiens»: il primo, fantapolitico romanzo di Sabina Guzzanti. Nel 2119 è già successo il peggio: catastrofi a ripetizione hanno costretto i superstiti a sottomettersi a un regime ingiusto ma apparentemente imperturbabile. Cento milioni di arci-miliardari onnipotenti (i Crem) e tre miliardi di migranti ambientali senza diritto di voto ruotano intorno ai più potenti di tutti: gli azionisti del Consorzio delle multinazionali che controllano il web. Ma c’è Holly, l’unico organo di informazione scritto da umani anziché dai robot che sanno fare tutto. A un certo punto, quando si affaccia un nuovo algoritmo in grado di eliminare definitivamente il libero arbitrio, le possibilità di salvezza sono affidate ai giornalisti fuggiaschi di Holly, e in particolare alla redattrice di una rubrica sui gatti…
Nel planisferio che apre il romanzo, la Terra è ridotta a brandelli, con i superstiti concentrati nei pochi territori ancora emersi dopo l’innalzamento di mari e oceani. E stavolta i migranti ambientali vengono anche dal Nord del mondo.
«Sì. Diventiamo tutti migranti. Le catastrofi ambientali colpiscono dovunque. Anzi, se i cambiamenti climatici arrivassero a compiersi appieno, quella mappa sarebbe troppo ottimistica. Nessuna sopravvivenza. Quel futuro non è tanto lontano. E’ urgente l’impegno, adesso, per non arrivare dentro un incubo come quello. La disfatta dei sapiens indica la necessità di un percorso evolutivo dei superstiti, come se facessero un salto di specie che li porta a lasciare da parte l’antropocentrismo che è una loro caratteristica».
I dissidenti sono il fattore umano dirompente in una società tecnocratica e strutturata nella quale interagiscono i ricconi Crem, gli stratosferici e potentissimi membri del Consorzio digitale, i rifugiati ambientali, il governo di turno…
«I dissidenti spuntano in vari gruppi. Fra i migranti ma anche fra i Crem, e perfino fra i ricchissimi qualcuno nutre un po’ di dubbi. In un contesto nel quale la politica non conta più nulla: i 100 milioni di ricchi comandano e non ne hanno bisogno, si fa politica come si fa il militare. L’incarico di parlamentare è un dovere che spetta a turno agli uomini. Formalmente la politica deve garantire il rispetto della Costituzione, ma tutto è finalizzato a proteggere l’equilibrio economico. Un equilibrio…squilibrato, perché le multinazionali del web controllano quest’ultimo ma anche tutto il sistema dell’intelligenza artificiale, e gli impianti biocibernetici, dunque le menti e i corpi dei privilegiati che li portano. I migranti non se li possono permettere. Loro sono manipolati attraverso gli algoritmi. Come in Matrix, sono solo una fonte di dati. Vengono tenuti in vita – con le sovvenzioni e il cibo sintetico -, perché le ricerche sul cervello devono continuare, essendo finalizzate a un grosso progetto».
Nell’idea dello sganciamento da un sistema che detestano, i dissidenti di 2119 ricordano gli odoniani del romanzo fantapolitico I reeietti dell’altro pianeta di Ursula Le Guin, che si dissociano dal pianeta opulento e cinico Urras ed emigrano nel pur inospitale Anarres…
«Là, se ne vanno su un altro pianeta, utopistico ma con tutti i limiti della situazione reale, una vita non facile nella polvere… Qui invece cercano di salvarlo, questo pianeta. I giornalisti di Holly scappano perché sono costretti, hanno un mandato di cattura, si danno alla latitanza sul pezzetto avanzato di Sicilia».
In Fahreneit 451, romanzo distopico di Ray Bradbury, è proibito leggere e possedere libri – vengono messi al rogo. Anche sulla Terra di 2119 di libri ne circolano pochi; poi però la riscossa parte dal ciclostile!
«Sì, là è tutto elettronico, salvo vecchi esemplari non ci sono più libri. E’ tutto in rete. Naturalmente il rischio è che se il sapere che è in rete viene cancellato per qualche motivo, non rimangono tracce…».
I migranti ambientali non devono lavorare (i robot fanno praticamente tutto) ma nemmeno possono emanciparsi in altro modo. Quindi sono assorbiti dai social: aspirano a diventare super-influencer per avere alcuni dei privilegi Crem. E’ un richiamo critico all’attualità sempre più digitale?
«Il web nasce con un’aspirazione di libertà e democrazia, un collegamento non dominato dall’oligarchia. La deriva sono stati i social, attraverso i quali avviene la partecipazione di massa al web. Quest’ultimo senza social sarebbe molto più libero, le possibilità di sfruttamento e di monopoli sarebbero molto inferiori. Il web è fantastico, una santa cosa, da salvare».
In una realtà resa sempre più virtuale, il collegamento diretto, fisico fra cervello e macchina è un orizzonte prossimo, magari con il pretesto della salute?
«Gli impianti biocibernetici arriveranno molto presto. Elon Musk, il magnate di Tesla, con la sua azienda Neuralink ha già messo un chip nel cervello di un maiale. E senza che ci sia nessuna riflessione prima e una legge poi, a regolamentare. Una volta che hai un chip nel cervello, chi garantisce che non ci siano manipolazioni di ogni tipo? Nessuno, ovviamente. E’ un terreno inesplorato. Galoppa senza che le comunità siano consapevoli delle sue potenziali conseguenze».
Il contesto è un po’ una evoluzione digitale dell’orwelliano 1984?
«Un libro che mi è piaciuto molto. E’ distopia allo stato puro senza possibilità di redenzione e salvezza, mentre il mio romanzo si trasforma. 1984 dice tanto sulla contemporaneità, sulla manipolazione delle parole, sulla falsificazione delle notizie. Siamo costantemente manipolati, sembra che l’informazione abbia come missione la manipolazione anziché il coinvolgimento e la partecipazione. Vale per la tivù ma anche per i giornali. Gli algoritmi poi sono fatti apposta per trasformare i nostri comportamenti in una direzione spesso infelice, perché le emissioni negative sono più efficaci, colpiscono di più, persistono nel nostro stato d’animo. L’infelicità ci rende più dipendenti: per questo siamo resi appositamente infelici. Ma sono argomenti assenti dal dibattito pubblico. Facciamo tanti discorsi sugli haters ma rimangono superficiali, occorre essere più radicali. Gli haters sono in fondo spesso persone come drogate. I social danno dipendenza. Provocano reazioni chimiche, ormonali nle nostro corpo, che ci spingono a cercarli sempre di più. E’ creato apposta quell’impulso di andare a controllare i nostri account, impedendoci di concentrarci su quello che ci interessa e appassiona fuori. Dovremmo domandarci se è lecito. Nella Dichiarazione universale dei diritti umani è riconosciuto il diritto di ogni individuo alla proprietà, sua personale o in comune con altri. Non si capisce allora perché nostri dati personali non debbano essere considerati di nostra proprietà. Nel mio romanzo, più il Consorzio accumula dati, più i migranti sono controllati e manipolati. Forniamo valanghe di dati a industrie che li utilizzano in tutti i modi, anche per le ricerche sul cervello. E’ giusto che tutto sia gestito dai privati con finalità private?».
Per uscire dalla realtà distopica dei sapiens organizzati in modo gerarchico e ipertecnologico su un pianeta sbrindellato, è importante abbandonare l’antropocentrismo, imparare dagli altri esseri?
«Gli umani hanno procurato guai al pianeta. E a se stessi. Abbiamo teorizzato la nostra superiorità, presupposto ideologico per lo sfruttamento degli altri esseri: se pensiamo che la nostra vita è più importante della loro, possiamo torturarli, allevarli intensivamente con tutte le conseguenze del caso; e abbattere le piante che secondo noi non pensano, non parlano, oltre a non muoversi. Ma quando si sfrutta qualcuno c’è sempre un prezzo alto da pagare. Più teorizziamo la nostra superiorità sentendoci intelligentissimi, più diamo prova di una enorme stupidità, perché procedere verso l’autodistruzione è da dementi, non da sapiens. Ma se ci scrolliamo di dosso la superiorità e riusciamo a includere gli altri punti di vista, anche noi ci rafforziamo, diventiamo capaci di sopravvivenza. Il neurobiologo Stefano Mancuso dice che non siamo più intelligenti delle piante. E sappiamo molto poco anche sul cervello degli animali. L’intelligenza è sempre relativa alla soluzione dei problemi, non è l’esibizione di conoscenze fini a se stesse».
Il termine sapiens nel titolo evoca inevitabilmente le nostre origini.
«Preparando il libro ho letto diversi testi sulla preistoria. Fra gli altri Da animali a dèi di Yuval Noah Harari e L’economia dell’età della pietra di Marshall Sahlins. Insomma forse i sapiens non sono sopravvissuti perché più intelligenti dei Neanderthal ma piuttosto perché più violenti. Inoltre la svolta dell’agricoltura, e in seguito della scrittura ci hanno fatto perdere tantissime facoltà. Per un lungo periodo, pare che la nostra vita si sia accorciata e sia peggiorata. Secondo Harari e altri, prima dell’avvento dell’agricoltura si viveva abbastanza a lungo; poi l’aspettativa è scesa a 30-35 anni. Gli allevamenti, la convivenza con gli animali ha portato molte malattie; e si lavorava e faticava di più. Ecco, anche l’idea che la fatica, lo sforzo, il dolore siano necessari per temprarci va messa in discussione. Non dovremmo fare le cose che ci fanno soffrire».
C’è tempo ancora, per scongiurare la distopia compiutasi nel romanzo? Un recente, allarmato rapporto di Greenpeace ci ha detto che per l’Africa il clima è già al punto di non ritorno…
«Impossibile rispondere. Finché siamo vivi dobbiamo provarci. Rinunciare è peccato. Pensiamo a quello che ci ha insegnato la pandemia: la natura fa i salti, cambia all’improvviso, dall’oggi all’indomani ci ritroviamo in guerra. Non succede gradualmente. Noi crediamo magari che il riscaldamento dell’atmosfera avverrà poco per volta, che non saremo noi a morire ma le generazioni future – e infatti loro si sono sollevate, per fortuna. Ma la gradualità del processo di distruzione non è affatto contata. I ghiacciai, per esempio, si stanno sciogliendo più velocemente del previsto. Non sono come i nostri talk show che si fermano per lustri sullo stesso argomento! Si annuncia un periodo pieno di conflitti. Il processo in corso provoca e provocherà migrazioni, povertà, conflitti. Sarà dura. Immagino che poi la gente si organizzerà. Ognuno cercherà di salvarsi come può, insieme agli altri. Da lì si ricostruirà».
(*) testo ripreso da «L’extraterrestre», l’inserto (cartaceo e virtuale) ecologista che esce ogni giovedì con il quotidiano «il manifesto»