Ancora su «mala terra»

recensione di Gian Marco Martignoni al libro di Marina Forti

«Nel nostro reparto si lavora il cloruro / abbiamo saputo di recente / che è una sostanza cancerogena / Abbiamo parlato a lungo oggi / di questo…  Siamo stravolti / Duri brividi corrono ora / sui finestroni / del reparto»:  Ferruccio Brugnaro, novembre 1966

Sono ben quarantacinque i siti di interesse nazionale interessati a procedure di bonifica ambientale, in quanto sulla base del progetto Sentieri, promosso nel 2006 dall’Istituto Superiore di Sanità, le popolazioni residenti in quei territori sono esposte ai più svariati tipi di inquinamento, e una pesante eredità è stata consegnata alle future generazioni .L’industrializzazione del nostro Paese, decollata con gli inizi del Novecento e successivamente a partire dagli anni ‘ 50, si è irradiata a macchia di leopardo in più aree ove l’agricoltura era l’attività prevalente, cosicchè se l’emigrazione era stata da sempre un fenomeno impetuoso ed enorme sul piano quantitativo, il bisogno di un reddito certo e garantito metteva in ombra il sacrificio della natura incontaminata. Il passaggio dalla condizione di povertà a quella indotta dalla società dei consumi non contemplava il concetto di coscienza ambientale, e chi come Antonio Cederna, fondatore di Italia Nostra, osò descrivere come «un processo barbarico di industrializzazione» la scelta di collocare a Taranto il quarto centro siderurgico del Paese, fu celermente liquidato fra i “cacadubbi”. Sarà il disastro dell’Icmesa di Seveso e la contaminazione causata dalla dispersione della diossina a determinare per Gianni Tognoni (a quel tempo ricercatore dell’Istituto Mario Negri) «un percorso collettivo di presa di coscienza del rapporto tra fabbrica e territorio, la salute e l’ambiente, che coinvolgeva operatori della sanità, tecnici, sindacati, lavoratori e cittadini». Ed è proprio a partire da questa vicenda che Marina Forti, giornalista del qupotidiano il manifesto e ora collaboratrice di Internazionale, ha sviluppato il suo viaggio-inchiesta (Mala Terra: pag 198, euro 13, Laterza ) in otto realtà simbolo di quella devastazione ambientale, che oggi, a fronte dei processi di deindustrializzazione nel frattempo intervenuti, ha tramutato l’agognato benessere in un malessere esistenziale che invoca, inascoltato, l’intervento degli organi preposti dello Stato. Infatti, il sentimento più diffuso fra queste popolazioni è quello dell’abbandono da parte delle istituzioni, e in questo senso Marina Forti – da Brescia a Porto Marghera, come da Portoscuso ad Augusta, passando per Colleferro, Bagnoli e Taranto – dà voce alle mamme che si battono per tutelare i loro bambini e ai tanti esponenti dei comitati sorti spontaneamente per combattere i soprusi subiti, per via di una imprenditoria abile nel “mordi e fuggi”. Certo, senza le battaglie di Medicina Democratica e il contributo di una rivista quale «Epidemiologia e Prevenzione», saremmo tutti meno coscienti sul piano dell’analisi scientifica rispetto ai legami che intercorrono tra fonti inquinanti e rischio ambientale, sia per i lavoratori e le lavoratrici che per le popolazioni coinvolte da queste dinamiche perverse .La moria dei pesci, le mucche ammalate e abbattute nella valle del Sacco, le contaminazioni della catena alimentare, l’aria irrespirabile e le scuole chiuse fino all’emergenza nei quartieri di Brescia e Taranto, il piombo nel sangue e l’incremento delle morti per tumore sono fra le tragiche conseguenze del primato assegnato alla spietata logica del profitto. Come nel caso dell’azienda Caffaro, che pur essendo a conoscenza del rischio derivante dalle produzioni a base di Pcb (composti chimici altamente tossici e cancerogeni) ha deciso di proseguire l’attività per anni, fino al 1984, cioè ancora un anno dopo l’avvenuta messa al bando anche nel nostro Paese. La “consegna del silenzio ” è stata la regola anche per i dirigenti di Montedison, Enimont ed Enichem, chiamati a giudizio nel processo di Porto Marghera del 1996 dal pubblico ministero Felice Casson per i danni provocati dal Petrolchimico nella lavorazione del cloruro di vinile monomero, che veniva “polimerizzato ” e trasformato in Pvc. Il processo fu avviato grazie all’esposto presentato al tribunale di Venezia da Gabriele Bortolozzo, sulla base dell’elenco dei 157 compagni di lavoro deceduti e dei 400 ammalati. Ora che le produzioni in questi siti sono state dismesse, come a Bagnoli, o drasticamente ridimensionate, il ricatto del posto di lavoro non funziona più. Così come la diatriba fra ambientalisti e produttivisti appare una faccenda d’altri tempi, soprattutto quando la disoccupazione e l’assenza di una minima prospettiva mortificano qualsiasi speranza nell’avvenire. Fra l ‘altro, come denuncia amaramente la Forti, le attese bonifiche, l ‘eventuale ambientalizzazione del ciclo produttivo sul modello della Ruhr e la messa in sicurezza di questi siti, che prevedono investimenti stimati da Lega Ambiente pari a 30 miliardi , stentano a decollare non solo per i ritardi della pubblica amministrazione pubblica. Ciò che indigna è la difficile applicazione del principio «chi inquina paga», poichè i responsabili dei danni ambientali, con tutti i cavilli possibili, si sono dileguati, facendo di conseguenza ricadere l’onere, come nel loro stile, sulla collettività.

 

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