Autonomia sindacale, conflitto e rapporti di produzione

recensione di Gian Marco Martignoni a «Vento dell’Est. Toyotismo, lavoro, democrazia» di Mario Sai

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E’ un libro prezioso e ricco di spunti per la discussione collettiva questo «Vento dell’Est. Toyotismo, lavoro, democrazia» (Ediesse: pagine 172 per euro 12) di Mario Sai in quanto se la memoria è sempre a rischio di dispersione, al contempo anche la migliore elaborazione della Cgil rispetto ai diritti d’informazione, alla contrattazione d’anticipo e al governo democratico dei processi produttivi è destinata a essere brutalmente archiviata per via del vistoso mutamento in quest’ultimo trentennio dei rapporti di forza tra capitale e lavoro.

Pertanto l’intento che muove la riflessione di Sai è quello di comprendere per quali ragioni si è esaurita la lunga stagione contraddistinta dall’autonomia sindacale e dal conflitto industriale, perché si è verificato un calo internazionale della sindacalizzazione e sostanzialmente per le organizzazioni sindacali è riservato al massimo un ruolo subalterno e di fatto marginale.

La disamina compiuta dell’autore appare particolarmente efficace poiché focalizza marxianamente la sua attenzione sulla centralità dei rapporti di produzione e quindi sulle trasformazioni intervenute sul piano dell’organizzazione del lavoro dentro alla fabbrica diventata “globale”.

Fondamentale dentro all’impresa intesa come comunità è il salto di qualità che contraddistingue il passaggio dal taylorismo al toyotismo: non solo il conflitto deve essere bandito per lo spirito Toyota ma i lavoratori – anche tramite l’istituzione dei circoli di qualità – diventano collaboratori e la partecipazione è prevista esclusivamente per via gerarchica.

Analogamente nel capitalismo informazionale la centralizzazione e la concentrazione sono i fattori dominanti dei processi di lavoro, al punto che, riprendendo le analisi di Carlo Formenti contenute in «Felici e sfruttati», Sai annota come i lavoratori “cognitivi” sono paradossalmente sottoposti tayloristicamente, diversamente dal passato, a un «disciplinamento della mente» e non solo del corpo.

Venendo al nostro Paese, dopo la sconfitta del movimento sindacale alla Fiat nel 1980, si intensifica progressivamente il processo di riorganizzazione del comando d’impresa. Nell’ ’89 al Marentino, Cesare Romiti lancia il “piano della qualità totale”, mentre successivamente Marchionne prima alla Sata–Fiat di Melfi e poi con la svolta di Pomigliano riorganizza la fabbrica tramite il Wcm (World Class Manifacturing) al fine di aziendalizzare le relazioni sindacali, fuoriuscire dal contratto nazionale di categoria e catturare il consenso subalterno delle organizzazioni sindacali funzionali alla sua logica autoritaria.

La tendenza alla americanizzazione delle relazioni sindacali non piace solo al 68% delle imprese del nord-est ma fa scuola pure in Europa, giacché proprio in Germania si è sviluppata un’offensiva culturale contro il potere sindacale e il ruolo unificante della contrattazione collettiva. Un’offensiva che, tramite la sponda politica offerta dal social-liberismo tedesco, ha ampliato a dismisura l’area del mercato del lavoro non tutelata da un regolare rapporto di lavoro, determinando le condizioni per una scorciatoia competitiva fondata sulla divisione e la frantumazione del lavoro dipendente.

D’altronde, come l’esempio eclatante della Grecia insegna, i processi di gerarchizzazione e di verticalizzazione delle decisioni si sono affermati largamente anche sul versante politico. Da Berlusconi a Renzi, triste fotocopia di Tony Blair, passando per il duo Grillo-Casaleggio, lo svuotamento della forma partito – con la predominanza del leader, una struttura professionale al suo servizio e uno stuolo di cortigiani – è un dato più che evidente; per di più amplificato dall’inganno delle primarie legittimate anche dalle presunte forze antagoniste.

Non a caso Sai rilancia le ragioni di un partito del lavoro e di massa strettamente legato a un sindacato che mantiene una visione critica rispetto alle tendenze del capitale globale. Se si conviene, con Gramsci, che la strada della ricostruzione del blocco storico è l’unico antidoto per contrastare le pulsioni autoritarie del tardo-capitalismo.

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