Chiapas: murales zapatisti

Il progetto di un mondo nuovo

di Aldo Zanchetta

Su Il Manifesto di venerdì 14 ottobre è apparsa una recensione sul libro Murales zapatisti  – Progetto di un mondo nuovo, da me scritto assieme all’amico Bugliani, compagno di tanti viaggi in quelle terre ribelli.  Una recensione breve, sintetica, la cui autrice è Claudia Fanti, che tocca i punti essenziali di questo testo dedicato a ricordare e ripensare l’insurrezione zapatista di quasi 2 anni fa. La ribellione zapatista che suscitò tanto interesse sembra oggi dimenticata. Eppure essa continua ad essere viva.

Prendo spunto per dire alcune cose sul perché di questo libro, dedicato al pensiero e agli obiettivi degli indigeni maya insorti il primo gennaio 1994, espressi attraverso i murales, questa forma di linguaggio pittorico di grande potenza espressiva, tradizionale in Messico e nota nel mondo grazie ai capolavori di molti artisti di cui ricordiamo qui i tre più noti: Diego Rivera, Diego Alvaro Siqueiros e José Clemente Orozco. Dipinti per lo più su grandi pareti murarie, da cui appunto deriva la parola che li identifica, essi evocano i momenti più forti della storia messicana, letti attraverso gli occhi del “regime” che si era instaurato dopo la grande ma incompiuta rivoluzione popolare di Pancho Villa nel Nord e di Emiliano Zapata nella regione centrale e meridionale del paese. Questi muralisti hanno assolto in realtà una funzione di “regime”, cioè creare un ampio consenso popolare attorno al Partito Rivoluzionario Istituzionale (sic!), il PRI, che governò per 70 anni il paese, dal 1930 circa al 2.000, la cui retorica rivoluzionaria fu progressivamente assorbita in una spregiudicata politica elitaria.

Ben diversa invece è la realtà e i motivi per cui sono nati i murales zapatisti e il loro significato: raccontare ai visitatori stranieri e ricordare agli abitanti le motivazioni profonde di una lotta in corso e promossa dal basso, contro coloro che si erano abusivamente impossessati dei valori della rivoluzione zapatista, riassumibili un po’ riduttivamente in due parole: tierra y libertad, che veniva negata nella prassi di governo. Dipinti su materiali deperibili quali pareti e porte di legno esterne dei modesti edifici comunitari soggetti alle intemperie, espressione non di una ideologia di regime, configurata e cristallizzata per decreto del potere, ma espressione di un pensiero in continua rielaborazione, essi vengono commissionati dalle comunità ad artisti “militanti” che condividono gli stessi ideali e subiscono la stessa persecuzione da parte del potere. Se abbiamo citato i nomi degli artisti del regime, vogliamo ricordare qui quelli di alcuni di questi: Chávez Pavon, Sergio Valdez e altri.

I murales zapatisti nascono “dal basso”, con raffigurazioni che vengono discusse con gli esecutori dagli abitanti delle singole comunità ove essi vengono chiamati a operare e che ne riflettono il sentire e il pensare, che mutano con l’evolvere della loro riflessione. Ne è un esempio significativo il mural della casa delle riunioni comunitarie di Oventic, dove nella primitiva versione, dipinta nella fase iniziale della ribellione, compare un grande volto di Zapata che col suo sombrero e la mano destra tesa in alto con in pugno un grande fucile sembra proteggere la schiera di combattenti disegnata, quasi sfumata, sullo sfondo, in basso a destra. Successivamente il mural venne ridipinto, seguendo appunto il mutare del pensiero comunitario, e il fucile venne  sostituito da un machete, pacifico strumento quotidiano della vita contadina.

Assai più complesso e significativo il grande Murale di Taniperla[1], che venne distrutto dai militari il giorno successivo a quello della sua inaugurazione. Il soggetto del dipinto fu il risultato di lunghe discussioni fra gli abitanti e rappresentava, con immagini anche ingenue ma frutto di riflessione comune, l’ideale di comunità alla quale essi aspiravano. Bugliani nel libro ne fa una interessante e dettagliata analisi, troppo lunga per essere qui riportata per intero ma dalla quale estraggo un brano  (pag.24):

Malgrado la sua vita brevissima Vida y sueños de la Cañada del río Perla  rivestirà un ruolo di grande rilevanza nella ‘storia’ dei murales zapatisti. E ciò non soltanto perché sulla sua ideazione e sulle modalità di esecuzione si posseggono informazioni dettagliate, ma soprattutto perché ha prodotto un mutamento sensibile del punto di vista della narrazione iconografica, essendo stato uno dei primi murales a mostrare il rapporto intrattenuto dalla comunità indigena col movimento zapatista ‘dall’interno’, ovvero il rapporto che le basi di appoggio hanno col movimento, superando l’ottica ‘totalizzante’ della prospettiva di guerra che ha caratterizzato i primi murales. Altrimenti detto, questo mural testimonia, in concomitanza con la nuova conformazione socio-culturale delle cañadas[2] dovuta alla convergenza di differenti gruppi etnici e linguistici nella stessa regione e alle loro capacità di coesione nel fare comunità, l’acquisizione d’un diverso strumentario iconografico e l’implementazione di immagini nuove rispetto al discorso iconografico originario costruito sul racconto epico (al quale appartengono i simboli classici della ribellione e lotta al Potere) e sulla raffigurazione tragica (ossia bellica) dell’evento (vale a dire i simboli specifici dell’insurrezione del gennaio 1994).

Composto di tre parti o sezioni che s’integrano in un racconto di vasto respiro allegorico, il mural di Taniperla ha per baricentro la raffigurazione della Casa Municipale) del Municipio autonomo Flores Magón, sulla cui porta sono dipinte due colombe bianche, simbolo di pace per il Chiapas e per il Messico. Sopra di queste campeggia la scritta in castilla (come gli indigeni chiamano il castigliano): «Casa municipal», e sopra ancora si distende la scritta in lingua tzeltal: Sna yu’un ateletic yu’un comonaletic («Casa dei lavoratori delle comunità»); la doppia iscrizione è da attribuirsi al fatto che, a differenza della prima scritta destinata ai visitatori delle società civili, la seconda vale per gli abitanti del capoluogo municipale. Quest’ultima scritta è affiancata da entrambi i lati da due stelle rosse a cinque punte, il simbolo classico dell’EZLN, che qui viene associato al simbolo di Taniperla, la canna comune, che adorna la porta in ricordo delle origini dell’insediamento. A movimentare la scena, sul lato destro rispetto all’osservatore, è raffigurata una donna indigena vestita con abiti tradizionali, e su quello sinistro un contadino indigeno; entrambi camminano verso la casa municipale portando dei documenti da sottoporre al Consiglio municipale autonomo, a significare la pari partecipazione di genere alle questioni comunitarie.

Non so se queste parole e queste immagini sveglino ricordi in quanti, negli anni iniziali della ribellione zapatista (iniziata l’1 gennaio 1994 e tuttora non conclusa da un accordo di pace ma congelata in un precario armistizio), solidarizzarono con essa, che non furono pochi fra i giovani e i meno giovani dell’epoca, o se incuriosiscano i ventenni di oggi, non ancora nati all’epoca.

In un momento in cui la guerra è tornata in primo piano nelle vicende del mondo (in realtà non è mai terminata, ma era solo lontana dai nostri occhi), una riflessione sulla vicenda zapatista avrebbe molto da insegnare sulla possibilità di convertire negli animi uno spirito guerresco in una aspirazione e instaurazione di pratiche volte a ricostruire la pace. In realtà in Chiapas, a 28 anni dall’insurrezione fra governo e insorti vige solo una lunga tregua ufficiale, mai convertita in accordo di pace e spesso violata dal “potere ufficiale”. Questo, bene o male, consente agli “insorti” di proseguire nella loro ardua costruzione interna di forme di democrazia radicale, ed anche di una economia alternativa, dove i valori d’uso prevalgono su quelli dello scambio merce contro denaro, e dove in realtà si stanno compiendo progressi per ridurre la sua necessità. Ma questo sembra interessare oggi poco anche a chi parla della costruire un mondo diverso, più giusto e vivibile, dimenticando che mondi diversi e plurali esistono e resistono in zone lontane, dal Chiapas alle foreste del sud del Chile,  dal Rojava alle sabbie del Sahara. Ciò non interessa solo le persone coinvolte ma un “mondo di mondi” diversi fra loro e con aspirazioni pacifiche  è un affare comune, di tutti noi. Il libro Murales zapatisti – Progetto di un mondo nuovo è stato scritto per ricordarlo.

Chi fosse interessato al libro ma incontrasse difficoltà a reperirlo, può rivolgersi all’editore cliccando qui: http://mutusliber.it/murales1.html.

 

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