“Chiedi alla polvere”: dispacci da un calcio marginale

Riflessioni sul libro di Francesco Caremani (Bradipo Libri, 2023)

di Valerio Moggia (*)

Quella di Arturo Bandini è una storia delle storie della Grande Depressione, quella di un italoamericano che dal Colorado raggiunge Los Angeles in cerca di fortuna come scrittore. In sé, non ha nulla di eccezionale, e proprio nel suo essere una storia comune di gente che lotta per uscire da fango e diventare qualcuno sta la sua grandezza. È una di quelle storie che si possono conoscere solo chiedendo alla polvere calpestata e sollevata dalla gente comune e senza nome che abita nelle zone più remote del nostro mondo. Oltre settantanni dopo John Fante, anche Francesco Caremani ha posto alcune domande alla polvere, quella dei campi di pallone, e si è fatto raccontare delle storie che altrimenti avrebbero rischiato di restare, appunto, prigioniere di quel pulviscolo. Il suo Chiedi alla polvere. Quando il calcio non è solo un gioco è una raccolta di brevi articoli scritti, tra il 2014 e il 2020, per Il Calcio Illustrato, ma rivela anche una insospettabile anima da libro a sé stante e autonomo.

La forma della raccolta consente di usarlo anche come una sorta di  wunderkammer letterario, pescando a caso racconti che sono pillole spesso di un paio di pagine e che si leggono nel tempo di un caffé. L’ordine cronologico è puramente convenzionale, e l’assenza di un indice – cioè di una mappa con cui orientarci in queste oltre 200 pagine – ci lascia l’onere e l’onore di scegliere come leggerlo. Personalmente, ho iniziato come si leggerebbe un libro qualsiasi, dall’inizio verso la fine, ma una volta smarrito sbadatamente il segnalibro che marcava i miei passi in quel viaggio guidato, ho deciso di cambiare metodo. Ho iniziato ad aprirlo a caso, approdando di volta in volta in un posto nuovo, e un libro sul calcio è divenuto un insolito diario di viaggio e di esplorazione. Non so se era questo il modo in cui Caremani aveva pensato che dovesse essere affrontata la sua opera, ma di sicuro leggendolo così ne ho scoperto un lato pregiato e ancora più coinvolgente.

Le sue storie spaziano per il mondo – anzi, i mondi: Primo, Secondo e Terzo, se credete che ne esistano solo tre – e attraversano comunità tagliuzzate dagli eventi della Storia, che il calcio prova a suo modo a ricomporre. A Blackburn, nel Nord inglese in cui è germogliata la Brexit, l’Abu Hanifah Foundation ha messo in piedi un progetto sportivo per ragazzi e ragazze delle numerose comunità musulmane locali. Integrazione tra immigrati e autoctoni, ma anche tra gli stessi immigrati, che spesso provengono da regioni in conflitto tra loro, come Pakistan e India. A Za’atari, in Giordania e a un passo dal confine siriano, c’è un colossale campo profughi da 82.000 persone, per più della metà bambini e bambine, e c’è un gruppo di ragazze che lotta per il proprio diritto di giocare a calcio contro ogni pregiudizio sociale. Nel corso del tempo, queste ragazze hanno persuaso le famiglie della loro scelta, e oggi il campo profughi ospita 17 squadre femminili con 500 praticanti. A Ciudad Oculta, una delle immense villas miseria di Buenos Aires, si disputa ogni domenica un torneo di mini-partite a eliminazione diretta, e la squadra che vince si porta a casa il premio in denaro messo assieme con le quote d’iscrizione, che in questi quartieri significa comunque una buona somma.

In un mondo in cui calcio significa soprattutto dirette televisive, contratti faraonici, approfondimenti sui giornali e tanto show business, le storie raccontate da Caremani arrivano da luoghi remoti – anche quando sono ambientate in via Corelli a Milano, dove ha sede un Centro di Accoglienza per migranti – e sembrano narrare il calcio di un mondo parallelo. Pare quasi di leggere dispacci inviati da un diplomatico che si trova in un paese lontano, in un’epoca senza internet né televisioni, hanno un gusto antico ma, è bene tenerlo a mente, parlano dell’oggi, delle ferite ancora aperte del nostro mondo, di cui magari non riusciamo ad accorgerci. A Guam, avamposto statunitense nel Pacifico, c’è una squadra chiamata Doosan FC che è divenuta famosa nel 2015 per aver perso una partita 24-1. E che nonostante questo continua a giocare, praticamente in autogestione e con i sacrifici dei suoi componenti, stretti tra impegni di lavoro e di studio. Come lo si fa a Vallecas, alla periferia di Madrid, in quella zona resa famosa dal Rayo Vallecano ma in cui la vera squadra del popolo è il Club Deportivo Independiente de Vallecas.

Un calcio marginale ma non solo – e non tanto – perché si gioca ai margini della società. Lo è come lo era il cinema marginal brasiliano di fine anni Sessanta, pura controcultura rispetto a ciò che era il cinema dominante all’epoca nel paese, in cui era la necessità a spingere i giovani cineasti a realizzare pellicole spesso grottesche, povere di mezzi ma ricchi di sogni. E infatti era anche chiamato cinema de invenção, cinema d’invenzione, perché ci voleva invenzione e caparbietà per tirar fuori qualcosa di buono da quella povertà. Il calcio di cui si racconta in Chiedi alla polvere è esattamente la stessa cosa, solo che al posto della pellicola c’è il pallone, e al post di regista e attori abbiamo allenatori e giocatori. Ma l’anima che … anima questi due fenomeni, così distanti nel tempo e negli ambiti, è in realtà lo stesso. E, se vogliamo portare avanti la metafora, questo libro è come un piccolo cineclub – non clandestino, ma senza dubbio indipendente, perché pubblicato da una piccola casa editrice torinese – in cui entriamo distrattamente, ci accomodiamo sulla seggiola, e scopriamo cosa ci viene proposto oggi.

(*) Link all’articolo originale: https://pallonateinfaccia.com/2023/08/20/chiedi-alla-polvere-caremani-recensione/#more-8135

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