Ecologia sociale a Carrara

Una mostra e altre iniziative dal 27 al 29 aprile e le riflessioni di GIANNI SARTORI a quasi 30 anni dall’esplosione

«Quando la natura può essere concepita o come uno spietato mercato competitivo, o come creativa e feconda comunità biotica, ci si aprono davanti due correnti di pensiero e di sensibilità radicalmente divergenti, con prospettive e concezioni contrastanti del futuro dell’umanità. Una porta ad un risultato finale totalitario e antinaturalistico: una società centralizzata, statica, tecnocratica, corporativa e repressiva. L’altra, ad un’alba sociale, libertaria ed ecologica, decentralizzata, senza Stato, collettiva ed emancipativa». Murray Bookchin

Rivisitazione per i 30 anni di resistenza ambientale (1988-2018) nel territorio apuano. In memoria dell’ecologista anarchico Murray Bookchin. Iniziativa, a cura dell’Archivio Germinal presso l’ex Ospedale S. Giacomo e l’ex Camera del Lavoro (dal 27 al 29 aprile) a Carrara.

Inizialmente i compagni del Germinal intendevano limitarsi a esporre parte del materiale conservato in archivio.

Sia per vigilare sull’attuale situazione dell’opera di bonifica che per ridiscutere le modalità di escavazione “ad alta velocità” che stanno deturpando definitivamente le montagne apuane. In particolare da quando negli ultimi 30 anni il territorio è stato trasformato in “distretto minerario” a tutti gli effetti.

All’origine del filo conduttore (“rosso” ovviamente) la lotta per la salute pubblica e per la chiusura della Montedison.

La quantità e la qualità dei materiali conservati dall’Archivio Germinal hanno poi consentito di ampliare il progetto realizzando una mostra vera e propria. Si inizia, ovviamente, con lo scoppio del serbatoio di Rogor nel 1988 e si procede analizzando sia la portata dell’inquinamento sia le ripercussioni sanitarie e sociali provocate dal drammatico episodio.

Quasi trenta anni sono trascorsi anche dalla chiusura dell’impianto industriale (anzi del “famigerato impianto industriale”). Impianto non solo produttore di pesticidi ma sede di un inceneritore di rifiuti tossici (situato nella Zona Industriale Apuana) provenienti da ogni angolo del Paese.

Aria, acqua, terra, cibo… tutto era diventato potenzialmente pericoloso, soprattutto all’indomani del fatidico 17 luglio 1988.

Il timore per le prevedibili conseguenze sulla salute era diffuso e costante (oltre che giustificato, beninteso). Ma le preoccupazioni della popolazione si scontravano contro il muro di gomma delle false e rassicuranti informazioni provenienti sia dalle autorità che dai media asserviti.

Oggi non ci sono più dubbi. Quello che all’epoca paventava Medicina Democratica ha avuto una serie di tragiche conferme: «l’aumento del rischio di malattie tumorali è reale ed è un fattore – spiegano quelli del Germinal – che indica quanto le nostre vite siano, oggi come allora, appese alla passività delle istituzioni che nel corso degli anni hanno sorvolato sull’argomento della bonifica o addirittura osteggiato alcuni tentativi di ricerca della verità sulle analisi chimiche».

Tant’è vero che – anche dopo tre decenni – la bonifica di alcune aree ancora non sussiste.

I “refrattari” continuano denunciando che «l’acqua del canale Lavello, quella delle falde acquifere, dei pozzi nella zona litoranea nelle vicinanze degli stabilimenti industriali e quella del mare è stata inquinata nel corso degli anni anche precedenti allo scoppio del 1988 da forti quantitativi di metalli pesanti, solventi e altri materiali tossici contenuti in fusti che arrivavano via mare presso il porto di Marina di Carrara, su rotaia presso la stazione della Zona Industriale e su gomma da chissà quali altri stabilimenti chimici di vario tipo. Nel “migliore” dei casi quei bidoni stazionavano nei depositi per un periodo variabile e poi andavano incontro a incenerimento. Scaricando quindi le sostanze inquinanti direttamente nell’atmosfera. Sono ancora in molti a ricordarsi di quel fumo denso nerastro che dava all’aria un caratteristico odore dolciastro di diossina che ci ha accompagnato per tanti anni, e che quando il vento di ponente dava spinta si andava a spandere lentamente su tutta la provincia e zone limitrofe sino alle vette apuane». Una pagina dura e dolorosa che è parte integrante della Storia di questi territori e dei suoi abitanti. Anche di quelli nati in epoca successiva, visto e considerato che le sostanze inquinanti si accumulano, sia nel terreno che nei corpi degli esseri viventi (sapiens compresi) con conseguenze nefaste, come i casi di malformazioni riscontrati anche in nascite recenti.

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Oltre che da ciclostilati, periodici, quotidiani, dossier, documenti… una parte cospicua della Mostra allestita dai militanti libertari è costituita da manifesti.

L’attuale collezione (appartenente al fondo Goliardo Fiaschi e catalogata sin dal 2001) è costituita da circa 700 unità, fra cui una settantina di manifesti prodotti a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 e realizzati dal movimento scaturito dall’Assemblea Permanente dei Cittadini di Massa e Carrara. Altri manifesti riguardano questioni non direttamente collegate all’episodio Montedison/Farmoplant, ma hanno comunque a che fare con quel genere di lotte. Documentano le proteste per eventi analoghi di altre realtà, a volte lontane, altre più vicine. Denunciano quanto accadde a Seveso (ICMESA), a Cengio in Val Bormida (ACNA), a Bhopal (Union Carbide India Limited) e a Černobyl’.

Da segnalare una ventina di manifesti, forse i più significativi, frutto di notevoli e interessanti elaborazioni grafiche.

Gli slogan, i giochi di parole, i contrasti di colore, le sfumature e gli spunti iconografici sono stati usati per attirare l’attenzione su un particolare avvenimento o argomento centrale. Con l’intenzione di mantenere vigile e desta l’opinione pubblica sulla questione ambientale e contrastare (o perlomeno mitigare) l’effetto soporifero delle manipolazioni operate dai media ufficiali, comunque asserviti alle logiche del capitalismo.

Nei giorni di esposizione della mostra si alterneranno dibattiti, racconti di testimoni diretti e di esperti di inquinamento.

Anche a trent’anni dallo scoppio avvenuto all’interno della fabbrica, è quantomai opportuno, necessario, parlarne ancora. Per sottolineare come gli effetti nocivi di tali eventi apparentemente lontani siano ancora presenti e attivi nella vita quotidiana della popolazione.

Sempre in contemporanea all’esposizione (con modalità di autoproduzione vicine al pensare/agire libertario) l’Archivio Germinal propone un workshop di serigrafia do it yourself.

I partecipanti avranno l’opportunità di analizzare contenuti grafici e tecniche artigianali dei manifesti d’epoca esposti realizzando – con telai e spatole – nuovi manifesti. Ricordo che all’epoca la xerigrafia, già ampiamente utilizzata nel Maggio francese del 1968, veniva impiegata per realizzare non solo manifesti, ma anche veri e propri giornali, murali e non (vedi “PUZZ” l’incendiario periodico situazionista-comontista ideato da Max Capa).

Verranno inoltre riproposti alcuni lavori che analizzano quel periodo attraverso interviste, studi mirati e raccolte di dati scientifici.

Indagini realizzate nel corso degli anni recenti come ad esempio il documentario Quando La Zia Fumava o alcune video-interviste a ex dipendenti, abitanti e protagonisti delle lotte. Per l’occasione sono stati coinvolti gli autori di tali inchieste per «riflettere sulla possibilità di ritrovare un terreno comune e affrontare assieme un ragionamento sulla situazione attuale e su ciò che sarà nel breve periodo».

Saranno inoltre proiettati video sull’escavazione selvaggia delle montagne, tra cui Aut Out di Alberto Grossi: «un affresco di voci diverse, quante sono le professioni e le figure del mondo delle cave di Carrara di ieri e di oggi. Testimonianze di cavatori, imprenditori, scultori, artigiani, camionisti, ambientalisti e persone che il mondo del marmo lo vivono da sempre e lo respirano». Un lavoro, quello di Aut Out «appassionato, sferzante e ironico che racconta la storia di quello che è stato definito il disastro ambientale più grande d’Europa».

Il marmo bianco rimane una delle poche, se non addirittura l’unica, “materia prima” esportata dall’Italia. Ma nonostante «il bluff della valorizzazione del rifiuto» questa è ancora la storia di «una città che potrebbe avere le strade lastricate d’oro e invece è uno dei Comuni più indebitati d’Italia: un’economia da terzo mondo nel centro/nord del Belpaese».

I militanti libertari concludono così la presentazione della loro meritoria iniziativa: «la socialità è la tematica che ci appare come un fattore consistente nelle immagini del tempo, sulle rughe dei volti, nelle espressioni concise e determinate dei manifestanti, degli intervistati, delle madri dell’Assemblea Permanente per la salute dei cittadini, dei lavoratori che presidiarono gli ingressi della fabbrica per impedire che nuovi convogli entrassero all’interno. Possiamo solo immaginare quali inquietudini potevano annidarsi in loro all’indomani dell’azione che stavano intraprendendo; una querela? Una manganellata? Un figlio o un parente affetto da una malformazione o una malattia incurabile? Un licenziamento? A volte più semplicemente il pagamento di una quella cambiale che andava pagata col misero stipendio che volente o nolente era l’unica fonte di sussistenza per la famiglia. Questa mostra è dedicata anche a quelle persone che hanno lottato con presìdi, manifestazioni, picchetti, azioni di vario tipo e si sono impegnate con dignità affinché quello stabilimento fosse chiuso o riconvertito attraverso un referendum popolare, mettendo da parte di volta in volta le differenze che potevano scaturire anche da dibattiti politici. Molti sono gli assenti ma tante persone si riconoscono ancora in quelle foto, in quei filmati e ci farà piacere se qualcuno vorrà contribuire a riscoprirne di nuovi e a dare loro un nome».

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