Femminismi della terra e delle sementi

di Claudia Korol – Biodiversidadla (*)

I percorsi dei femminismi contadini e popolari hanno la sinuosità, l’orizzonte e le scorciatoie dei territori e dei corpi che danno loro vita. Non sono frutti diretti dei libri, ma frutti politici e culturali della terra. Diventano libri, testi, dopo essere stati per qualche tempo dei semi – non transgenici – che vengono seminati, vengono vissuti con emozione mentre crescono e si rafforzano, vengono protetti collettivamente dalla violenza e dalle minacce, alimentando un ciclo vitale che sfida l’aridità della terra, il freddo, il riscaldamento globale, la perdita di foreste autoctone, i fiumi, l’inquinamento dei territori, la scarsità d’acqua o l’allagamento e l’impaludarsi dei suoli.

I femminismi contadini e popolari devono fare anche i conti con la negazione della loro esistenza (per molti anni hanno persino sofferto l’assenza di riconoscimento come lavoratrici rurali). I semi dei femminismi contadini e popolari sono fioriti nonostante la violenza esercitata in molti casi da coloro che dovrebbero prendersene cura.

Scrivo queste note a partire da vari incontri tenuti collettivamente nell’ambito del team di Educazione Popolare Pañuelos en Rebeldía e della rete delle Femministe di Abya Yala, con compagne di diverse organizzazioni contadine e indigene di Abya Yala, in particolare dei movimenti fondatori di questi femminismi, come l’Associazione nazionale delle donne rurali e indigene (ANAMURI) in Cile, l’Organizzazione delle donne contadine e indigene (CONAMURI) in Paraguay, il Movimento delle donne contadine (MMC) in Brasile e le donne organizzate nel Movimento dei lavoratori rurali Sin Tierra (MST) in Brasile.

“Ora sì che ci vedono”

Il patriarcato coloniale e capitalista si serve politicamente, economicamente, socialmente e culturalmente dell’invisibilità delle donne, della negazione del loro lavoro e dei loro saperi. Questa logica si riproduce spesso in organizzazioni che, pur essendo anticapitaliste o in difesa dei diritti sociali, non hanno posizioni o pratiche chiaramente antirazziste e antipatriarcali. Le donne che hanno dato vita ai femminismi contadini, comunitari e indigeni vivono quotidianamente il duro lavoro di combinare i compiti di cura – invisibili, non riconosciuti e non retribuiti – con quelli produttivi – anch’essi spesso invisibili e non retribuiti. Nonostante questo gigantesco sforzo, conducono un’intensa lotta per l’accesso alla terra, sia come parte delle loro comunità sia nella loro condizione specifica di donne.

Le difficoltà di accesso alla terra sono cruciali e sono anche un fattore diretto che condiziona la loro autonomia. In tutto il continente le donne hanno molta meno terra rispetto agli uomini e di qualità più scadente, oltre ad avere un minore accesso ai crediti per acquisire macchinari e input necessari alla produzione. Se le terre appartengono alla famiglia o se sono parte di organizzazioni cooperative o comunitarie, di solito sono intestate al maschio. L’asse ereditario e le politiche pubbliche hanno spesso un forte orientamento patriarcale.

Ciò è rafforzato dal ruolo imposto alle donne dalla divisione sessuale del lavoro, come custodi delle famiglie e delle comunità. Un ruolo riaffermato dalla violenza maschile, sia fisica, economica, sociale e culturale. Per le donne contadine è più difficile accedere all’istruzione a causa dei compiti quotidiani di cura dei figli, delle madri, dei padri, dei partner, degli orti, delle fattorie e della vita in generale. Anche la cura delle condizioni di salute delle famiglie e delle comunità ricade principalmente sulle donne contadine, perché le conoscenze in materia di guarigione e alimentazione sono principalmente nella memoria collettiva delle donne.

Molte donne trovano una via d’uscita da questa situazione emigrando nelle periferie delle città e verso altri paesi, perdendo la loro identità contadina e autoctona, diventando ostaggio di diverse forme di violenza come la tratta di esseri umani, o con l’unica opportunità nel cosiddetto lavoro “domestico”. L'”addomesticamento della vita” si realizza attraverso il super sfruttamento del corpo delle donne.

Il processo di alienazione delle terre è iniziato con la conquista e la colonizzazione del continente. Le donne, storicamente legate tra loro e artefici dell’agricoltura nelle comunità, hanno sofferto in modo particolare per l’impoverimento derivante dall’espropriazione e dal furto delle terre che hanno portato le popolazioni originarie a trincerarsi nelle regioni più inospitali, o ad essere lasciate in balia di esperienze di sradicamento e nomadismo.
Le donne zapatiste sottolineano: “Quando è arrivata la proprietà privata, le donne sono state relegate a un altro livello, ed è arrivato quello che chiamiamo ‘patriarcato’, con l’esproprio dei diritti delle donne, con l’esproprio della terra. È con l’avvento della proprietà privata che gli uomini hanno iniziato a governare. Sappiamo che con l’arrivo della proprietà privata sono arrivati tre grandi mali, ovvero lo sfruttamento di tutti, uomini e donne, ma soprattutto delle donne. Come donne siamo anche sfruttate da questo sistema neoliberale. Sappiamo anche che con esso è arrivata l’oppressione degli uomini nei confronti delle donne, perché siamo donne, e subiamo anche discriminazioni in quanto donne indigene“(1).

La lotta per l’accesso alla terra da parte delle donne contadine fa quindi parte della lotta anticapitalista, contro la privatizzazione compulsiva causata dalla conquista e dalla colonizzazione e contro alcune riforme agrarie che, anche se realizzate in contesti di processi popolari, hanno privato le donne di questa possibilità.
Patriarcato e colonialismo si alimentano a vicenda e sono alla base dello “sviluppo” capitalistico dell’Europa e dei processi di formazione delle borghesie locali e degli Stati nazionali che, anche in nome dell’indipendenza, hanno escluso dai loro benefici le donne, soprattutto quelle indigene, nere, contadine e popolari, anche quando sono state protagoniste delle guerre di liberazione.

L’alternativa femminista e popolare è, di conseguenza, antipatriarcale, anticapitalista e anticoloniale. “Senza femminismo non c’è socialismo”, dicono le donne della Via Campesina, e dicono anche che “senza socialismo non c’è femminismo”. Questa prospettiva ideologica interpella alcuni femminismi istituzionalizzati, accademici e borghesi, che hanno rinunciato alla prospettiva socialista e cercano di ottenere i propri spazi di integrazione nel sistema capitalista, patriarcale e coloniale.

Il femminismo contadino e popolare aspira a riaffermare la prospettiva anticapitalista e, lungo questo percorso, a rafforzare l’autonomia delle donne contadine e il valore dei loro saperi, lottando per l’accesso a opportunità di formazione politica e di educazione pubblica basate sulla lotta sociale collettiva. In questa prospettiva, si rivendicano politiche pubbliche che permettano alle donne di essere autosufficienti, di accedere alla terra in forma individuale, cooperativa o comunitaria, e di affermare modi di buon vivere che sfidino il pensiero unico che vede il campo come un affare dei grandi capitalisti rapinatori, estrattivisti, distruttori della natura e dei beni comuni: le terre, l’acqua, i semi, la biodiversità.

Il femminismo contadino e popolare mette in discussione molti aspetti dei femminismi eurocentrici, liberali e individualisti, e alcune delle loro logiche fondanti. Lourdes, attivista nel Settore di genere del Movimento dei Sin Tierra brasiliano (MST), nel corso di un incontro con Roxana Longo, ha sintetizzato così la costruzione del femminismo contadino e popolare:

Il femminismo non nasce dal nostro dibattito teorico ma dalla nostra azione. Studiando il femminismo ci siamo riconosciute e abbiamo detto: ‘Quello che facciamo è femminismo’. Abbiamo iniziato a vedere che volto avrebbe avuto questo femminismo. Il nostro volto. È un femminismo contadino. Perché siamo noi a combattere. È anche popolare, perché non crediamo in un femminismo individualizzato. È anche legato a un femminismo comunitario, nel senso che se io mi libero, tutte le donne devono liberarsi… Il femminismo contadino si differenzia da certi femminismi che negano la maternità, il lavoro domestico e la cucina. Abbiamo un rapporto con la cucina che è legato ai semi, alla semina. Io e la natura non siamo separate. Abbiamo affrontato il tema della cucina e, per noi, la cucina è uno spazio in cui circolano conoscenze e potere. Il nostro femminismo ha questo carattere popolare e contadino e mette in discussione alcune categorie che certi femminismi rifiutano. In particolare il nostro femminismo ha un punto essenziale nel legame con la natura, nella preoccupazione per il futuro e nel rapporto con l’ambiente, con l’acqua, con la terra, con la difesa delle risorse naturali. Per noi è impensabile portare avanti una lotta anticapitalista senza lottare contro l’agrobusiness. Per questo siamo coinvolte nella discussione sui semi, sulla religiosità brasiliana e sulla profonda spiritualità che le donne vivono, sulla questione della conoscenza, delle pratiche, del salvataggio dell’esperienza delle ostetriche, della conoscenza delle piante medicinali” (2).

Abbattere lo steccato dell’invisibilità e riconoscersi nei femminismi popolari

Prima di definirsi femministe le donne contadine hanno avuto un lungo processo organizzativo. In primo luogo come parte dei movimenti contadini, senza distinguere le loro richieste specifiche, poi creando spazi propri all’interno dei movimenti. Nella loro prima fase organizzativa le donne hanno subito risposte violente da parte dei loro compagni che negavano loro questo diritto. Ciò ha portato alcune donne a creare organizzazioni proprie per combattere non solo il capitalismo e le sue espressioni nei campi, con l’agrobusiness e l’avanzata delle politiche estrattiviste negli anni ’80 e ’90, ma anche il patriarcato. Altre hanno scelto di combattere la battaglia antipatriarcale all’interno dei loro movimenti.

In nessuno caso si è trattato di processi semplici. Sia le une che le altre hanno difeso il loro ruolo protagonista nei coordinamenti misti latinoamericani, come la Coordinadora Latinoamericana de Organizaciones del Campo (CLOC) e La Via Campesina (LVC). Hanno dimostrato che la loro organizzazione non solo non ha indebolito i movimenti contadini, ma li ha rafforzati dando voce alle esigenze delle donne del campo. In pratica, hanno messo in discussione le posizioni dei compagni che vedevano in questo coordinamento una minaccia per l’unità del movimento e, anche se non lo dicevano, per i loro privilegi nella direzione del movimento e nelle loro case, nella misura in cui le donne assumevano sempre più responsabilità politiche.

Alcuni di questi dibattiti (ad esempio se riconoscersi o meno come femministe) si sono svolti nell’ambito della CLOC e della Via Campesina. Ciò ha permesso di interagire con le donne che già si definivano tali, come nel caso della Confederación Nacional de Mujeres Campesinas (CONAMUCA) nella Repubblica Dominicana e del Movimiento de Mujeres Campesinas (MMC) in Brasile e, successivamente, con altre organizzazioni pionieristiche come ANAMURI e CONAMURI. Le discussioni tra le stesse donne sono state dure. Molte hanno esordito affermando di difendere i diritti delle donne ma di non essere femministe. C’era un tabù riguardo i femminismi degli anni ’80 e ’90, percepiti come urbani, bianchi, accademici, di classe media e slegati dai movimenti popolari.

Con la crescita dei femminismi popolari e del loro scontro con le politiche neoliberali, si sono costruiti ponti che hanno permesso un dialogo più proficuo. Lungo questo percorso si è fatta spazio la convinzione di definirsi femministe, cosa che ha permesso loro di mettere in discussione vari aspetti della vita quotidiana e, a partire da ciò, generare campagne per fermare la violenza contro le donne, per la cura dei semi, per la promozione della sovranità alimentare, per la diffusione e il riconoscimento delle conoscenze popolari su temi come le proprietà curative delle piante e per la cura della biodiversità. Ponti che hanno inoltre permesso loro di creare un tessuto trasversale di solidarietà con le femministe urbane e popolari che ha contribuito a rendere visibile la loro esistenza e a costruire reti molto significative, come ad esempio quelle per affrontare la pandemia.

Rendersi visibili nelle lotte non è facile quando si tratta di settori sociali subalterni.
A maggior ragione per le donne di questi settori. Le donne brasiliane sono ricorse all’azione diretta per attirare l’attenzione della società. Dagli anni 2000 guidano iniziative per denunciare l’avanzata del capitalismo nelle campagne. L’8 marzo 2006 c’è stata una delle azioni più eclatanti: hanno occupato l’impianto di Aracruz Celulose, dove si stava svolgendo un esperimento con eucalipti geneticamente modificati, e distrutto le piantine. Hanno coraggiosamente resistito alla criminalizzazione e all’incriminazione – che è stata la risposta di chi detiene il potere – e hanno affrontato le critiche interne ai movimenti, poiché l’azione era stata preparata esclusivamente dalle donne della Via Campesina. Il femminismo contadino e popolare ha l’impronta e l’orgoglio di queste azioni dirette contro il capitale.

Proposte politiche dei femminismi contadini e popolari

Nell’esperienza dei femminismi contadini e popolari non ci sono grandi distanze tra posizioni politiche, riflessioni teoriche e azioni. Esiste nella memoria delle donne come fondatrici dell’agricoltura. Alcuni dei temi centrali che li caratterizzano sono:

1. Lotta per l’accesso alla terra

  • Riforma agraria integrale, femminista e popolare.

2. Rivalorizzazione dell’agricoltura contadina contro l’agrobusiness

  • Socializzazione dei saperi dell’agricoltura, dell’alimentazione e della salute.

3. Sovranità alimentare

  • Produzione di alimenti sani.
  • No all’uso di pesticidi.
  • No alle fumigazioni.

4. Recupero, conservazione e riproduzione di semi autoctoni e creoli

  • Interscambio, socializzazione e donazione di semi.
  • Contro la privatizzazione dei semi.
  • Contro i semi transgenici.

5. Agroecologia

  • Scuole di formazione in agroecologia e femminismo.
  • Sviluppo di esperienze produttive cooperative o comunitarie e reti di interscambio basate sull’agroecologia.

A partire dalla loro intima relazione con l’agricoltura perché si riconoscono nella natura, le femministe contadine e popolari hanno costruito le loro esperienze e teorizzato le loro pratiche. Oggi sono una parte insostituibile delle prospettive femministe che promuovono il buon vivere e che hanno aperto lo spazio al riconoscimento delle identità lesbiche, trans, bisessuali e non binarie. Identità per molti anni chiuse nell'”armadio” all’interno dei movimenti contadini a causa del forte odio machista verso lesbiche, trans e omosessuali.

Queste trasformazioni sono possibili perché l’educazione popolare femminista è una parte centrale delle agende dei collettivi femministi contadini e popolari. La lotta per la terra, la cura dei semi, la difesa dei territori, dei corpi e della biodiversità sono scritte nella vita quotidiana come pratiche sovversive e in chiave di libertà.

* Tratto da Biodiversidadla.org. Qui l’originale in spagnolo.
Traduzione Marina Zenobio per Ecor.Network.


NOTE:
1) Parole della Insurgente Guadalupe en Enlace Zapatista. “Le compagne. Il lunghissimo cammino delle zapatiste”. Citato nel libro “Siamo terra, semi, ribellione. Donne, terra e territorio in America Latina”, Claudia Korol. América Libre e GRAIN.

2) “L’esperienza delle donne del Movimento dei lavoratori rurali senza terra del Brasile. L’organizzazione collettiva e le relazioni di genere”, Roxana Longo. Edizioni América Libre.

alexik

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