Femminismi, economia politica, ecologia

di Federica Giardini (*)

In questa pagina alcune foto del laboratorio di progettazione partecipata.
“Verso un nuovo bene comune, aperto e transfemminista” promosso il 19 e 20 settembre da Lucha y Siesta, straordinaria casa autogestita di donne a Roma (a cui Radiosonar ha dedicato uno speciale)

Questo volume, come spesso accade per le vie femministe, ha una matrice fatta di molte relazioni, storie, sperimentazioni. L’ultima in ordine di tempo è il ciclo di lezioni «La natura dell’economia» organizzato per il Master in Studi e politiche di genere nel 2018. L’idea di partenza era di costruire una serie di riferimenti per pensare la dimensione economica delle nostre vite, strappandola a quel che la rende lontana, inaccessibile, non attrattiva, quando non invece un gioco di forze che possiamo solo subire; strapparla dunque tanto alle narrazioni dominanti – rientro dal debito come priorità e imperativo, finanziarizzazione, crisi e scarsità, concorrenza, produttività e così via – quanto ai discorsi esperti, che possono alienarcela, tra il gergo specialistico, la costruzione non intuitiva delle questioni da affrontare e l’assunzione semplicistica che – per «le donne» – l’importante è partecipare, diventare a pieno titolo soggetti dell’economia. Dunque, certamente una delle domande iniziali è stata: essere parte di che cosa? Di quale economia?

In effetti, la messa in questione di cosa si intenda per economia ha a che fare con la costruzione di alternative rispetto ai tempi in cui viviamo. Nel 2015 abbiamo lavorato a lungo, con il gruppo EcoPol di IAPh Italia, per immaginare una economia femminista della ricerca. La questione di base – il partire da sé collettivo – riguardava le condizioni di vita di chi studia, fa ricerca, fa ricerca femminista; vite precarie, come si sa, strette tra mille impieghi che spesso non garantiscono il minimo indispensabile, assillate da tempi contratti e convulsi, ricattate dalle priorità e dai temi stabiliti dai bandi dei progetti internazionali, che sembrano oramai essere l’unica forma in cui la ricerca può ricevere una retribuzione. Come avremmo vissuto e organizzato uno spazio di ricerca femminista? L’economia, in quel caso, si è aperta come un campo da immaginare – tempi, denaro, autoproduzione e reti di approvvigionamento, bisogni, attività rese possibili al di là del salario, esempi cui guardare, tra la Spagna, il Sudamerica e il Rojava, indicazioni per lo sviluppo e le turbolenze dei desideri.

Come nelle matrioske, quell’immaginazione era innescata da altre storie e sperimentazioni. Lucha y Siesta, la casa per l’autodeterminazione di donne che hanno subito violenza, è diventata oggi un riferimento per la sperimentazione politica di un’economia femminista, anche attraverso la grande iniziativa – grande per immaginazione e per sfida, oltre alla capacità di mobilitazione – di sovversione dell’economia proprietaria, così chiamerei la campagna «Lucha alla città» per l’acquisto dello stabile occupato. Più indietro nel tempo, un’altra occupazione, il Teatro Valle, quando nel 2013 si è affrontata la questione del reddito di chi animava quello spazio. Con la pratica dell’autoformazione – con una pratica dunque che non si accomodava sulla sola ripresa di modelli già disponibili – abbiamo lavorato sui dibattiti circolanti ma anche e soprattutto sulle parole per cogliere dinamiche, intoppi, aperture nei rapporti, nella distribuzione delle attività, nel (mancato) riconoscimento dell’importanza di quel che veniva svolto… in effetti, l’economia trova o tradisce le proprie misure a cominciare dalle parole che usiamo.

Femminismi. Per l’apertura di questo campo servono genealogie, come anche riferimenti situati e al contempo fuori dalle letterature egemoniche. Nel XX secolo, le società del Nord globale hanno elaborato la fine dello statuto extraeconomico riservato alle donne, doppiamente escluse dal lavoro perché non accedevano al lavoro salariato e svolgevano attività non considerate lavoro vero e proprio. Una per tutte, Simone de Beauvoir, nel Secondo sesso (1949) vede all’orizzonte della liberazione delle donne la parità giuridica e l’indipendenza economica; lavorare, guadagnarsi da vivere appariva come una promessa di mondo e di libertà.

Quando, dagli anni Sessanta in poi, la promessa si consolida con l’uscita massiccia delle donne dalla sfera domestica, le elaborazioni femministe sono pronte a cogliere la profonda contraddizione di questa nuova situazione. Se da una parte, infatti, gruppi come quello padovano per il salario al lavoro domestico, colgono quanto sia necessario estendere la nozione di lavoro anche alla attività domestiche, così da rendere visibili i diversi regimi di sfruttamento, che gravano non sul solo maschio bianco, adulto, operaio; dall’altra, il gruppo di Rivolta femminile sembra indicare la strada verso un rifiuto del lavoro tout court – che del resto diventa scelta di vita per Carla Lonzi –, considerato che lavorare significa esporsi doppiamente all’oppressione patriarcale, prima a quella del marito e poi a quella del datore di lavoro.

A partire dagli anni Ottanta si assiste così a un cambiamento rispetto al campo di conflitto femminista: è necessario agire sui regimi di potere, di dominio e assoggettamento, che determinano le stesse possibilità di diventare indipendenti e libere; è il patriarcato, più che il capitalismo, ad essere preso di mira. Mentre in Francia il rapporto tra dominio e sfruttamento viene dispiegato e messo a punto da autrici come Christine

Delphy e Paola Tabet, più di recente ci ritorna dagli Stati uniti, attraverso le critiche che Nancy Fraser rivolge a Judith Butler – concentrarsi sul solo dominio che le norme sociali esercitano sui soggetti sessuati finisce per occultare le politiche economiche che procedono indisturbate nell’erosione delle condizioni di vita e nell’estensione del lavoro sfruttato.

Economia politica. L’uscita dal dilemma, peraltro prettamente statunitense, tra femminismo «culturalista» e femminismo materialista, è rappresentato, un riferimento tra tutti, dal capitolo finale che più recentemente Silvia Federici, in Calibano e la strega, riserva all’intreccio tra ideologia e sfruttamento, mostrando quanto la possibilità di trarre profitto non solo dal lavoro ma dalle attività in generale e dalla vita stessa abbia a che fare anche con la costruzione di modelli, di norme, di criteri morali, di gerarchie tra i saperi con i quali tenere i soggetti al proprio posto, renderli funzionali a regimi che permettono l’accumulazione di ricchezza per i pochi. Dominio e sfruttamento si presentano oggi intrecciati per l’analisi femminista: i campi simbolici della reputazione, del credito, della promessa, dell’attenzione, della cura relazionale sono materia economica, tanto quanto l’estensione della misurabilità alle relazioni, alle capacità umane, al vivente rientrano nella costituzione del simbolico e dell’immaginario attraverso cui viviamo.

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L’economia è politica, dunque. Ma come pensare questo rapporto? Nella tradizione marxista è invalsa la critica dell’economia politica, perché quest’ultima individua un periodo storico specifico – tra il Seicento e il Settecento – quando l’organizzazione della società e nuovi modi di produzione configurano una nuova idea dell’essere umano: un individuo, mosso da interessi e volto a massimizzare il proprio utile. L’economia politica è dunque quel sapere che riflette ed esprime il nuovo mondo borghese, la nuova organizzazione capitalistica, che merita risposte in termini di lotta e di critica.

Certamente i femminismi attuali assumono l’approccio critico, quando mostrano come l’economia politica contemporanea sia arrivata a utilizzare le stesse differenze per produrre profitto e insieme per governare nuove divisioni del lavoro, produttivo e riproduttivo, che si articolano lungo gli assi di genere, razza e classe. Eppure da tempo si registra la necessità di un pensiero politico dell’economia, che non riduca questa a una manifestazione dei rapporti di potere e che tantomeno la consegni a chi ha interesse a potenziare e riprodurre le possibilità di profitto e di accumulazione.

La natura dell’economia. Politica, economia, ecologia. Di cosa parliamo, cosa andiamo sperimentando quando entriamo in conflitto con l’economia vigente? Sulla parte critica, che individua i fronti del conflitto, di questi tempi abbiamo nuovamente abbondanza di fonti e di approcci – dal divenire cura del lavoro, alla messa a valore delle differenze oppure al ri-divenire natura di attività umane, sottoposte così a processi di valorizzazione intensificata, come l’estrattivismo. Ma è sul versante dell’apertura di prospettive che i diversi femminismi mostrano la potenza maggiore – tra immaginari e sperimentazioni emergono nuovi mondi e nuove connessioni tra quel che il canone occidentale ha tenuto rigorosamente separato e ordinato in gerarchie. Economia, ecologia e politica si presentano come termini e campi disciplinari che separano surrettiziamente esseri e attività e, per di più, ci fanno pensare male. La distinzione principale tra umano e non umano, ad esempio, che viene presentata come ovvia, in realtà impedisce di prendere in conto le connessioni che costituiscono le condizioni stesse del vivere e bloccano la percezione, l’immaginazione e persino il linguaggio per trovare vie d’uscita nel presente. Lo stesso termine «natura» – che l’economia mette dalla parte delle risorse disponibili per la produzione e il consumo e che l’ecologia considera una questione a sé – nei femminismi si dispiega in una costellazione di problemi e conflitti: è quella matrice invisibile e indeterminatamente disponibile, in cui cadono sempre e di nuovo i corpi subalterni; è quella dimensione che accomuna il saccheggio della terra e la violenza contro le donne per i femminismi indigeni; è il continuum della capacità vivente che connette i materiali biologici trattati in laboratorio per il mercato medico e scientifico ai corpi che siamo e alla loro potenza, catturata o riappropriata; è il tessuto di parentele tra specie, tra soggetti diversi, che subentra alla figurazione canonica della famiglia e ci permette di immaginare altre relazioni, altre società, altri scambi, altri metabolismi.

Questo volume è pensato per aprire uno spazio che nasce dalla connessione tra saperi, approcci e pratiche diverse, ben oltre le competenze disciplinari. In questo senso vanno i primi due testi, che offrono una prima impostazione per pensare politicamente l’economia e l’ecologia (Pierallini; Tomasello). Il contributo di Antonella Picchio è importante per molti motivi – perché traccia una genealogia femminista del pensiero politico dell’economia, perché ricostruisce e aggiorna uno dei conflitti femministi principali, quello sul lavoro domestico… – ma soprattutto perché mostra come un pensiero politico femminista dell’economia ponga questioni tutt’altro che marginali, questioni al cuore dell’ordine della convivenza. Così, è bene avere presente quanto e come un pensiero femminista dell’economia si distingua dalle formulazioni correnti, che sia la womenomics o il fattore D (Zacchia), e quanto abbia da dire, da immaginare, da portare alle lotte che oggi attraversano il pianeta (Cavallero, Gago). Una parte dei contributi è dedicata ai modi in cui possiamo impostare diversamente i problemi da affrontare e le vie d’uscita da percorrere – uno sguardo critico e di prospettiva sulla decrescita (Barca, Gregoratti, Raphael), una nuova concezione cosmopolitica (Herrero), altre categorie per immaginare le politiche pubbliche (Mellor). Per concludere, o meglio per varcare la soglia del libro e tornare ai luoghi di lotta e creazione, i testi che emergono dalle sperimentazioni in corso – dalle nuove metriche di Macao (Fragnito) alla materialità spaziale delle vite emerse all’interno di Non una di Meno (Pantegane), dalle sperimentazioni conflittuali nelle vite precarie di chi fa ricerca e le nuove configurazioni del domestico e del tecnologico (Graziano) alle invenzioni spagnole sulla cura collettiva (Pierallini), fino al Rojava, dove ha luogo – tra infinite repressioni e violenze – una politica rivoluzionaria femminista, economica ed ecologica (Azlan, Piccardi).

(*) ripreso da comune-info.net

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