Il rimorso rimosso

di Gianluca Ricciato (*)

 

“Siamo arrivati all’università come entrando in un mondo nuovo, con la promessa dell’accesso a vette culturali fino ad allora non immaginate, con l’idea di lasciarci alle spalle il piccolo e angusto mondo di provenienza. Ma all’università ci siamo imbattuti nell’antropologia, e abbiamo scoperto che quel mondo piccolo e angusto era in realtà denso di tesori nascosti, di una ‘cultura’ che si trattava di salvare e che – ci insegnavano – aveva molto più valore di quei prodotti seriali dell’industria culturale da cui il nostro mondo della vita era sempre più invaso. La nostra antropologia è stata fin dall’inizio una ‘antropologia nativa’. Non eravamo osservatori partecipanti, ma partecipanti che dovevano imparare a guardarsi dall’esterno, a reinterpretare attraverso categorie ‘alte’ gli aspetti più ‘bassi’ della nostra inculturazione.”

Queste parole le ha scritte l’antropologo Fabio Dei nell’introduzione alla nuova edizione di Morso d’amore (Kurumuny 2025), celebre reportage partecipante, appunto, di Luigi Chiriatti, che uscì per la prima volta nel 1995, più o meno agli albori di quello che poi divenne il “fenomeno Salento”. In quello stesso anno, io stavo lasciando il Salento per trasferirmi a Bologna, nella Bologna anni Novanta degli Isola Posse, delle case occupate del Pratello, del Teatro Polivalente Occupato, del Livello 57 e del Link. Ma non è per parlare di antropologia salentina o di movimenti passati che ho citato questo passo. Al contrario, è per parlare dell’epilogo di questa nostra fuga verso le “vette culturali” delle grandi città, che nel mio caso, ma non solo mio, iniziò a manifestarsi alla fine degli anni Duemila ed è ancora in corso. Devo precisare una cosa, però: Fabio Dei, Luigi Chiriatti (animatore culturale salentino morto due anni fa), George Lapassade – che studiava la transe, i rave e il tarantismo salentino – e tante altre figure di riferimento della cultura locale, nazionale e internazionale a cui mi riferisco quando parlo di questo fenomeno del “rimorso-rimosso” antropologico delle culture native del sud Italia – senza dimenticare ovviamente il De Martino della Terra del rimorso – sono figure che spesso provenivano davvero dal proletariato urbano e contadino, da un contesto sociale ancora quasi del tutto immerso, nella loro infanzia, nell’era precapitalista e preconsumista. Noi, che emigrammo verso le università dagli anni Novanta in poi, eravamo già figli della televisione e del cibo finto delle multinazionali, e ci vollero i centri sociali e la vita borderline e il movimento chiamato no global, Seattle e il G8 di Genova per calibrare finalmente il senso della nostra sofferenza e della nostra ribellione. Ma forse ancor di più per questo il tema del rimosso-rimorso, della cultura dei nostri nonni e nonne polverizzata dai fast food e dall’Ikea, tutto quello che insomma era la nostra infanzia mescolata ai vecchi frigidaire, alle cucine Savorani, ai televisori Grundig e Philips, a un certo punto delle nostre esistenze, e soprattutto vivendo lontani dai nostri Sud, ha iniziato ad accendere nei nostri cervelli fari abbaglianti e inediti.

Spero sempre di riuscire a spiegarmi quando parlo di tutto questo, mi sembra sempre di attorcigliarmi con le parole, anzi mi sembra sempre che tutto questo discorso sia qualcosa che può capire solo chi lo ha vissuto. Chi ha vissuto, sentito, visto, odorato e mangiato il mondo reale prima della sua disintegrazione in quello virtuale. Che poi detto così ovviamente puzza di passatismo, arcaismo e conservatorismo, e invece è l’esatto contrario. Proprio per questa difficoltà ho cercato di raccontare tutto questo con una narrazione allegorica e verosimile in un romanzetto che uscirà a breve e si chiama Terra dove andare [nel frattempo è uscito]. Ho cercato di raccontare cosa successe a molti di noi nel periodo tra la fine del decennio 2000 e l’inizio del decennio 2010, quando avvennero l’affermazione del precariato lavorativo, la crisi americana legata ai mutui subprime che ha fatto scoppiare l’economia globale, l’esaurimento del movimento dei movimenti che doveva fondare un altro mondo equo e solidale, la creazione dell’era social che ha psicotizzato gli individui e distrutto le relazioni reali. Successe semplicemente che, a causa di tutto questo, iniziammo a pianificare la nostra fuga.

Dopo circa sei mesi di vagabondaggio, intorno alla fine del 2011 decisi, quasi convintamente, che mi stavo ri-trasferendo nel Salento. Ero via da quindici anni ma non avevo mai reciso i legami, ci tornavo sempre quando possibile, era stata la mia seconda vita. Mi convinse definitivamente il fatto che incontrai un collettivo che si chiamava Agricoltura Bene Comune. Si trattava di una sorta di tentativo di unire giovani donne e uomini – di provenienza etnica varia, di provenienza politica libertaria e di sentimenti anarco-zapatisti – a un’altra serie di persone, perlopiù uomini ma non solo, che lavoravano la terra da anni o decenni, alcuni dei quali militavano in partiti o associazioni della sinistra locale, altri semplicemente si erano avvicinati per la cosiddetta “questione contadina”, cioè per il fatto che il lavoro in campagna sostanzialmente non rendeva più quasi nulla economicamente. Era un collettivo nato nella provincia profonda, nacque a Sannicola e gli incontri proseguirono a Tuglie, cioè nel cuore del centro Salento, ma aveva la pretesa di pensare globale. Organizzammo due assemblee pubbliche creative nell’autunno-inverno 2011-2012 in un’aula Magna all’Università di Lecce, che videro la partecipazione di quasi un migliaio di persone nel totale, soprattutto popolazione studentesca leccese. Provammo a fare agricoltura noi, con orti sinergici in luoghi offerti da privati, tentammo di avviare nella provincia mercati settimanali di produttori contadini locali che coltivavano senza sfruttamento chimico della terra e senza sfruttamento sociale delle persone, ma questo si rivelò più difficile da fare, e ci unimmo prima al mercato mensile leccese denominato Mercato Non Mercato, presso uno spazio pubblico chiamato Ammirato Scipione, poi confluendo nel Glas, gruppo d’acquisto leccese che quasi subito emigrò alle più note Manifatture Knos, storico contenitore culturale cittadino, e lì durò per quasi dieci anni ogni venerdì, fino al lockdown del 2020.

Questo che ho raccontato è solo uno spezzone, una parte attraverso cui cerco di informare del tutto, cioè dell’intero movimento che in questi anni ha portato a pensare il Salento, forse più che altre parti del Sud, come un luogo nuovamente vivibile, oppure vivibile in modo nuovo, dal punto di vista sociale. Anche se rimane un’intollerabile penuria di opportunità di lavoro dignitose e una eccessiva presenza di lavoro schiavistico o economicamente aleatorio. E rimane ancora forte e presente la mentalità mafiosa in molte persone di tutti i livelli sociali. Ma non si può continuare il lamento facendo finta di non vedere quello che è successo e sta succedendo accanto e anche contro tutto questo, altrimenti a mio parere si diventa parte del problema.

Se dall’unità d’Italia fino agli anni Cinquanta il Salento era percepito come una terra arida e abbandonata dall’emigrazione di massa; se fino agli anni Ottanta era solo il sud della Puglia quasi mai raggiunto dal turismo di massa e d’elite, ma che viveva solo di quella poca manifattura e di emigranti che tornavano per le vacanze; se negli anni Novanta-Duemila era diventata la metà più ambita del turismo alternativo fatto di buon cibo, campagna e bel mare: ora, agli inizi del decennio Duemiladieci, stava succedendo qualcos’altro. Innanzitutto stava emergendo il fatto che quella bella cartolina fosse sotto attacco da varie parti. Senza entrare in questioni che allungherebbero troppo il brodo, la questione energetica la fece da padrona e venne percepito come uno dei principali attacchi al territorio, prima con l’impianto di rinnovabili senza regole e sostanzialmente sotto la gestione mafiosa, poi con la questione dell’inquinamento atmosferico legato alla centrale termoelettrica Enel di Brindisi, infine con la questione dei gasdotti Tap e Eastmed-Poseidon. Accanto a queste e ad altre emergenze territoriali ed ecologiche, si aggiunse non ultima la questione spinosa del disseccamento degli ulivi (“l’affaire Xylella”). C’erano già una serie di comitati locali agguerriti su questi temi – io venni in contatto attivamente con il comitato galatinese contro la trasformazione del cementificio Colacem in termovalorizzatore. C’era anche stato da poco l’incredibile caso della discarica Burgesi di Ugento, all’interno del quale nel 2008 venne assassinato un consigliere comunale, Peppino Basile, che si dannava da mesi per far uscire verità scomode sulla vicenda.

In realtà, quello che penso è che in quegli anni stava germogliando una nuova antropologia generata dall’intersezione di una generazione tra i trenta e i quarant’anni – originari di questa terra o amanti di essa perché magari da anni ci venivano in vacanza buttati nelle pinete – l’intersezione tra questa generazione e una serie di fatti sociali presenti sul territorio: la cartolina ecosostenibile che stava iniziando a sbiadire, i pochi cittadini locali che facevano attivismo, le nonne e i nonni che si portavano nella tomba saperi millenari, ma non ultimo un ambiente che consiste di un centinaio di piccoli comuni circondati da terra – che fosse o meno abbandonata – ma comunque terra, non cemento, perché questo vuol dire una densità di popolazione infinitamente minore di qualunque centro urbano in cui era vissuta fino ad allora quella generazione e la possibilità di un’esistenza più umana. Ma allo stesso tempo un entusiasmo inedito, non provinciale ma rispettoso e curioso della cultura nativa, che tenta un attivismo che non è quello delle riunioni serali devastanti dopo ore e giorni e settimane di schiavismo lavorativo cittadino, un attivismo che si liquefà nel tentativo vero di cambiare la propria vita. Come diceva Battiato, non servono eccitanti o ideologie, ci vuole un’altra vita. Si è parlato tanto di ritorni, di restanza, di recupero, di far crescere i nostri paesi con l’apporto di energie nuove, e un po’ di tutto questo è sicuramente successo, ma per me la portata è un’altra. E ha a che fare, ad esempio, con quello che un gruppo di giovani anarchici italo-tedeschi scrissero negli anni Novanta in un testo che si chiama Dichiarazione dei desideri e dei sentimenti e che fu la sintesi del percorso che portò alla nascita della comune Urupia nel 1995, in un territorio che è ancora Salento anche se è provincia di Brindisi. La si può leggere sul blog di Urupia (urupia.wordpress.com). Ne riporto un passo:

La Comune sorgerà sul territorio della penisola salentina. I rapporti affettivi, politici, sociali ed economici che tutte le persone che aderiscono al progetto mantengono con questo territorio ne hanno determinato la scelta in maniera pressoché immediata, ‘naturale’. (…) Da sempre terra di rapina, invasa e saccheggiata dagli eserciti dei ‘signori’ e delle nazioni più potenti, sfruttata e controllata dalle mafie di stato o dalle varie emergenti mafie ‘illegali’, dominata da una cultura autoritaria e maschilista radicata e secolare come gli ulivi che ne fanno tipico il paesaggio, ostile e sospettosa (quasi in ogni tempo) verso ogni forma di utopia e di diversità, questa terra è stata ed è per ognuna di noi, di volta in volta, madre generosa e soffocante, padre ottuso e autoritario, nemico spietato, condanna, amore, pianto, illusione, speranza, amico lontano, sogno, fantasia. Non potevamo pensare di poter realizzare altrove la nostra utopia perché questa terra, questi luoghi, sono la nostra utopia: per il desiderio profondo che abbiamo di farli e di vederli diversi, per la frustrante umiliazione di aver dovuto sempre cercare altrove quello che qui non avevamo o che qui non riuscivamo a costruire, per la solitudine insopportabile e l’incomprensione che hanno circondato ognuna di noi tutte le volte che ha cercato, qui, di cambiare qualcosa. Per molte di noi, il rapporto con questa terra può essere definito dall’ansia, dalla necessità di un cambiamento sempre cercato e mai sufficientemente realizzato, dalla smania e dal bisogno di condurre una vita in continuo conflitto con tutto ciò che, di questi luoghi, ci ha fatto e ci fa continuamente soffrire, e che deve essere assolutamente trasformato, o distrutto.

Non è stato tutto rose e fiori il mio ritorno nel Salento, anzi poco dopo c’è stata una nuova fuga (nella capitale) e poi un nuovo ritorno nel periodo del Covid che tuttora permane. E non è stata rose e fiori l’epopea dei movimenti nati in quegli anni. Se devo fare un elenco delle cose che mi piacciono attualmente, figlie in qualche modo di quel ribollire, mi vengono in mente: la comunità creatasi intorno alla Notte Verde di Castiglione con il suo Mulino di Comunità e la banca dei semi biodiversi; l’associazione Salento KmZero e le sue tante attività aggregative, culturali e antropologiche; il progetto Manu Manu Riforesta di riforestazione dal basso del territorio che coinvolge centinaia di persone; tante attività di matrice agroecologica nate anche da giovani, non ne nomino nessuna per non fare torti o sembrare di voler fare preferenze, ma sono davvero tante e belle. Ma dicevo, non è stato rose e fiori e naturalmente questo fermento non determina la risoluzione dei problemi, né tantomeno la fuoriuscita dal capitalismo, che è più o meno il tema di questo numero del Musicista proletario – del resto questo articolo è nato dalle chiacchiere iniziate tra di noi durante l’incontro Napadema (Non abbiamo Paura delle Macerie) svoltosi appunto a Urupia, la scorsa primavera.

Urupia, ma anche le mie nonne e i miei nonni, come tante altre persone normali del Salento, mi hanno insegnato che oltre i bisogni attuali c’è un tempo lungo, che oltre il mondo che vogliamo c’è un mondo che è come è (ete comu ete), che prima di giudicare bisogna avere l’umiltà di conoscere. E che sono tentativi di esistenza, non risoluzioni dei problemi, perché tutto quello che ho descritto finora, a partire dalla fuoriuscita del tarantismo dalle viscere della non storia contadina salentina, sono solo tentativi appunto, non soluzioni, primi bagliori di un mondo che verrà, se verrà. Ci sono milioni di piccoli esseri che brucano e danno un senso alla terra che a noi è totalmente sconosciuto, perché per trovare le risposte all’esistenza ormai chiediamo a Wikipedia. E ci sono migliaia di edifici, anche stupendi, case, pajare (piccoli trulli), masserie, torri, cappelle e muretti a secco, abbandonati nelle campagne mentre gli speculatori cercano di costruire nuove case con tutti i comfort per la borghesia capitalista energivora del terzo millennio, telecomandata dalla tecnologia ma che blatera di green e di società inclusiva. Ci sono piccoli figli della borghesia che lanciano sui loro profili da influencer slogan contro il sistema. E c’è chi è nato, cresciuto, vissuto e morto fuori dal sistema, e noi spesso non ne sappiamo niente. Dei loro saperi millenari. È questa la levata di scudi a cui si riferisce la mia citazione iniziale, un movimento che ancora mi emoziona e che è appunto più ampio, è un urlo di aiuto che facciamo a noi stessi dopo la riduzione ad inferno del mondo tardo-capitalista. È un urlo, che finora era stato rimosso perché aveva il rimorso del non essere all’altezza, abbastanza urbano e progressista, abbastanza illuminato. Ora è uscito. Non è la soluzione, ma è già qualcosa.

(*) Questo articolo è stato scritto per il terzo numero del “Musicista proletario” uscito lo scorso 11 dicembre. Il tema del numero si potrebbe riassumere con “tentativi di fuoriuscita dal capitalismo”. Chi è a Roma e dintorni può trovarlo alla presentazione che ci sarà la sera di venerdì 19 dicembre 2025 alla Libreria Anomalia, nel quartiere San Lorenzo:

https://www.instagram.com/p/DSFJ1q9ihzb/

Per altre informazioni e ordinazioni:

https://postcapitalismo.it/il-musicista-proletario/

Articolo ripreso dal blog dell’autore.

Gianluca Ricciato

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