Israele e Palestina pari sono?

Una risposta a Roberto Saviano di Mauro Antonio Miglieruolo

Roberto Saviano, del quale in passato per un breve periodo sono stato ammiratore (ora posso solo compatirlo per la vita che conduce) nella sua rubrica sull’«Espresso» – numero 42 del 2012 – sviluppa il tema della possibilità di superare il conflitto fra gli uomini utilizzando la ragione. Ancor più, con implicito abbastanza esplicito, mantenendo equidistanza fra le parti e se necessario tramite l’astensione.

Dice Saviano che il suo è un «tentativo disperato [!] di proporre una riflessione cercando di superare l’ottica dello scontro. È un modo per capire come la comunità internazionale può rendersi utile senza fare di quelle battaglie le proprie battaglie» [fine secondo paragrafo]; parole che costituiscono l’auspicio, tramite l’uso di un luogo comune tanto più volte ripetuto quanto meno riscontrabile nella realtà, di una permanente Diplomazia dello Spirito che dovrebbe poter neutralizzare quella degli Stati. Di questa sua “strategia” fornisce esempio alludendo, abbastanza fugacemente ed esemplarmente, al conflitto che oppone palestinesi e israeliani; e sul quale ostenta una, per me ipocrita, equidistanza.

Mi perdoni Saviano ma non riesco proprio a vedere come un atteggiamento irenico possa avere ragione di conflitti che nascono da contrastanti interessi materiali; come possa affrontare e risolvere questioni storiche pesantissime quali quelle determinate dall’insorgere del fondamentalismo religioso (che di per sé odia la ragione), il fanatismo politico, la logica del capitale, l’avidità infinita intrinseca nell’essere del capitale finanziario, i cui movimenti sono svincolati da qualsiasi altra necessità che non sia il tasso d’interesse (non ha neppure quella di organizzare una qualche unità produttiva, con i limiti che questo comporta). Oppure come possa avere ragione della crudeltà dei carnefici che infieriscono impietosi sulle proprie vittime infischiandosene di moltiplicarne le sofferenze e il numero; e che anzi nella loro moltiplicazione trovano il scopo e soddisfazione. Basterebbe solo considerare le esternazioni della Fornero, nel loro piccolo e meschino, per comprendere quanto poco un carnefice sia in grado di dominare la propensione alla crudeltà. Non più di quanto possa una tigre. Essendo nata per nutrirsi dell’altrui vita, non può fare altro che consumare vita. Con le parole se ha parola, con gli atti se le circostanze la pongono in condizione di manifestarsi negli atti.

Quel che più mi colpisce però è la noncuranza (Saviano non ne tratta proprio) con la quale considera la reazione delle vittime, che a volte arriva con ritardi di decenni, alle vessazioni subite. Non ritengo legittimo accantonare questo tema per poter assumere posizioni che, apparentemente di equidistanza, in realtà parteggiano per il più forte. Il quale più forte ha solo bisogno di non essere disturbato per prevalere. Non schierarsi, non denunciare equivale alla connivenza. Lo stesso che assistere a una aggressione o a un furto e voltarsi dall’altra parte.

Mi sembra inoltre doveroso sottolineare che sono proprio questo genere di atteggiamenti, che sconfinano nell’omertà, anche se spacciati come adesione a istanze umanitarie, ad alimentare e rinfocolare odi e esacerbare gli animi. Come può esservi pace senza equità, senza giustizia? Alle orecchie delle vittime suonano false, ingannevoli le parole che trascurano di denunciare quando c’è da denunciare; al massimo vengono vissute come vuoti e irriverenti diplomatismi. Qualsiasi attenuazione del dovere di contestare le ingiustizie è di per sé atto che demolisce le istanze di conciliazione: che in questo modo diventano istanze di resa. Io trovo non sia neppure pensabile (e invece viene pensato) poter spegnere i focolai di conflitto senza concedere a chi subisce torto almeno la consolazione di una manifestazione di solidarietà; e il fargli sentire il crescere attorno a sé il sostegno contro ciò che è costretto a subire.

La reticenza in merito (e Saviano ne sfoggia a usura) è motivo non ultimo dell’astio che da tante parti del mondo si leva contro l’Occidente, contro i suoi unilaterali ricorsi al concetto dei diritti umani (e i diritti umani dei palestinesi?) e i menzogneri appelli alla pace (mentre in numerosi parti del mondo si fa guerra). Appelli necessariamente intesi (dalle vittime) come sostanziale solidarietà e forse anche complicità con l’aggressore, il prepotente, lo sfruttatore, il vincitore; suscitando reazioni tali da rendere vano ogni appello alla comprensione reciproca, alla conciliazione, alla pace. Volere quest’ultima non sta nell’equidistanza, ma nella sincerità, nell’onestà intellettuale, nel superamento delle barriere ideologiche che impediscono di riconoscere, pur obtorto collo, le ragioni di chi ha ragione.

Ma forse per me questo è fin troppo facile. Per me che per partito preso mi sento e sono dalla parte delle vittime. Di tutte le vittime. E non perché buone brave e belle, ma solo perché vittime. Alle stesse riservo ogni possibile aiuto morale e materiale. A quelle di oggi e a quelle di ieri. A partire dagli schiavi seguaci di Spartaco, per finire con i palestinesi di oggi. Per tutti i “palestinesi” di oggi, qualunque siano gli atti con i quali cercano di farsi valere, essendo molti di quelli convenzionali loro inibiti. Consapevole per altro che la pace viene dopo che l’ingiustizia sia stata sanata. Dopo che chi abbia subìto torto – senza che gli venga inflitto l’ulteriore oltraggio delle recriminazione perché agisce come sa (oltre che come può) – abbia ricevuto il risarcimento che gli spetta. Che non si dica “in nome della pace si subiscano tutte le conseguenze della guerra”. Intesa sì, ma dopo che l’ingiustizia sia stata sanata. Nello stesso modo in cui si perdona il ladro, ma a condizione che restituisca la refurtiva. E sani l’offesa fatta a chi il furto ha subìto (l’individuo e la società tutta).

Per meglio chiarire il mio pensiero mi servo delle ultime frasi (a effetto) di Saviano. Frasi con le quali chiarisce quali siano i suoi riferimenti ideali: «»Alla domanda stai con i palestinesi o con gli israeliani, deluderò forse, ma risponderò sempre come mi ha insegnato il mio amico David Grossman: Sto con la pace».

Senza timore di deludere nessuno oso rispondere invece, come suggerisce la mia coscienza e senza bisogno di ricorrere a sostegni esterni: sto con i deboli e gli oppressi.

Sempre.

 

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