Ponte radio

Questa mia intervista è uscita il 23 luglio 2009 sul quotidiano «Liberazione».

Se la sera del 23 o del 24 luglio siete in zona precipitatevi al museo del Senio ad Alfonsine, vicino Ravenna (l’ingresso è gratuito ma la prenotazione obbligatoria al 339 7734611). Fatevi catturare da 50 bambini delle scuole elementari di Alfonsine e di Tuzla: quattro linee di luce, quattro terre di confine. E’ uno spettacolo al di là dello specchio di Alice, un salutare choc, un percorso proposto dal Gruppo Ponte Radio. Si intitola «Sul confine«» ed è la prima tappa di un viaggio che ha già toccato Jenin in Palestina e ora sta esplorando la Berlino “turca”.

Lo racconta Alessandro Taddei, 29 anni, ravennate, torrente in piena, musicista che – con l’attore Enrico Caravita e con Valentina Venturi – ha fondato Ponte Radio. Uno sporco trucco per andare in giro a fare casino ma anche un contributo all’incontro e all’ascolto, due parole molto ripetute e poco praticate.

«Teatro? Una storia sui confini, diciamo noi. Il confine materiale, frontiere che spaccano a metà un paesaggio e non a tutti permettono d’andare di là. E il confine mentale: pregiudizi, paura, rabbia verso tutto ciò che è diverso. I bambini hanno scritto e urlato i testi, hanno giocato con le luci, ascoltato e suonato con i loro corpi attraverso bidoni, legni e chiodi, sono sgattaiolati da dietro, dai lati, da tutte le parti prendendo il pubblico alle spalle come un esercito di sognatori svegli. Oltre lo specchio, al di là del muro».

C’è un muro. Così inizia «I reietti dell’altro pianeta, un’ambigua utopia» di Ursula Le Guin. Ma ci sono sempre più muri anche nel mondo reale mentre i killer sugli aerei e quelli nei media prendono la mira contro i ponti e i confini liberi. Sul palcoscenico di Alfonsine il 23 e 24 luglio quel muro di nuovo ricorderà quelli che, quasi all’improvviso, spezzarono un Paese che si chiamava Jugoslavia. Mentre crescono altri muri – materiali o invisibili ma solidissimi – anche a Jenin o a Berlino, stavolta fra tedeschi e turchi.

Vorrei chiedere ad Alessandro Taddei dei muri che abbiamo nella testa e ci impediscono di vedere, ma lui è già partito a raccontare: e fermarlo non si può.

 

«I bambini hanno giocato alle favole sbattendoci al muro. Una colata di cartone e cemento costruito da loro. Muro che qualcuno dice difensivo ma certo è offensivo: gli operai lo costruiscono, la polizia lo presidia, i piccoli sono lì davanti. Come migranti o come Alice, che vuole sconfinare nel Paese delle meraviglie. In attesa, col dubbio o la certezza di non passare mai. Sin dall’inizio la favola di Lewis Carroll è servita a dare una base alla storia perché tutte/i la conoscevano, magari a pezzi o nella versione Disney. Ma per molti grandi Alice è proprio il simbolo anarchico del non-confine: diventa piccola per passare dal buco della serratura, si ingrandisce per prendere la chiave sul tavolo. Rompe il confine del linguaggio per poter dire ciò che vorrebbe. Ve lo ricordate? “Cosa significa questa parola? Dipende da chi è il padrone”. Non fu solo per caso che nel ’77 si chiamò Radio Alice il diavolo dei benpensanti. Tutti i nostri bambini-migranti sono Alice davanti a questo muro: da una parte completamente al buio e dall’altro in luce piena come a simboleggiare la frattura fra la parola e il corpo, fra noi e gli altri, fra i Nord e i Sud del mondo».

 

Si può fare teatro fra le macerie?

«Eravamo a Pancevo, piccola città vicino Belgrado nell’ex Jugoslavia, bombardata da noi, “i buoni”. A far teatro in zona di catastrofe o meglio di bombe terribilmente “intelligenti” che hanno colpito le industrie chimiche ben sapendo che così si distrugge la vita, si compromette il futuro. Abbiamo provato a raccontare la guerra con bimbi che non l’hanno vissuta e dunque siamo partiti dal dopo. Un giorno un bambino ci disse che il suo amore verso il nuoto era grande ma non poteva soddisfarlo perché il fiume Tamish era troppo inquinato, così aveva ripiegato. Noi dicevamo una parola, loro ci regalavano un mondo. Un tramonto era per loro un monte strano, una lacrima una goccia scontenta, un cavillo un cavallo piccolo come uno spillo e così via. Ci è venuto in mente il proverbio che ci dissero dei bimbi a Pancevo: “Se un bambino sale su una zucca in Voivodjna può vedere il mondo intero” e ci siamo lasciati travolgere dalle onde dei bambini che hanno creato un quadro con confini liquidi dove le immagini non hanno bordi ma solo spruzzi di colore. Li abbiamo lasciati fare. Il casale è una casa piccola con le ali. La giraluna è la femmina del girasole che di notte si muove per seguire la luna. E il confine è … quando due posti si incontrano».

La prima parte del vostro lavoro terminava chiedendo: «Se riusciamo a passare di qua troveremo altri confini davanti a noi. Esiste un Paese che non abbia frontiere?». Lo state sempre cercando?

«Bisogna cercarlo. I teatranti e gli artisti chiusi nelle loro torri e vetrine servono a zero. Bisogna ritrovare il coraggio di stare in mezzo alla gente. E allora ecco piccoli miracoli: alcune famiglie italiane, coinvolte nel progetto teatrale, decidono di impegnarsi e nasce Oltreconfine per portare avanti il sogno che i confini, nati per portare pace, non diventino più causa di guerra ma linee ideali da attraversare per conoscerci e raccontarci nel nostro essere più autentico; perché la nostra appartenenza a Paesi, culture, religioni diverse non sia pretesto e pregiudizio per rifiutarsi e contrapporsi, ma sia motivo di scambio di esperienze diverse volte a creare una ricchezza comune».

E’ per ricordare che i muri sono mentali ma anche materiali che siete andati a Jenin?

«Volevamo, forse un po’ ingenuamente, mescolare il vissuto dei bimbi palestinesi e i loro sogni con la sovversione di Alice. Ma subito Alice ha cambiato pelle diventando Dante, un bambino perduto in Medio Oriente che decide di non cercare la via del ritorno – a proposito un altro Dante fu esule a Ravenna, ma non gli presero le impronte digitali mi pare – o della salvezza verso le stelle, pur girando tra inferni, paradisi, purgatori».

L’inferno comincia a Jenin?

«Per un paradosso potremmo dire che Jenin è un paradiso, un luogo che ci ha insegnato moltissimo, in primo luogo a vedere il Medio Oriente con altri occhi. Ma un piccolissimo inferno si è riversato anche su di noi dentro i checkpoint, un meccanismo di controllo quasi diabolico. Nonostante tutto, in Palestina la resistenza è rimasta viva con in testa i bambini».

I bimbi hanno resistito anche a voi?

«Sì, senza volerlo avremmo potuto essere portatori di un progetto di colonizzazione culturale. Per quanto tu sia aperto, vai nei posti con le tue idee. Così i bimbi non ci hanno seguito. Ci era venuto il dubbio che stessimo sbagliando tutto, che non servisse fare uno spettacolo ma qualche altra cosa. In Bosnia ci eravamo confrontati con bimbi organizzati, un collettivo, mentre qui i corpi sono come ulivi, piegati dall’occupazione. Dovevamo ascoltare di più i bambini. Dopo una notte insonne, il miracolo è avvenuto: il lavoro è partito, loro ci hanno preso per mano».

La sera della prima?

«Due ore prima dello spettacolo, il titolo è “Nero”, pensavamo non venisse nessuno, invece il grande ex-garage si è riempito. Una fotografa nostra amica ci ha detto una semplice, grande verità: il teatro ti aiuta a far le cose con la gente, è importante ma purtroppo si fa sempre meno».

Riuscirete a portare anche “Nero” in Italia?

«Dobbiamo. Ci siamo impegnati a venire entro marzo 2009 e speriamo di farcela. Forse a Padova, vedremo».

Cosa accade in scena?

«Non c’è parola né musica, solo tre canti, all’inizio in italiano e poi in arabo. Con la frase “aria che porta al mare, che chiuso in gabbia diventa acqua, che è donna,che è vita,che è terra”. Ci sono pannelli che si muovono, cadono. In un pannello la parola acqua scritta in arabo viene rovesciata e diventa il volto d’una donna. Alla fine una palestinese piangendo ci ha detto: “siete riusciti a raccontare la nostra storia”. E qualcuno ha aggiunto: “sapeste quanti artisti stranieri sono venuti qui senza capir nulla” . Noi non siamo più bravi di altri, solo abbiamo avuto l’umiltà di ascoltare».

Tutto questo… solo voi tre?

«A Jenin abbiamo incontrato italiani straordinari che ci hanno aiutato in ogni modo: Roberta Pasini, non solo interprete ma un vero ponte fra noi e i palestinesi, Martina Iannizzotto (direttrice di Ics a Ramallah), Luca Tommasini e Giulia Franchi di due ong italiane, Raffele Spiga della Regione Emilia-Romagna e questa Regione sin dall’inizio ci ha sostenuto. Quando c’era un problema con tutte queste persone inventavamo qualcosa: per comprare il materiale ai ragazzini persino “una taglietellata” il 25 aprile, guarda che coincidenza».

Neanche il tempo di finire e… dove siete volati adesso?

«Un primo sopralluogo a Berlino nella comunità turca, fra poco ripartiamo da qui. Dopo “Nero” l’idea è di fare “Rosso”, una storia d’amore. Finiremo a giugno 2009 e l’anno successivo vogliamo andare in Libano. Ci piacerebbe mettere tutto insieme in un unico spettacolo, verso il 2011. Perchè poi vogliamo andare in Africa con due gruppi, bambini e madri, uno spettacolo doppio…».

Se siete comprensibilmente stupiti che tre sconosciuti riescano a mettere su tutto questo ambaradan, fate le vostre verifiche: sul loro sito www.ponteradio.org si può scaricare la prima versione di «Sul confine,Kroz Ogledalo», leggere notizie, vedere due mostre fotografiche, il dvd preparato dai genitori e molto altro.

Redazione
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