Rom e Sinti: colpevoli di tutto
un dossier con due saggi (di Pietro Basso e Luigi Di Noia) ripresi da “Razzismo di stato: Stati Uniti, Europa, Italia” edito nel 2010 da FrancoAngeli.
La rinnovata persecuzione dei rom
di Pietro Basso (*)
«Che strano mondo quello che si autodefinisce civile e democratico: non
riuscendo a risolvere i problemi della povertà, ha deciso di fare la guerra
ai poveri.» (Eduardo Galeano)
Gli immigrati arabi ed “islamici” non sono i soli a subire quotidianamente atti di discriminazioni e insulti razzisti. Anzi. Gli stereotipi negativi diffusi a ciclo continuo non risparmiano una sola nazionalità.
L’immigrazione cinese, ad esempio, è spesso associata alla importazione in Italia di mafia e lavoro nero, che vi sarebbero altrimenti pressoché sconosciuti. Poi, basta aprire un qualsiasi foglio quotidiano per apprendere quanto ampi siano in Italia i domini della criminalità organizzata autoctona, quanto sia impressionante la quota del “sommerso” sul prodotto interno lordo1. E basta sfogliare (ma va letta!) la prima seria ricerca sulla immigrazione cinese in Italia per “scoprire” che: 1) non è vero che la diffusione dei laboratori del sommerso o del para-sommerso siano un prodotto di esportazione cinese, poiché essi costituiscono invece, a scala mondiale, “una parte integrante del capitalismo moderno” di ultimissima generazione; 2) non è vero che i laboratori cinesi siano una specializzazione “etnica” delle genti con gli occhi a mandorla, poiché invece essi sono nati e sono presenti nelle regioni e aree d’Italia caratterizzate da distretti industriali esistenti assai prima che vi si impiantassero i laboratori cinesi, che vi operano principalmente come piccole e piccolissime imprese sub-fornitrici di imprese italiane, e solo in subordine producono in proprio; 3) non è vero che questa attività produttiva sia in mano alla mafia cinese che vi investirebbe grossi capitali: si tratta invece, nella quasi totalità dei casi, di ditte individuali che richiedono un basso o bassissimo capitale di avviamento, e sono sostenute da reti parentali o di villaggio e da finanziamenti di banche cinesi; 4) non è vero che queste micro-imprese siano per principio chiuse, in ragione della loro natura “etnica”, a lavoratori non-cinesi, perché al contrario esse risultano, ad esempio in Veneto, tra le imprese a titolarità straniera, quelle con il maggior numero di lavoratori stranieri (anche italiani), così come non è vero che i lavoratori salariati cinesi abbiano la tendenza organica o il vincolo mafioso a lavorare sotto connazionali, perché anzi cresce di continuo la percentuale di lavoratori cinesi alle dipendenze di imprese italiane (sempre in Veneto, nel 2006, solo 15 dei 468 operai cinesi esordienti nel settore metalmeccanico lavoravano per dei connazionali); 5) non è vero che la diffusione dei laboratori cinesi sia dovuta a chissà quali oscuri maneggi: la loro crescita si deve essenzialmente al fatto che rispondono in modo efficace agli imperativi tipici dell’“era neo-liberista” e dell’economia del just in time, costi contenuti, consegne nei tempi richiesti e flessibilità estrema; 6) non è vero che esista una abissale differenza tra i laboratori cinesi e quelli italiani in fatto di tecniche di produzione, condizioni ambientali di lavoro e salari (la media dei salari è tra i 900 e i 1.100 euro al mese, con punte di 1.500-2.000 per chi accetta di lavorare più a lungo): la differenza più pesante è invece negli orari, che vanno dalle 10 alle 14 ore di lavoro al giorno e prevedono una settimana lavorativa di sette giorni, e ulteriori allungamenti di orario quando ci sono consegne immediate da effettuare; 7) non è vero che tali condizioni di super-sfruttamento sono un’esclusiva “etnica” cinese perché anche nei laboratori che non sono di proprietà di cinesi si violano pressoché ovunque e sistematicamente le regole (V. Rieser, già venti anni addietro, vi riscontrò la nona ora di lavoro non pagata come prassi abituale, e si trattava, allora, di lavoratori e di imprenditori italiani d.o.c.); e la soggezione a simili condizioni è dovuta di solito all’indebitamento che grava sugli emigranti cinesi, e arriva talvolta fino a due annualità di salario2, è dovuta quindi allo stato di particolare ricattabilità in cui si trovano molti immigrati quando sono costretti ad aggirare leggi che scoraggiano l’immigrazione legale.
Le rappresentazioni correnti associano inoltre l’immigrazione nigeriana all’importazione di droga e di prostituzione. Terreni su cui le fanno concorrenza gli albanesi, specializzatisi nelle medesime sublimi attività fino a pochissimi anni fa ignote, a quanto pare, alle società europee. Ai romeni spetterebbe invece il primato nella violenza sessuale, e vari altri primati nel campo delle attività criminali. Ecco un loro memorabile ritratto:
«È considerata la razza più violenta, pericolosa, prepotente, capace di uccidere per una manciata di spiccioli. È capace di compiere truffe milionarie grazie all’alta conoscenza delle tecnologie. Non ha paura di nulla, disprezza anche la vita di donne e bambini che non raggiungono i dieci anni di età. E si appresta addirittura ad entrare nell’Unione europea. Sono i rumeni, i cittadini della Romania che da anni terrorizzano il nostro Paese. Persone che vendono sogni che poi si trasformano in schiavitù. Agiscono sempre in gruppi per riuscire a portare a termine le loro innumerevoli attività criminali: dalla prostituzione alle rapine in villa, dalla clonazione di carte di credito all’immigrazione clandestina. E la loro capacità di compiere traffici illegali in Italia tanto redditizi ha fatto accendere le antenne ai “nostri” criminali [fino alla loro venuta erano infatti spente…], facendo nascere sul territorio nazionale veri e propri sodalizi italo-rumeni. La maggior parte dei rumeni che sono giunti in Italia in maniera clandestina sono capaci di compiere sequestri di persona, rapine in villa, di vivere nell’ombra per gestire le prostitute connazionali fatte arrivare nelle più grandi metropoli con la promessa spesso e volentieri di fare la badante. È chiamato la ‘peste’, e si pronuncia ‘pesce’, il malvivente che sfrutta le ragazze dell’Est, le picchia, le violenta e le riduce in schiavitù. I rumeni sono anche degli ottimi acrobati, riescono a entrare nelle abitazioni arrampicandosi sulle pareti più difficili da scalare, con indosso spesso armi bianche: solo nei primi sette mesi di questo anno sono stati infatti arrestati dalle forze dell’ordine 38 rumeni responsabili di rapine in villa. La mente criminale di questi banditi è però in grado di inventarsi sistemi tecnologici capaci di succhiare denaro dai conti correnti degli italiani. (…) La donna rumena, quando invece riesce a non finire nelle mani dei ‘padroni’, con la sua bellezza dell’Est riesce ad incantare anziani ricchi e farsi sposare per ottenere la cittadinanza, e perché no, il conto in banca»3.
A questo cammeo di rara eleganza e veridicità mancano solo alcuni dati di contorno che mi affretto a fornire. La criminalità organizzata italiana ha avuto la sua massima espansione, diventando transnazionale, nei primi 45 anni del dopoguerra4, quelli in cui l’Italia era ancora paese di emigrazione o di modesta immigrazione, e di romene “prostitute-maliarde” o di romeni “delinquenti nati” in Italia ce n’era punti. Al 9 febbraio 2009 i romeni in carcere erano 1.773 su una popolazione immigrata dalla Romania stimata in oltre 800.000 unità (poco più del 2 per mille, ossia lo 0,2%), ma “in compenso” si trovava in Italia il 40% dei latitanti romeni inseguiti da un mandato di cattura internazionale5. Come mai? c’entrano forse qualcosa le specialissime condizioni di libertà d’azione di cui godono qui le bande della malavita organizzata e la molteplicità di lucrosissimi affari illegali che è possibile concludere in Italia? Un altro particolare sfuggito all’eccellente giornalista appena citato è il seguente: i romeni sono la nazionalità che detiene in Italia il triste record dei morti sul lavoro: 35 nel 2004, 29 nel 2005, 30 nel 2006 e che in quel triennio “vanta”, oltre i 94 morti, anche più di 44.000 infortunati sul lavoro (parliamo solo dei casi accertati dall’Inail). I romeni detengono anche il record delle discriminazioni subite sul posto di lavoro6, e le giovani donne romene sono tra quelle più violate sulle strade e nelle case da “nostri” bravi concittadini. Niente altro da aggiungere.
Comunque, non si tratta dei soli cinesi o dei soli romeni; ce n’è per tutti, “extra-comunitari e “comunitari”, a dosi da cavallo. E uno stigma rimanda all’altro con un effetto moltiplicatore che tocca, macchia ed espone agli arbitrii istituzionali e alla violenza tutte, senza eccezione, le nazionalità degli immigrati.
Nessun “gruppo etnico”, però, subisce i colpi che vengono inflitti ai rom. Parliamo dunque, ora, di loro perché la campagna di denigrazione e di ordine pubblico contro i rom è, dopo l’islamofobia, il secondo dei temi fissi del razzismo istituzionale europeo dell’ultimo decennio.
La criminalizzazione e la persecuzione delle popolazioni rom vengono da molto lontano, e sono state oggetto di incredibile rimozione. Una rimozione che riguarda anche il Porrajmos, il loro sterminio per mano del regime nazista ad Auschwitz-Birkenau, Sobibor, Treblinka e in altri campi di concentramento7. Eppure nulla gli è stato risparmiato. A cominciare dalla seconda metà del quindicesimo secolo, i bandi contro di loro sono stati innumerevoli, e quasi sempre si sono accompagnati a delizie collaterali: ammende, pene corporali, rapature, amputazioni di orecchi, ove il sinistro, ove il destro, taglio della lingua, cavatura degli occhi, e così via. A molti di loro toccò il lavoro forzato, la riduzione in schiavitù come braccianti (lo storico rumeno Barbu dice: “lavoravano nei campi come i neri d’America coltivando grano anziché cotone”), la deportazione nelle colonie. Ad altri, avessero o meno contravvenuto a qualcuno degli infiniti divieti loro imposti, toccò l’impiccagione, con e senza processo, la fucilazione, la caccia all’uomo, la pulizia “etnica”, l’esperienza del terrore di stato, o anche privato, perché non di rado a chi “eliminava” gli zingari accorrendo al suono spiegato delle campane, veniva accordato un premio in talleri o quant’altro. Ad altri ancora toccò in sorte, come avvenne in Austria-Ungheria o in Spagna, l’assimilazione forzata, il divieto di fuga, il furto dei figli, affidati d’autorità a famiglie cristiane perché li riscattassero dalla paganità8.
In quanto gens du voyage, i rom condivisero la sorte delle popolazioni espulse a forza dalle terre, coatte prima al vagabondaggio e alla mendicità, e poi «con leggi tra il grottesco e il terroristico a sottomettersi, a forza di frusta, di marchio a fuoco, di torture, a quella disciplina che era necessaria al sistema del lavoro salariato» (Marx). La sola differenza è che i rom non erano coltivatori, bensì artigiani di tutti i metalli, costruttori di carri, allevatori, musicisti, commercianti. Alle principali, più diffuse tra queste attività produttive il capitalismo nascente tolse il terreno sotto i piedi, imponendo ai rom di “scegliere tra la schiavitù salariata, la marginalità sociale e lo sterminio”9. Impossibile dire quanta parte di tali popolazioni di origini indo-europee accettò/subì il processo di proletarizzazione finendo per fondersi con le popolazioni autoctone. La sola cosa certa è che se oggi la presenza dei rom nell’Europa occidentale è enormemente più limitata che nell’Europa orientale, ciò si deve –a prescindere dalle persecuzioni– alla differenza di sviluppo tra le due parti del continente. Ad Occidente la proletarizzazione-assimilazione di larga parte di queste popolazioni è avvenuta prima, e può dirsi quasi completamente compiuta già nel periodo antecedente la seconda guerra mondiale. Nelle regioni danubiane e carpatiche il processo di sedentarizzazione, più lento e tardivo, si è esteso invece al secondo dopo-guerra. Tuttavia una parte dei rom ne è rimasta esclusa, vuoi per i terribili pregiudizi diffusi nei loro confronti, simili a quelli accollati agli ebrei, che ne hanno resa difficile perfino l’assimilazione; vuoi per le abitudini consolidate al nomadismo e l’attaccamento alle proprie tradizioni e alla propria libertà di “figli del vento senza paese”.
Estremamente frammentate, disperse, mobili, le popolazioni rom non hanno mai intrapreso la strada verso la formazione di uno stato nazionale, e neppure verso qualcosa di simile ad una coscienza nazionale10. E anche questa particolarità della loro storia ha esposto, ha vincolato vasti gruppi familiari rom ad una pesante marginalità. Una marginalità che negli ultimi decenni è stata sempre più contigua ai grandi aggregati urbani, con nuovi mestieri improvvisati e ben poco remunerativi quali i raccoglitori di cartone e di carta, gli sfasciacarrozze, i gommisti, alternati e combinati con micro-attività illegali, in una esistenza da “classico” sotto-proletariato fatta di espedienti, miseria, degrado. Secondo una metodica che conosciamo, questa componente minoritaria dei popoli rom è stata poi trasformata dalla propaganda di stato, alla bisogna, nella tipica popolazione rom che realizza nel non-lavoro, nell’accattonaggio, nel piccolo furto, nella divinazione, le proprie naturali inclinazioni, la propria atavica cultura. Ed è stata esposta alla facile riprovazione, all’odio, alla furia popolare come i “nati per delinquere” di lombrosiana memoria, e perciò il più indifeso dei capri espiatori.
La campagna anti-rom, mai sospesa del tutto, è ripartita con una speciale virulenza dopo il crollo dei regimi del “socialismo reale”. Ha scritto A. Bíró:
«Durante i memorabili 40 anni di ‘socialismo’, i Rom dell’Europa centrale e orientale che erano stati sedentari per decenni, se non per secoli, sono stati integrati d’autorità nell’economia ufficiale, anche se al livello più basso di competenze e di retribuzione. Questo fenomeno è stato accompagnato da un alto grado di acculturazione, che ha comportamento un cambiamento radicale nelle abitudini e nello stile di vita. È aumentata l’alfabetizzazione, ed elementi come case moderne, previdenza sociale e assistenza sanitaria sono entrati a far parte della vita quotidiana. La garanzia di un introito mensile fisso, fino ad allora percepita come uno stato di sicurezza inimmaginabile, ha rappresentato il cambiamento più evidente, rompendo abitudini e atteggiamenti secolari.
«Viceversa, alle prime avvisaglie della crisi economica, la forza lavoro rom è stata estromessa dal mondo produttivo, ritrovando la dimensione familiare dell’emarginazione e dell’esclusione. Solo un gruppo ridotto di uomini di affari è stato in grado di approfittare dell’economia del nuovo mercato.»11
Nell’Europa dell’Est, sull’onda delle “rivoluzioni di velluto” (una metafora quanto mai ingannevole), si è realizzato un passaggio al “libero mercato” in forme così accelerate e devastanti che l’esistenza della maggioranza dei salariati ne è stata letteralmente sconvolta. Le privatizzazioni e le altre riforme imposte da Occidente hanno falciato almeno un milione di vite umane12, gettando sul lastrico altri milioni. I governi che hanno messo in opera tali politiche, per mettersi al riparo dalla possibile reazione dei lavoratori, hanno pensato bene di ri-acutizzare vecchi antagonismi sub-nazionali ed “etnici” sopiti così da scaricare su queste sfortunate “minoranze nazionali” il malcontento sociale. I rom sono entrati di nuovo quasi dovunque nel mirino dei poteri costituiti. Gruppi di rom da tempo sedentarizzati sono stati afferrati per il collo, spiantati dalle proprie case, costretti dall’oggi al domani a emigrare verso ovest. Costretti a emigrare nelle peggiori condizioni possibili, in quanto componente fragile, se non fragilissima di un mercato del lavoro immigrato proveniente dall’Est già sovrabbondante e sotto-remunerato. I soli lavori a cui hanno potuto avere accesso i nuovi rom emigrati in Europa occidentale dalla ex-Jugoslavia, dalla Romania, dalla Bulgaria sono stati perciò i lavori saltuari di pura manovalanza, in edilizia, nelle ditte di pulizia, nei piccoli trasporti, che non sono in grado di garantire loro neppure una pur misera sopravvivenza.
Questo loro forzato rimettersi in movimento da est verso ovest ha fornito ai governi dell’Italia, della Francia, etc. il pretesto per ripresentare i rom, gli “zingari” come nomadi per natura, e predisporgli delle strutture ad hoc coerenti con questa loro (presunta) “vocazione”: i campi nomadi. Ora, i campi nomadi, è noto, sono strutture di segregazione che nella quasi totalità dei casi servono solo ad escludere i rom dalla vita sociale e a degradarne ulteriormente l’esistenza. In questi campi situati spesso in zone malsane, almeno in Italia manca tutto, a cominciare dall’acqua e dalla luce. E quel che è peggio, questi insediamenti hanno quasi sempre un carattere provvisorio in quanto i comuni coinvolti scalpitano per smantellarli ancor più rapidamente di quanto li abbiano apprestati. Ciò significa che per i nuovi rom non c’è alcuna possibilità di mandare a scuola i propri figli, di trovare un lavoro stabile, di accedere ad una casa degna di questo nome. In condizioni del genere l’accattonaggio, il furto ed altre attività illegali restano la sola possibilità per sfamarsi e tirare in qualche modo a campare fin che ci si riesce (in Italia appena il 3% dei rom rinchiusi nei campi ce la fa a superare la soglia dei 60 anni). Può esistere un bersaglio più facile di questo per la campagna razzista anti-immigrati?
Nella parte occidentale dell’Europa l’Italia è la maglia nera anche in questo ambito13; e l’elenco, il mero elenco, dei luoghi in cui sono avvenuti attacchi ai campi rom o a gruppi di rom nel biennio 2007-2008 con incendi, distruzione di tende, minacce a mano armata, colpi d’arma da fuoco, violenze, morti, è da brividi: Opera (Milano), Chiari (Brescia), Quartu S. Elena (Cagliari), via Dionigi (Milano), periferia di Torino, Appignano del Tronto (Ascoli Piceno), San Donato (Milano), Arcella (Padova), Sesto San Giovanni (Milano), Trensasco e Molassana (Genova), Livorno (qui il 12 agosto del 2007 restano carbonizzati quattro bambini), Pavia, Ponte Mammolo (Roma), Ceggia (Venezia), Casalotti (Roma), capannoni ex-Mira Lanza (Roma), Ponticelli (Napoli), Novara, Marcaria (Mantova), Brescia (qui l’aggressione è ad una bambina di 8 anni perché vada via dalla scuola), Mestre (Venezia), Rimini (aggredita una giovane di 16 anni incinta), Zia Lisa (Catania), Ponte della Cittadella (Pisa), Cerreto Guidi (Livorno), Pesaro, Fano, Bussolengo (Verona, dove alcuni rom vengono picchiati selvaggiamente dai carabinieri), Firenze (qui sono i vigili urbani ad impegnarsi nella doverosa pulizia etnica, su ordine di una amministrazione comunale di centro-sinistra), Bologna14.
Non si tratta solo dell’Italia. Anche laddove di rom ce n’è ancor meno, come a Ginevra, dove sono appena 200 sull’intero territorio cantonale, lo 0,04 della popolazione, è ripartita la caccia a loro “lungo il tracciato dell’eugenetica sociale di inizio diciannovesimo secolo”. Una caccia preceduta e accompagnata, scrive in questo libro D. Lopreno, da un dibattito ufficiale davvero entusiasmante, pieno zeppo di slittamenti semantici e discorsi “pieni di livore” che passano con grande facilità “dal povero al delinquente, dal rom al criminale” sulla base di consolidati pregiudizi di stampo, a mio avviso, schiettamente razzista15.
Del resto è cosa pacifica per tutti che la più grande minoranza “nazionale” d’Europa, quali i rom sono, sia la più discriminata e vilipesa. Questa discriminazione serve a due scopi in uno: inferiorizzare attraverso i rom, presentati quasi sempre nel dibattito pubblico come genti dell’Est, l’intera gamma delle popolazioni slave dell’Est Europa (i “popoli concime” di hitleriana memoria), e criminalizzare la povertà, quella povertà che il neo-liberismo e la crisi stanno facendo crescere a vista d’occhio anche nella opulenta Europa. Proprio per le miserevoli condizioni in cui è stato ridotto nei secoli dal binomio mercato-stato/i, nessun gruppo di immigrati si presta altrettanto all’importazione in Europa della logica della “tolleranza zero” collaudata negli Stati Uniti, a quel processo di “soppressione dello stato economico [dell’intervento dello stato in economia], contrazione dello stato sociale, rafforzamento e glorificazione dello stato penale” di cui ha parlato L. Wacquant. Un processo che ha nel mirino l’intero mondo del lavoro, e non solo i rom o gli immigrati.
«Deregolamentazione sociale, crescita della precarietà (su uno sfondo di disoccupazione di massa in Europa e di working poor negli Stati Uniti) e ritorno dello stato repressore vanno di pari passo: la ‘mano visibile’ del mercato del lavoro precario trova il suo complemento istituzionale nel ‘pugno di ferro’ dello stato che si ridispiega in modo da soffocare i disordini prodotti dalla diffusione dell’insicurezza sociale. Alla regolazione delle classi popolari per mezzo di quella che Pierre Bourdieu chiama la ‘mano sinistra’ dello stato (l’istruzione, la sanità, l’assistenza e gli alloggi sociali), si sostituisce (negli Stati Uniti) o si aggiunge (in Europa) la regolazione per mezzo della sua ‘mano destra’ (la polizia, la giustizia, il carcere), sempre più attiva e intrusiva nelle zone ‘inferiori’ dello spazio sociale. La riaffermazione ossessiva del ‘diritto alla sicurezza’, l’interesse e i mezzi accresciuti accordati al mantenimento dell’ordine cadono a pennello per colmare il deficit di legittimità di cui soffrono le autorità politiche proprio per avere abdicato ai compiti dello stato in campo economico e sociale»16.
Le new entry in Europa non vogliono essere da meno di Italia, Francia, Germania, Spagna, Grecia e così via17. Ed ecco il sanguinario pogrom dei nazionalisti kosovari del 16 e 17 giugno 1999, il più terribile di una catena di pogrom che a mezzo di assassini, incendi, sevizie, stupri ha espulso dal Kosovo, sotto lo sguardo complice dell’Occidente, la quasi totalità del 100.000 rom ivi residenti da tempo. A sua volta la Romania, infastidita dall’imbarazzante assonanza tra rom e romeni così abilmente sfruttata contro questi ultimi, ha messo in cantiere di cambiare d’autorità nome ai rom per ridenominarli tzigan, termine che equivale a un insulto. In Slovenia è nato perfino un conflitto istituzionale a seguito di una rivolta anti-rom ad Ambrus, che si è trasformata in un attacco contro il presidente della repubblica Drnovsek, ritenuto troppo debole verso gli indesiderati. In Turchia nel maggio 2009 le ruspe di stato hanno spianato l’antichissimo insediamento rom di Sukulule, un quartiere di musicanti e artisti abitato dai rom da mille anni: anche lì i rom poveri e chiassosi danno fastidio, servono nuovi hotel e uffici di lusso. Un bel biglietto da visita per l’ingresso in Europa, dove negli stessi giorni, a Belfast, giovani neonazisti si allenavano contro un centinaio di rom di origine rumena con bastoni, bottiglie e minacce di tagliare la gola ai bambini18…
NOTE
1 Secondo le ultime stime in Italia il fatturato annuale dell’economia in nero e dell’economia del crimine organizzato è stato pari, nel 2008, a 419,4 miliardi di euro, più del 25% del pil italiano (“il sole – 24 ore”, 6 luglio 2009). Un altro miracolo cinese?
2 Zanin V.-Wu B., Profili e dinamiche della migrazione cinese in Italia e nel Veneto, editing a cura del COSES, Venezia, 2009.
3 “Il Tempo”, quotidiano romano, 3 ottobre 2006, chi scrive si chiama Augusto Parboni (i corsivi sono miei).
4 Di una letteratura ormai ampia mi limito a segnalare qui lo studio di Arlacchi P., La mafia imprenditrice, Il Mulino, Bologna, 1983, che innovò il paradigma interpretativo dell’attività mafiosa inquadrandola in modo scientifico come un’attività essenzialmente imprenditoriale, e perciò volta al profitto (al sovra-profitto, anzi, consentito dallo scoraggiamento violento della concorrenza, dalla speciali compressione dei salari e dalla larga disponibilità di mezzi finanziari) e l’ampia, dettagliatissima ricostruzione di Forgione F., Mafia export. Come ‘Ndrangheta, Cosa Nostra e Camorra hanno colonizzato il mondo, Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2009. È anche il caso di prendere in considerazione almeno il IX Rapporto redatto da SOS Impresa per la Confesercenti, Le mani della criminalità sulle imprese, Roma, 24 luglio 2006, nel quale il fatturato della Mafia Spa italiana è stimato essere “il doppio di quello della Fiat e dell’Enel, dieci volte più grande di quello della Telecom” (p. 4).
5 “la Repubblica”, 24 febbraio 2009.
6 Cfr. il comunicato dell’UNAR (Ufficio anti-discriminazioni razziali della presidenza del Consiglio dei ministri) del 5 novembre 2007.
7 Günter Grass, fondatore insieme alla moglie dello Stiftung zugunsten des Romavolkes, ricorda che quando si discusse a Berlino di erigere un monumento alle vittime del razzismo, si decise di dedicarlo esclusivamente alle vittime ebraiche. I rom ne furono esclusi, lasciati “in una sorta di lista di attesa”. Perché? Perché, suppone lo scrittore, anche la gente bene intenzionata li considera tuttora, almeno in modo implicito, “una razza inferiore” (Grass G., Un popolo europeo, “Lettera internazionale”, n. 65/2000, p. 44).
8 Cfr. de Vaux de Foletier F., Mille ans d’histoire des Tsiganes, Fayard, Paris, 1970; Kenrick D.-Puxon G., Il destino degli zingari, Rizzoli, Milano, 1975; Huonker T.–Ludi R., Roms, Sintis et Yéniches. La “politique tsigane” suisse à l’époque du national–socialisme, Page Deux, Lausanne, 2009. Nel recensire il testo di Huonker e Ludi, Alain Bihr ricorda che la Svizzera è stata nel XX secolo una pioniera della politica anti-rom con la creazione, nel 1911, di un registro antropometrico in cui erano registrati tutti i rom entrati in Svizzera o soggiornanti in territorio svizzero, con l’internamento in campi di rom cittadini svizzeri, con l’adozione di pratiche di sterilizzazione forzata, con la sottrazione di centinaia di minori ai propri genitori rom per poi affidarli a famiglie svizzere cosiddette “normali” o ad istituzioni per malati di mente, con la piena collaborazione assicurata anche sotto questo profilo al regime nazista: cfr. Une Suisse pionnière dans la politique anti-tsigane, “Interrogations”, n. 10/2010.
9 Cfr. Piasere L., I rom d’Europa. Una storia moderna, Laterza, Bari, 2007; Calabrò A.R., Il vento non soffia più. Gli zingari ai margini di una grande città, Marsilio, Venezia, 1992; e il saggio di L. Di Noia, Rom, il bersaglio più facile, pubblicato nella seconda parte del volume, il cui filo di ragionamento riprendo qui di seguito.
10 Solo molto di recente è emerso in esse una sorta di “etno-nazionalismo”.
11 Cfr. Bíró A., Il futuro di un popolo, “Lettera internazionale”, n. 65/2000, p. 42.
12 Cfr. l’importante studio di Stuckler D. et alii, Mass Privatisation and the Post-Communist Mortality Crisis: a Cross-National Analysis, pubblicato on line, January, 15, 2009, www.thelancet.com
Questo studio mette opportunamente in relazione l’esponenziale incremento della disoccupazione avvenuto nei paesi dell’Est negli anni ‘ 90 per effetto dell’avvento del “libero mercato” (da un minimo di +50% ad un massimo di +300% nel giro di pochissimi anni) con il verticale balzo all’in su dell’indice di mortalità in questi paesi, quasi tutto concentrato tra i maschi in età lavorativa.
13 Lo è pure nel trattamento dei rom e dei sinti che da decenni risiedono nel territorio italiano, perché molti di loro non hanno la cittadinanza, sicché migliaia di loro bambini risultano apolidi e non possono accedere né alla scuola, né ai servizi. Il Consiglio d’Europa ha prodotto quintali di risoluzioni su queste discriminazioni senza alcun effetto.
14 Cfr. Lunaria (a cura di), Libro bianco sul razzismo in Italia, Roma, 2009, pp. 115-154.
15 Dico “a mio avviso”, perché D. Lopreno preferisce usare invece il termine “essenzialista”.
16 Così L. Wacquant ha sintetizzato in una intervista il suo scritto Les prisons de la misère, Éditions Raisons d’Agir, Paris, 1999.
17 Cfr. European Agency for Fundamental Rights, Data in Focus Report – The Roma, 2009; Commission européenne, La situation des Roms dans une Union européenne élargie, Bruxelles, 2004; Cienski J.-Escritt T., Europa centrale, la crisi la pagano i Rom, sul sito www.sucardrom.blogspot.com dove si legge che nell’Europa orientale di oggi “i rom sono gli ultimi ad essere assunti e i primi ad essere licenziati”.
18 Cfr. “Il Sole 24 ore”, 18 giugno 2009.
I rom, il bersaglio più facile
di Luigi Di Noia
Il riemergere in primo piano della “questione rom” è stato con ogni evidenza innescato dai movimenti migratori conseguiti al crollo delle economie dell’Europa orientale dopo il 1989. Il collasso socioeconomico dei paesi dell’Est ha comportato, infatti, la cancellazione di tutta una serie di rilevanti garanzie acquisite in essi dalle popolazioni rom e lo scioglimento dei legami solidaristici che vi si erano andati pazientemente costituendo soprattutto a partire dal secondo dopoguerra. Certo, sarebbe esagerato parlare di raggiungimento di una vera e diffusa “integrazione”. Ma è altresì innegabile che in quei paesi si siano raggiunti importanti obbiettivi per quanto riguarda la sedentarizzazione e l’inserimento lavorativo in ambito industriale, come anche in fatto di scolarizzazione e partecipazione all’attività politica e sindacale1. Tutto questo non solo ad opera delle politiche governative, ma anche grazie all’associazionismo e all’attivismo rom che fiorirono nella prima metà del novecento e alla loro “entusiastica partecipazione”, come ebbe modo di dire Tito, alla lotta partigiana durante la seconda guerra mondiale.
Il crollo dei sistemi socioeconomici del “socialismo reale” ha invece risospinto nel passato le popolazioni rom dell’Europa orientale. Private dei servizi pubblici basilari, espulse dal ciclo produttivo e dalla rappresentanza politica, sfrattate dalla speculazione edilizia, scacciate dal montare dei nazionalismi xenofobi, queste popolazioni sono state costrette all’emigrazione dalla crisi economica così come dalla disgregazione della Jugoslavia. Il riacutizzarsi della “questione rom”, quindi, è parte integrante del più vasto processo delle più recenti migrazioni internazionali. E il dibattito, se così lo si può chiamare, sorto in Italia in seguito ad alcuni fatti di cronaca nera imputabili ad immigrati rom, lo conferma con ogni evidenza. L’equivalenza nomadi = rom = rumeni = immigrati, diffusa, ad esempio, dai media italiani dopo l’omicidio Reggiani nell’ottobre del 2007 non rappresenta solo un chiaro tentativo di eccitare l’emotività della gente per colpire i rom, ma lo fa stabilendo, con una grezza schematizzazione, una linea di continuità tra loro e l’insieme dei lavoratori immigrati. Non a caso, di fronte al varo del decreto legge n.181/2007 che avrebbe reso immediatamente operative le espulsioni dei rom rumeni, la Lega ci tenne a precisare come:
“adesso tutti parlano di rom e rumeni, tutta l’attenzione è puntata lì. E si dimenticano che ci sono tutti gli altri immigrati, con tutti i problemi connessi. Non sono solo i rom a creare problemi in questo paese”2.
Quasi a dire che il problema non sono i rom in sé, bensì i rom in quanto immigrati. Ed in effetti così è. L’inasprimento delle politiche nei loro confronti, l’aumento delle aggressioni contro di loro fino allo scatenamento di veri e propri pogrom, le disgustose campagne mediatiche di questi ultimi anni non possono essere comprese disgiuntamente dal processo di accentuazione delle discriminazioni e di vera e propria criminalizzazione nei confronti delle popolazioni immigrate. Del pari, le norme anti-rom, per quanto specifiche, non possono essere slegate dalla costruzione e dal consolidamento di un diritto differenziato e gerarchizzante per i lavoratori immigrati. I provvedimenti contro le popolazioni rom ne costituiscono anzi un elemento non secondario, dal momento che contribuiscono a rafforzare la segmentazione di fronte alla legge, e immancabilmente al mercato del lavoro, dell’insieme dei lavoratori immigrati.
Una premessa di metodo
Va anche detto, però, che il rilancio alla grande dell’ostilità verso le popolazioni rom può giovarsi di una lunghissima e “ricchissima” tradizione, al punto tale che si potrebbe parlare quasi di una costante nella storia dell’Europa moderna – una costante che ha conosciuto il suo picco estremo di violenza concentrata nello sterminio di 500.000 rom per mano del regime nazista. Uno sguardo al passato è, pertanto, d’obbligo. Lo è anche e soprattutto per comprendere attraverso quale svolgimento storico la “questione rom” ha assunto i connotati che presenta all’oggi.
Senza una chiara risposta a questo quesito ogni analisi, ogni fotografia, per quanto fedele e realistica, delle odierne condizioni delle popolazioni rom non può che rilevarsi fuorviante e dannosa. È necessario, infatti, svelare i processi storico-materiali che hanno prodotto tali condizioni. Una ricostruzione storica della comparsa delle popolazioni rom in Occidente, della loro diffusione in tutto il continente europeo ed oltre, dello sviluppo delle politiche repressive e discriminatorie nei loro confronti esiste e generalmente è alla base di ogni dignitoso saggio sulla questione. Questa ricostruzione è stata dominata, però, grazie anche a fattori oggettivi quali la mancanza di una tradizione scritta, da discipline come la linguistica e l’antropologia. Questi contributi, sebbene abbiano avuto l’indiscutibile merito di svelarci le origini, il lungo processo migratorio intercontinentale, le strutture sociali, ecc. – ovvero la gran parte delle nozioni a cui possiamo attingere oggi – hanno finito per “culturalizzare” pesantemente il dibattito e la ricerca sorti a fatica attorno alla “questione rom”. Esistono pregevoli osservazioni e ricostruzioni linguistiche, significative raccolte di espressioni della cultura orale romaní, essenziali selezioni dei bandi anti-zigani e delle testimonianze storiche rintracciate nelle cronache, nella letteratura, nella musica di tutta Europa, ma vi sono solamente pochi schizzi intuitivi sullo sviluppo del quadro socio-economico in cui queste popolazioni sono vissute, che è invece elemento imprescindibile della costruzione, e del mutamento, delle caratteristiche sociali ed “identitarie” di qualsiasi società.
La ricostruzione dei rapporti socio-economici che la popolazione rom ha intrattenuto con il contesto storico, seppur frammentaria, è pertanto essenziale. Per contro, la gran parte della letteratura esistente non riesce ad affrontare la specificità storica delle popolazioni rom, se non ricorrendo, in ultima analisi, ad una sua presunta predeterminazione genetica o culturale3. Se non ricorrendo, pertanto, ad una visione ineluttabilmente razzista della questione. Questo nonostante le evidenti diversità tra l’approccio di stampo romantico/paternalistico e quello disciplinare/repressivo. E nonostante, talvolta, le più candide intenzioni degli autori. Un’analisi rigorosamente scientifica della questione deve, invece, partire dalle fondamenta materiali, storiche della stessa e dal suo reale sviluppo in rapporto al contesto sociale, economico e politico, considerato su scala sovra-nazionale perché sovra-nazionale è stata l’esistenza dei rom. Solo partendo dalla determinata funzione economica svolta nell’ambito delle società e dei rapporti sociali preindustriali è possibile giungere a cogliere realmente la specificità della condizione socio-economica e della formazione della “identità” delle popolazioni rom. E solo con il superamento del romanticismo culturalista che vorrebbe i rom sempre identici all’immagine stereotipata dei nomadici “figli del vento” si potrà iniziare il necessario percorso d’interazione con le popolazioni autoctone in un comune processo di lotta alla marginalizzazione, all’esclusione sociale e al razzismo.
Le prime persecuzioni
Nella storia europea le politiche discriminatorie e persecutorie contro le popolazioni rom vantano ben cinque secoli di vita. Senza dubbio questo accanimento è stato parte integrante della lotta al vagabondaggio che il capitalismo nascente scatenò in Europa a partire dalla fine del XV secolo4. Ma all’interno di questo secolare processo di proletarizzazione della forza lavoro vi è indubbiamente un filone specificatamente antizigano. A partire dalla seconda metà del XV secolo si moltiplicarono infatti i bandi contro gli “zingari”, chiaramente intesi come categoria sociale a sé stante. Così, già nel 1471, la Federazione Svizzera vietò agli «Zeginer» di rimanere sul proprio territorio. A ruota seguirono i territori italiani5, il Sacro Romano Impero (1498), i regni di Castiglia e Aragona (1499), e così via.. Secondo l’antropologo Piasere
“Gli staterelli germanici e quelli italiani furono all’avanguardia in questa mania antizingara: nei primi sono stati contati 133 decreti antizingari dal 1551 al 1774, con una media di 0,59 per anno; nei secondi ne ho contati 209 dal 1493 al 1785, con una media di 0,71 per anno, e con un’alacrità tutta particolare da parte dello Stato della Chiesa o delle sue legazioni. Alcuni Stati tentano la via della deportazione: Portogallo e Spagna soprattutto, Inghilterra, Scozia e Francia in misura minore. Il Portogallo invia zingari nelle sue colonie africane fin dal 1538 e poi verso il Brasile in modo sistematico dal 1574”6.
In linea con l’impianto giurisprudenziale dell’epoca, i bandi e le ammende erano sovente accompagnate dal lavoro forzato o da pene corporali come la fustigazione, il marchio, le mutilazioni. Contemporaneamente a questa dimensione individuale si svilupparono le persecuzioni collettive, le battute di caccia all’uomo7, le deportazioni, la schiavitù, gli imprigionamenti di massa, come la «grande retata» del 1749 che privò della libertà oltre diecimila gitani spagnoli, fino a veri e propri tentativi di pulizia etnica:
“Molto prima che [la caccia agli zingari] si trasformasse in uno sport popolare, la Danimarca decretò nel 1589 la pena capitale per i capi zingari, e cinquant’anni dopo la Svezia condannò all’impiccagione tutti gli zingari maschi. Tra il 1471 e il 1637 [..] gli Stati che si andavano consolidando si lanciarono in una cooperativa della crudeltà. Lucerna, Brandeburgo, Spagna, Germania, Olanda, Portogallo, Inghilterra, Danimarca, Francia, Fiandre, Scozia, Boemia, Polonia, Lituania e Svezia adottarono una legislazione antizingari. In Inghilterra ci furono impiccagioni ed espulsioni; nella Francia di Luigi XIV marchi a fuoco e rapature. Le provincie rivali si distinsero: in Moravia veniva tagliato alle zingare l’orecchio sinistro, in Boemia si diede preferenza al destro. […] Nel 1710 il principe Adolfo Federico del Mecklenburg-Strelitz propose che gli zingari, anche in assenza di accuse per fatti criminali, potessero essere fustigati, marchiati a fuoco o espulsi, e condannati a morte se tornavano, mentre i minori di dieci anni sarebbero stati affidati a famiglie cristiane. Un anno dopo, l’elettore Federico Augusto I di Sassonia autorizzò l’uccisione degli zingari che opponevano resistenza all’arresto; nell’arcivescovado di Magonza si stabilì nel 1714 che tutti gli zingari dovevano essere condannati a morte senza processo poiché il loro modo di vita era stato dichiarato fuorilegge. Nel 1725 in Prussia si condannarono all’impiccagione, senza processo, tutti gli zingari al di sopra dei diciotto anni, e nel 1734 in alcune provincie l’età fu abbassata a quattordici anni, con la promessa di ricompense”8.
Altrove, quando le strutture statuali si accorsero dell’inefficacia di tali bandi, si ricorse alla deportazione nelle colonie o all’assimilazione forzata come nei casi della Spagna o dell’Impero austro-ungarico9. È impressionante la diffusione e l’omogeneità delle forme persecutorie dei governi europei, sebbene, a ben vedere, siano evidentemente paragonabili e collegabili alle politiche contro i movimenti ereticali, contro gli ebrei e le altre minoranze religiose, contro le streghe, contro le jacqueries popolari e soprattutto contro i popoli colonizzati. Non è un caso che un certo numero di rom sia stato deportato in catene nelle colonie africane e d’oltreoceano…
Il ruolo economico tradizionale
Costretti in schiavitù, deportati, marchiati a fuoco e mutilati, incatenati, massacrati, giustiziati, sterilizzati, privati dei propri figli, i rom sono però sopravvissuti alla «civiltà» europea fondendosi con il resto delle classi popolari o arroccandosi sempre più in attività economiche secondarie, continuamente erose dallo sviluppo capitalistico. Nel corso degli ultimi secoli la borghesia ha infatti continuamente ridimensionato le nicchie economiche nelle quali i rom si sono storicamente concentrati, volenti o nolenti, e dove si è forgiata la loro stessa “coscienza identitaria” o cultura. Nicchie economiche costituite da attività artigianali e commerciali tali da non permettere loro la stanzialità nell’ambito di una economia preindustriale. Ed ecco infatti che le cronache ed i registri dell’Europa moderna descrivono i rom come sensali di cavalli, calderai, fabbri, maniscalchi, musicisti, commercianti, mercenari, cercatori d’oro, perfino pescatori. Non è un caso che i rom dell’Europa orientale, dove più tardi è stato soppiantato il feudalesimo, tendano ancor oggi a definirsi per «ergonomi», ovvero con il nome delle professioni in cui si erano specializzati i diversi gruppi. Così i rom kalderaśa (dal rumeno caldera, “caldaia”) erano dediti alla lavorazioni dei metalli e alla fabbricazione di pentole, i rom lautari (dall’arabo aloud, “legno”, da cui deriva anche l’italiano liuto) erano musicisti di professione, i rom ursari ammaestravano gli orsi, i rom lovara (dall’ungherese lò, “cavallo”) erano allevatori e commercianti di cavalli come anche i rom graśtari (dal romaní graśt che significa appunto cavallo), i rom keramidara (dal rumeno keramida, ceramica) fabbricavano mattoni e ceramiche, i rom setara e i ćhurara (dal rumeno ciura, “setaccio”) producevano setacci, i kolara vendevano tappeti, gli zlatari o aurari erano orafi, gli argintari argentieri, i costarari lattonieri, i kurpaći ramai, i salahori costruttori di carri, gli ungaritza armaioli e fabbri10. Tutti mestieri che lo sviluppo capitalistico ha trasformato, estinto o consegnato nelle mani della borghesia, costringendo le popolazioni rom alla sottoproletarizzazione. Così, come per i contadini europei scacciati dalle campagne e ridotti al vagabondaggio, gli stati dell’Europa moderna hanno imposto ai rom di scegliere tra la schiavitù salariata, la marginalizzazione sociale e lo sterminio. In altre parole, il capitalismo, distruggendone le tradizionali basi di esistenza, ha chiuso loro la strada del passato ed ha aperto, invece, la strada al declino e all’etnocidio.
Fu proprio la loro specializzazione economica, quindi, a spingerli dentro una spirale di marginalizzazione che ha prodotto le attuali, misere condizioni di cui soffrono oggi molte genti rom. Prima dell’avvento della società urbano-industriale queste specializzazioni erano invece così riconosciute e apprezzate da venire, in dati casi e contesti, ricercate e difese dalle autorità. È questo, ad esempio, il caso dei fabbri e degli armaioli. Nell’Italia meridionale l’abilità rom nella lavorazione dei metalli “era riconosciuta dovunque, al punto che il nome Zingaro veniva attribuito a chiunque lavorasse il ferro”11. Per quanto riguarda i rom calabresi,
“la loro abilità era particolarmente apprezzata e il loro arrivo atteso per la riparazione di attrezzi agricoli e per la fornitura di strumenti da cucina (spedi, palette, tripodi, graticole). [..] In Basilicata, fino a tempi abbastanza recenti, c’era l’abitudine di servirsi dello zingaro del villaggio per le riparazioni e della zingara di casa per i servizi domestici. Integravano le risorse economiche con il commercio degli equini (in particolare asini e muli), la tosatura delle pecore e le raccolte stagionali (olive, agrumi)”12.
A Costantinopoli, invece, i rom costituivano la maggioranza dell’importante gilda dei mercanti di cavalli.
Nell’economia preindustriale i rom erano dediti pertanto ad attività artigianali e commerciali non solo apprezzate ma soprattutto essenziali per l’epoca. Del tutto impreparati di fronte alle crisi congiunturali, al rafforzamento del sistema corporativo delle manifatture cittadine e alla progressiva complessità dei processi produttivi, i rom colmavano tuttavia le lacune e le inefficienze distributive dell’artigianato autoctono. Questo grazie alla mobilità sul territorio, alla capacità di adattamento, alla flessibilità professionale che permetteva allo stesso nucleo famigliare di differenziare i propri mezzi di sussistenza o di rinnovarli continuamente. Ma quello che è più importante sottolineare è come per molti secoli la non stanzialità delle popolazioni rom sia stata legata ad un ruolo economico specifico e non al retaggio di una immutabile tara culturale. Prova ne è che al loro arrivo in Europa i rom si sono concentrati in nicchie lavorative non solo preesistenti ma, soprattutto, già occupate da popolazioni autoctone. I Tinkers nelle isole britanniche13, gli Jenische in Germania e Svizzera, le compagnie erranti dei Gueux, degli Argotiers o dei Mercelots in Francia, i Karrner nel Sudtirolo ed altri ancora sono tutte popolazioni che pur non essendo “alloctone” hanno condiviso, talvolta fondendosi, il medesimo campo economico, e i correlati costumi sociali, dei gruppi rom14.
Fu proprio questa specializzazione economica a garantire alle popolazioni rom l’ostilità delle corporazioni cittadine e della nascente borghesia15, piuttosto che l’innegabile e ricorrente ricorso alla mendicità, alla divinazione come anche alla truffa e al furto. Attività, queste, che nonostante la comprensibile condanna morale che le contraddistingue, sono comunque da considerarsi nell’ambito dell’economia preindustriale come complementari rispetto ai più apprezzati, ma spesso discontinui, mestieri “tradizionali”. L’ostilità delle classi borghesi ai rom, ritenuti ostinatamente restii od incapaci di adattarsi al disciplinamento della nascente società del lavoro salariato, è ben descritta in questa lettera di Gustave Flaubert:
“Sono andato in visibilio, otto giorni fa, davanti a un accampamento di Zingari, che si erano stabiliti a Rouen. Ecco la terza volta che ci vado, e sempre con lo stesso piacere. Ciò che stupisce è che suscitano l’odio dei borghesi, sebbene siano inoffensivi come pecore. Mi sono fatto guardare male dalla folla, dando loro qualche soldo, e ho sentito delle belle parole alla Prudhomme. Quest’odio deriva da qualche cosa di molto profondo e molto complesso. Lo si ritrova in tutta la gente d’ordine. È l’odio che si porta al beduino, all’eretico, al filosofo, al solitario, al poeta, e c’è della paura in questo odio”16.
A ben vedere, in questa ostilità della nascente borghesia si può rintracciare anche la chiave di lettura della benevolenza e dell’accoglienza concessa invece ai rom dall’aristocrazia europea, come testimoniano molte opere e cronache dell’epoca. Una sorta di alleanza di classi sociali differenti ma egualmente destinate ad essere spazzate via dallo sviluppo della società capitalistica, che le popolazioni rom ricercavano manifestamente per porsi al riparo “dalle vessazioni del potere centrale o dalle reazioni del popolino”17.
I rom come “popolo-classe”?
Alla luce di queste considerazioni come è quindi possibile spiegare la specificità storica delle popolazioni rom? Come è stato possibile conservare attraverso i secoli, e a dispetto di una dispersione territoriale impressionante, quel nucleo di codici morali, tradizioni orali, costumi, strutture sociali ed elementi linguistici che viene identificata come cultura romaní? La chiave di volta di questa analisi può essere, forse, la categoria del popolo-classe, così come è stata teorizzata da Abram Léon nel suo notevole studio Il marxismo e la questione ebraica. Provando a ricostruire secondo i criteri del materialismo storico la storia del popolo ebraico, Léon giunge ad affermare:
“Storicamente gli Ebrei costituiscono soprattutto un gruppo sociale con una funzione economica specifica, una classe, o più precisamente un popolo-classe. Il concetto di classe non contraddice affatto il concetto di popolo. È proprio per il fatto che gli Ebrei si sono preservati come classe sociale che hanno parallelamente conservato alcuni dei loro tratti religiosi, etnici e linguistici. L’identificazione di una classe con un popolo (o con una razza) è lungi dall’essere eccezionale in società precapitalistiche. A quei tempi le classi sociali si distinguevano spesso per il loro carattere più o meno nazionale o razziale. […] Kautsky sostiene la stessa posizione: classi distinte possono assumere il carattere di razze distinte. D’altro canto, l’incontro di molte razze, ciascuna delle quali dedita ad una propria e specifica attività economica, può condurre all’assunzione di professioni o posizioni sociali nell’ambito della stessa comunità: la razza diventa classe. Evidentemente esiste una interdipendenza continua fra caratteristiche razziali o nazionali e caratteristiche di classe”18.
Analogamente a quanto accaduto agli ebrei, la specificità dei rom può essere spiegata solamente attraverso la loro particolare funzione economica nell’ambito dell’economia preindustriale. Un accostamento tra ebrei e rom potrebbe sorprendere. Ma, a ben vedere, sono diverse le analogie tra questi due popoli che emergono chiaramente, anche dopo una veloce e superficiale comparazione della loro storia moderna. L’esistenza di elementi nazionali unificanti, quali la lingua o l’apparato di tradizioni e codici morali comuni, associati alla dispersione internazionale e alla specializzazione comunitaria in distinti ruoli economici sono infatti gli elementi quasi peculiari di queste popolazioni. Non è affatto un caso che le tradizionali accuse infamanti scagliate contro questi popoli siano state tanto simili: antropofagi19, infanticidi o rapitori di bambini, untori, erranti per punizione divina, addirittura responsabili o corresponsabili di deicidio. Non è un caso che si giunse perfino ad ipotizzare che gli “zingari” fossero in realtà dei cripto-ebrei rifugiatisi nelle selve per sfuggire alle persecuzioni cristiane20. Non è, infine, un caso che in quegli stessi campi, nazisti e non, in cui si svolse la Shoah si consumò anche il Porrajmos, lo sterminio di almeno mezzo milione di rom tra il 1940 e il 1945. D’altronde l’esistenza di un parallelismo tra i due popoli, sebbene non sia da ridurre a mera schematizzazione, risulta evidente dalle stesse parole di Lèon:
“Gli Ebrei, estromessi dalle posizioni economiche che avevano nel regime feudale [commercio mercantile ed usura], non potevano integrarsi [come popolo-classe] in una economia capitalista in declino. […] Si diffonde dappertutto il selvaggio anti-semitismo delle classi medie che vengono schiacciate dal peso delle contraddizioni del capitalismo. Il grande capitale sfrutta questo antisemitismo elementare della piccola borghesia allo scopo di mobilitare le masse attorno alla bandiera del razzismo. Gli ebrei vengono strangolati fra le spirali di due sistemi: il feudalesimo ed il capitalismo, quest’ultimo nutrito con il marciume del primo”21.
Esattamente come per le popolazioni rom, potremmo aggiungere. Comunque, nonostante questi elementi comuni, l’avvento della società industriale, e la correlata esplosione demografica, ebbero degli effetti profondamente differenti tra queste due popolazioni. Mentre gli ebrei, già ampiamente partecipi all’economia mercantile e finanziaria europea e già suddivisi al loro interno secondo linee di classe, affrontarono una forte polarizzazione sociale, tale da creare a livello internazionale una borghesia ed un proletariato ebreo ben distinti, questo non avvenne invece per le popolazioni rom. A causa del proprio ruolo economico, circoscritto come abbiamo visto ad attività artigianali e commerciali specifiche, i rom si ritrovarono esclusi da qualsiasi forma di accumulazione primitiva di capitale tale da permettere loro la formazione di una propria borghesia, come anche di una propria coscienza nazionale. Una certa parte di queste popolazioni si fuse allora con il resto delle classi lavoratrici europee, nascondendo o smarrendo le proprie origini “etniche”. Questo avvenne soprattutto nei paesi dell’Europa occidentale dove più velocemente si è avuto uno sviluppo dell’industrializzazione e dell’organizzazione statuale moderna: non a caso la maggioranza dei rom di quest’area, aveva intrapreso l’abbandono del nomadismo già prima della Seconda guerra mondiale. Significativamente, per quanto riguarda la Germania, lo stesso psichiatra e neurologo tedesco Robert Ritter, direttore negli anni ’30 della Erbwissenschaftliche Forschungstelle (Centro di ricerca scientifica sull’ereditarietà) dell’Ufficio di Sanità del Reich di Berlino, dopo aver esaminato un campione di 20.000 rom tedeschi e ricostruito i loro alberi genealogici, arrivò ad affermare: “non esistono più Zingari puri”22. Ancor più significativamente tra coloro che vennero internati nei campi di concentramento a causa della classificazione di semizingaro pare vi siano stati centinaia di militari e ufficiali dell’esercito tedesco23, lavoratori integrati e perfino membri del Partito nazionalsocialista24. La rilevanza della componente ritenuta «socialmente integrata» (sozial angepassat lebende zigeunerische Personen), nonostante la loro categorizzazione prettamente razziale, è testimoniata anche dal tentativo, alla fine del 1942, di esentare dalla deportazione quegli Zigeunermischlinge “legalmente coniugati con individui di sangue tedesco”, “socialmente integrati con lavoro regolare e residenza stabile”, impegnati “sotto le armi, o congedati per ferite di guerra o con decorazioni” o impiegati in “lavori importanti per lo sforzo bellico”25.
È difficile quantificare, o solamente immaginare, le dimensioni di questo processo d’immersione di parte della popolazione rom nel resto delle classi popolari europee. Questa difficoltà nasce soprattutto dal fatto che nella maggior parte dei casi l’abbandono dei mestieri tradizionali e del correlato nomadismo, la piena sedentarizzazione, l’integrazione lavorativa e scolastica hanno comportato, e comportano tuttora, inevitabilmente, la perdita della lingua romanes, l’abbandono dei costumi tradizionali e lo smarrimento volontario e coatto delle stesse radici d’appartenenza rom. Il risultato è, infatti, una sorta d’illusione ottica che impone una sovra rappresentazione di quella componente della popolazione rom non ancora sufficientemente “integrata” nella società del lavoro salariato e costrette ad arroccarsi in nicchie socioeconomiche sempre più dominate dal degrado e dalla marginalità. Anzi, sulla scorta di un presunto attaccamento a valori e costumi tradizionali, si riconosce solamente a questa componente la patente di vera ziganità.
I rom come popolo-underclass
Come abbiamo visto, a differenza della popolazione ebrea, i rom sono stati sospinti dallo sviluppo dell’economia capitalistica solamente in parte verso un processo, generalmente non riconosciuto, di proletarizzazione. Per la parte restante di loro si è invece delineata una impietosa spirale di marginalizzazione, una vera e propria ghettizzazione sociale ed economica che li ha ridotti ad essere definiti non più “figli del vento”, ma, significativamente, “popolo delle discariche”. Questo processo è stato indubbiamente innescato da fattori oggettivi come le trasformazioni della struttura economica o l’articolarsi delle conseguenti costrizioni e discriminazioni istituzionali (la preclusione a determinate professioni, le persecuzioni razziali, la ghettizzazione urbanistica, la culturalizzazione delle politiche rom, l’istituzione dei campi nomadi, ecc.)26. Ma anche fattori più soggettivi, seppure secondari e sempre e comunque socialmente determinati, hanno svolto un loro ruolo. L’adesione a modelli devianti, generalmente tali anche per la stessa tradizione rom, la diffusione di comportamenti “asociali”, l’adesione ad una microcriminalità sempre più organica alla grande criminalità, sono infatti la reazione “consapevole” alle traumatiche trasformazioni imposte dall’esterno. Al contempo, però, questa reazione, questo degrado sociale e morale non sono da considerarsi come una peculiarità delle popolazioni rom, bensì come una caratteristica strutturale di quella fascia di popolazione generalmente definita “sottoproletariato”, al di là di ogni elemento culturale, razziale o etnico. Come giustamente osservava Carlo Cuomo:
“sì, è vero, molti rom vivono di espedienti. I tassi di natalità, morbilità, mortalità, analfabetismo e disoccupazione […], la segregazione in mediocri campi isolati, i brutali e ripetuti sgomberi notturni, l’apartheid, il nostro sguardo di diffidenza/disprezzo/paura che accompagna, per tutta la vita, il bambino, l’adolescente, l’adulto rom partoriscono criminalità. Perché, cosa ci aspettavamo che producessero? Perché, cosa producono nelle inner-cities americane, al quartiere Zen di Palermo, al S. Paolo di Bari, allo Stadera di Milano?” 27.
L’utilizzo della categoria marxiana del sottoproletariato in questo contesto potrebbe far sorgere alcune perplessità, ma a suggerire il suo utilizzo nei confronti della questione rom sembra essere lo stesso Marx che, in un colorito passaggio de Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte, così descrive la categoria sociale del Lumpenproletariat:
“…vagabondi, soldati destituiti, detenuti liberati, forzati evasi, truffatori, saltimbanchi, lazzaroni, borsaioli, prestigiatori, facchini, ruffiani, cantastorie, cenciaioli, arrotini, calderari ambulanti, accattoni, insomma la massa indecisa, errante e fluttuante che i francesi chiamano la Bohème”28.
In questo passaggio il rimando alle popolazioni rom non è dato tanto dal fatto che tra le varie categorie elencate ce ne siano diverse generalmente associate ad essi – evidente, d’altra parte, nel caso dei “calderari ambulanti” – quanto dal fatto che per riassumerle tutte in un’unica espressione l’autore abbia usato il termine la Bohème. Ovvero il termine con cui per lungo tempo si sono indicati i rom, ritenendo, a torto, che provenissero dalla Boemia29. La sovrapposizione dei due termini, che ricorda peraltro l’intercambiabilità tra le espressioni zingaro e schiavo nei principati rumeni dove la schiavitù dei rom venne abolita definitivamente solamente nel 185630, è emblematica e in gran parte preconizzatrice. Nel corso del novecento, infatti, l’epiteto “zingaro” ha finito con l’aderire così strettamente al concetto di sottoproletario da sovrapporvisi. I rom da “popolo-classe” dedito ad attività artigianali e commerciali itineranti, sono stati trasformati dalla società industriale in un popolo-underclass, in un “popolo sottoproletario” per definizione.
La marginalizzazione, la ghettizzazione, la degradazione imposte dal sistema tardo-capitalistico hanno così finito col convergere sempre più con i processi di etnicizzazione della questione rom, confermando l’utilità dello strumento d’analisi proposto da Léon. Per queste popolazioni il grado d’interdipendenza raggiunto tra l’identità etnica e la funzione socio-economica sembra infatti rinnovarsi e, se possibile, amplificarsi, con la crescente esclusione dalle tradizionali mansioni economiche. Come ha lucidamente sottolineato vent’anni fa Claudio Marta:
“Un dato significativo nella storia dei rapporti tra società europea e Zingari è la progressiva marginalizzazione da questi subita con l’avvento della società urbano-industriale che ha messo irrimediabilmente in crisi le attività economiche tradizionali degli Zingari e ha confinato questa minoranza nelle periferie delle grandi città, dove sempre più spesso ingrossa le fasce del sottoproletariato. Questa marginalità condiziona il processo di integrazione degli Zingari nella nostra società in quanto, da un lato, rafforza la discriminazione, e dall’altro influisce sulla stessa identità etnica degli Zingari”31.
Diritto al nomadismo o obbligo al nomadismo?
L’importanza del legame tra marginalità e “identità etnica” è confermato peraltro dal continuo processo di etnicizzazione della questione rom. Un processo, è bene sottolinearlo, impulsato dall’alto, ovvero dalle istituzioni statuali e dagli ambienti “colti” organicamente schierati alla difesa della divisione in classi della società32. La categorizzazione etnologica, infatti, coerentemente alla sua logica coloniale e razzista33, non solo perpetua un’immagine stereotipata e inattuale dello “zingaro” ma si rivela soprattutto come potente strumento d’isolamento ed esclusione. La ghettizzazione dei rom nell’Europa odierna è stata pertanto preparata dall’enfatizzazione e dalla “difesa” istituzionale di presunte specificità etnico-culturali. Indicativo a tal proposito è, ad esempio, l’incipit della prima delle leggi regionali italiane sulla “tutela della cultura dei Rom” che così recita:
“La Regione del Veneto intende tutelare con forme apposite di intervento la cultura dei Rom e dei Sinti, ivi compreso il diritto al nomadismo e alla sosta all’interno del territorio regionale”.34
Al Veneto seguirono abbastanza rapidamente il Lazio (1985), la Provincia autonoma di Trento (1985), la Sardegna (1988), il Friuli Venezia Giulia (1988), l’Emilia Romagna (1988), la Toscana (1989), la Lombardia (1989), la Liguria (1992), il Piemonte (1993) e le Marche (1994). Definiti talvolta come “leggi fotocopia”, questi corpi normativi, nonostante alcuni aggiustamenti, hanno mantenuto un importante elemento comune: il riconoscimento del nomadismo come tratto culturale caratterizzante delle popolazioni rom. Secondo questa impostazione la difesa della cultura rom, generalmente intesa in senso folklorico, ovvero statico, non poteva prescindere dalla difesa del “diritto al nomadismo”. In tali leggi il carattere fondante dell’identità rom non viene quindi ricondotto alla presenza di una storia accomunabile, né all’elemento linguistico (in Italia il romanes ancora oggi non è riconosciuto come lingua minoritaria), e nemmeno all’insieme di elementi culturali comuni. Per le istituzioni italiane l’etnicismo rom viene invece fondato sull’atavica e insopprimibile mobilità di questo popolo! Non importa se, come afferma un rapporto del Ministero degli Interni,
“non più del 2-3% delle famiglie zingare viaggia ancora in carovana e ancor più bassa è la percentuale di chi usa ancora la tenda”. “Lo «spirito del viaggio» è tuttavia vivo nella popolazione zingara”35.
L’idea che le popolazioni rom siano intrinsecamente non stanziali per cultura e per natura non è d’altronde una novità. Durante gli anni ‘30 il già citato Robert Ritter, direttore della Erbwissenschaftliche Forschungstelle (Centro di ricerca scientifica sull’ereditarietà) dell’Ufficio di Sanità del Reich di Berlino, sostenne che parte della specificità di questa popolazione potesse risiedere nel presunto gene del Wandertrieb, letteralmente “l’istinto al nomadismo”36. Per Ritter:
“Occorre riconoscere chiaramente che abbiamo a che fare con nomadi primitivi di una razza straniera che né l’istruzione, né le pene possono trasformare in cittadini sedentari”37.
Questa teoria della determinazione genetica al nomadismo si completava e, al tempo stesso, traeva sostegno da decenni di studi di criminologia e di biologia della criminalità. L’obbiettivo di fondo degli stessi studi di Ritter, infatti, risiedeva proprio nella riprovazione scientifica dell’esistenza del “gene della criminalità”, vera chiave di volta dell’approccio “scientifico-poliziesco” che l’Europa Occidentale sviluppò tra Ottocento e Novecento nei confronti degli elementi popolari restii all’omologazione nazionale e borghese. Già nel 1876 l’italiano Cesare Lombroso, catalogando gli zingari come “criminali atavici”, aveva sostenuto come:
“vi sono veramente delle tribù e delle razze date più o meno al delitto… Gli Zingari sono un’intera razza di delinquenti e ne riproducono le passioni e i vizi, l’oziosità e l’ignavia, l’ira impetuosa, la vanità, l’amore dell’orgia, la ferocia. Assassinano facilmente a scopo di lucro, le donne sono più abili al furto e vi addestrano i loro bambini”38.
Non dissimile il giudizio di qualche decennio successivo (1906) del criminologo austriaco Hans Gross:
“Onore, patria, famiglia, stato, passato e avvenire, tradizioni e speranze, tutte le idee che hanno condotto ciascun popolo incivilito ai più alti destini, sono affatto sconosciute allo zingaro; in cambio noi non troviamo in lui che amore all’ozio, voracità da animale, amor sensuale e un po’ di vanità”39.
Per questi autori, per questi fondatori della criminologia le popolazioni rom sarebbero quindi criminali e nomadi per natura, dominate da istinti primitivi, animaleschi, inevitabilmente delittuosi. Un’altra eloquente sintesi di questa presunta duplice natura (nomadica e criminale) delle popolazioni rom si ebbe nell’opera di un altro autore italiano, il giudice Alfredo Capobianco. Questi, infatti, nel 1914 descrisse significativamente gli zingari come “gente vagabonda in lotta con le leggi” da rigettare senza scrupoli alle frontiere “sia come immigrati non desiderati, sia come pericolosi all’ordine pubblico”, oltre che
“avanzo di antiche popolazioni, che attraverso i secoli resiste ancora con tutti i suoi vizi e tutte le forme ataviche. E nella lotta continua degli uomini e delle cose hanno saputo conservare quasi puro il loro sangue originario”40.
Non è difficile riconoscere in queste righe le fondamenta ideologiche di opere a noi contemporanee41. La “modernità” di Capobianco è peraltro apprezzabile soprattutto nelle sue proposte securitarie per una migliore gestione del “problema” rom. Per il giudice napoletano, infatti, “preme creare norme speciali di esclusione contro gli zingari, magari concordandole con gli Stati vicini”, oltre che schedare “in apposito registro relativo ai soli zingari” a prescindere dalla commissione di reati ed utilizzando adeguati “rilievi antropometrici”! Come non collegare a queste indicazioni di inizio Novecento la recente decisione del governo italiano di realizzare attraverso la raccolta delle impronte digitali, minori inclusi, un censimento dell’intera popolazione rom presente sul suolo italiano? Naturalmente, si è affrettato a precisare il ministro dell’Interno Maroni, non si tratta di “una schedatura etnica” ma di “offrire ai nomadi una ulteriore garanzia per la tutela dei loro diritti”.
A ben vedere, quindi, l’antropologia criminale e l’eugenismo non furono solamente le premesse “scientifiche” al baró porrajmós, il «grande divoramento», come è stato definito lo sterminio di mezzo milione di rom durante la seconda guerra mondiale, ma furono anche le basi scientifiche di tutta la moderna “politique tsigane” europea42. La categoria di nomadismo venne impiegata come espediente riassuntivo, come contenitore dove comprendere i comportamenti sociali maggiormente recalcitranti di fronte all’ordine politico ed economico dominante. La vita dello zingaro, si diceva, non è forse la sconfessione di ogni patriottismo? Non è forse disprezzo per l’ordine costituito? Non è forse elogio dell’ozio, vero attentato alla logica produttiva, e quindi più intima, del sistema capitalistico? Non è forse dispregio per la proprietà privata borghese? Insomma, non è il nomade, come diceva Kant, un criminale in potenza43?
Nel dopoguerra, con l’eclissarsi, ma non con l’abbandono definitivo, dell’eugenismo e del razzismo biologico, la categoria di nomadismo ha riconquistato la sua centralità nel dibattito scientifico e pubblico sorto attorno alle popolazioni rom. Così, al determinismo genetico di Lombroso si è sostituito un determinismo culturale dai tratti apparentemente più moderati e meno esplicitamente razzisti. Così, al razzismo ariano-centrico di Ritter è succeduto l’odierno razzismo democratico, maggiormente funzionale alle necessità economiche e politiche della nuova “Fortezza Europa”.
I campi, amplificatori istituzionali della marginalità
La conseguenza più diretta del determinismo culturale e della centralità che grazie ad esso ha assunto la categoria del nomadismo è stata, senza ombra di dubbio, l’istituzionalizzazione dei campi nomadi. Tale politica è stata inaugurata in Italia dalle già citate leggi regionali44 che, col pretesto di salvaguardare “la cultura nomade dei Rom”, ha innescato un sistema di vera e propria segregazione razziale che ha nei campi il suo strumento principale. Il processo di inurbamento, o meglio, di stabilizzazione nelle periferie cittadine al fianco delle fasce più marginali del resto della popolazione – processo intrapreso dai rom dell’Europa Occidentale in risposta alle tumultuose trasformazioni socio-economiche degli anni del dopoguerra – è stato interpretato e mascherato dalle autorità statuali come una inaccettabile “degenerazione” culturale. Questa logica istituzionale è a tal punto radicata d’aver permesso al capo della delegazione italiana alla 54ª sessione del “Comitato delle Nazioni Unite per l’eliminazione della discriminazione razziale”, di spiegare come i rom, essendo nomadi per natura, preferiscano stare nei campi45. Di fatto, attraverso la politica dei campi, si è negato ai rom ogni vero processo di stabilizzazione, condannandoli d’ufficio alla marginalità più estrema e ad un livello di degradazione sociale mai conosciuto prima46.
Osservandola più analiticamente ci si rende conto di come la pratica di gestione del “problema nomadi” si sia sviluppata in Italia in due fasi. In un primo momento la popolazione dei campi è rimasta limitata a poche decine di migliaia di rom, perlopiù di provenienza balcanica. Questa popolazione, sebbene generalmente priva della cittadinanza italiana, era presente in Italia già da numerosi anni, in alcuni casi perfino da alcune generazioni. Per questo gruppo di persone i campi hanno segnato la conclusione definitiva della vita nomade e al contempo una sempre più marcata separazione dal resto della società italiana. Come riassunto dall’European Roma Rights Center,
“il risultato è che molti Rom sono stati effettivamente forzati a vivere la romantica e repressiva immagine degli italiani; le autorità italiane sostengono che il loro desiderio di vivere in vere case non è autentico e li relegano in «campi nomadi». […] La smisurata sensibilità antropologica delle autorità italiane funziona solo in negativo, per eliminare la possibilità di considerare i Rom come parte integrante della società italiana”47.
L’esiguità del fenomeno e il contesto sociale e politico, hanno fatto sì che in questa prima fase non si sviluppasse nulla di simile al virulento dibattito sull’“emergenza rom” a cui è stata costretta l’opinione pubblica italiana negli ultimi anni. La creazione delle “aree di sosta per nomadi”, che è precedente all’istituzione attraverso le leggi regionali dei “campi nomadi”, è stata anzi vissuta in un primo tempo come un importante passaggio progressivo verso un reale processo d’integrazione, soprattutto sul piano scolastico. Il contributo offerto in questa fase dall’Opera Nomadi e dal vivace dibattito svolto all’interno della rivista “Lacio Drom” ne sono un evidente esempio. Come sottolineato da Luca Bravi e Nando Sigona:
“L’Opera Nomadi [..] svolse un ruolo di primo piano nella promozione sociale di rom e sinti e nella nascita delle prime aree attrezzate per la sosta delle carovane. Erano gli anni dei divieti di sosta per i nomadi [..]. Le carovane di rom e sinti itineranti, soprattutto nel Nord Italia, erano costrette a muoversi continuamente. La politica di espulsione, adottata da quasi tutte le città settentrionali, rendeva la vita delle famiglie precaria e impediva ai bambini di poter frequentare in modo continuativo la scuola. Fu proprio quest’ultimo aspetto a spingere un gruppo di volontari a sperimentare, dapprima a Bolzano e a Milano, le classi speciali “Lacio Drom”, che in poco tempo diventarono oltre sessanta” 48.
Nonostante ciò, è proprio in questo periodo che si pongono le fondamenta dell’attuale sistema segregazionistico dei campi. Soprattutto, è proprio in questo periodo che il processo migratorio, in crescita ed in trasformazione, inizia ad essere saldato alla questione rom. Emblematica, in tal senso, è l’istituzione degli uffici comunali per “Stranieri e nomadi” che relegano definitivamente le politiche locali riguardanti i rom, con cittadinanza italiana o meno, nella sfera di competenza delle politiche sull’immigrazione. Sarà proprio questa saldatura tra le categorie di nomade – zingaro – profugo – immigrato la chiave principale per aprire un nuovo stadio della politica dei campi.
A partire dal 1989, infatti, con la caduta dei sistemi socio-economici dei paesi dell’Est Europa, ha inizio una seconda fase. La disgregazione violenta dell’ex-Jugoslavia, il collasso economico e l’azzeramento delle politiche sociali in tutti i paesi del cosiddetto “socialismo reale”, il devastante impatto delle politiche neoliberiste, l’emergere di un violento razzismo anti-rom e gli effetti di vere e proprie pulizie etniche come quella in corso nel Kosovo “liberato”49, hanno costretto le popolazioni rom dell’Europa Orientale all’emigrazione. Questi sconvolgimenti traumatici sono stati vissuti dai rom, è bene sottolinearlo, congiuntamente ai loro connazionali rumeni, bulgari, cechi, slovacchi, ungheresi, serbi, sloveni, croati, bosniaci, macedoni, montenegrini ed albanesi. Ed esattamente come i loro connazionali i rom hanno tentato di risollevare le proprie condizioni di vita emigrando verso il ricco Occidente. Non è quindi un caso che la cosiddetta “emergenza nomadi” sia emersa in Italia solamente dopo l’immigrazione di 16.000 rom jugoslavi sfuggiti dalla guerra civile e di 50.000 rom rumeni che, al pari di centinaia di migliaia di loro concittadini, sono stati costretti ad abbandonare il proprio paese in cerca di migliori condizioni di vita e di lavoro, raddoppiando, di fatto, la presenza rom in Italia50. L’articolazione delle nuove politiche antizigane è pertanto strettamente correlata ai nuovi assetti geopolitici, alla ristrutturazione del mercato internazionale del lavoro e, soprattutto, al processo delle migrazioni internazionali avvenuti negli ultimi decenni51. La questione rom non può quindi essere considerata od analizzata come una questione a sé stante ma è parte integrante del più vasto processo delle migrazioni internazionali. Di questo le istituzioni sono pienamente coscienti. Le politiche anti-zigane sono inevitabilmente politiche anti-immigrati. Così come le dichiarazioni anti-zigane sono intrinsecamente ed emblematicamente dichiarazioni anti-immigrati. È forse un caso che la “rivoluzione” razziale e identitaria invocata dal vice-sindaco di Treviso Gentilini, si scagli indistintamente contro immigrati senza permesso e nomadi, zingari ed islamici? 52 o che si sia proposto di rinchiudere i rom sgomberati dai campi nomadi nei centri di permanenza temporanea, esattamente come oggi vi si deportano i braccianti immigrati di Rosarno?53
Al contempo attraverso l’amplificazione e la distorsione della questione rom lo stato ha potuto giustificare ulteriormente l’attacco in atto contro tutta la marginalità sociale. La campagna contro la popolazione rom, ovvero contro il popolo-underclass per definizione, s’inserisce infatti in un quadro di misure che mirano ad attaccare ed isolare tutte quelle componenti del sottoproletariato ritenute non più inseribili nel sistema del lavoro salariato. Le ordinanze contro i lavavetri, la richiesta di redditi “adeguati” ad ottenere la residenza, le norme anti-accattonaggio, ne sono solamente un rapido assaggio. Tutto questo, naturalmente, in previsione di un inevitabile allargamento sociale della marginalità legato all’attuale crisi economica. In quest’ottica il dibattito sui campi nomadi si rivela così in tutta la sua pretestuosità. Li si descrive come inaccettabili esempi ed amplificatori del degrado urbanistico, sociale, morale. Ed è così, è inutile negarlo. Ma allo stesso tempo si tace su come siano state proprio le istituzioni a realizzarli, a produrre l’illegalità che li contraddistingue, a generare la marginalità che li domina. Nella realtà, infatti, i campi nomadi non sono altro che degli strumenti istituzionali atti a segregare le popolazioni rom immigrate ed a negare loro ogni forma di sedentarizzazione. Nella realtà, i campi eternizzano lo stato di marginalità già esistente delle popolazioni rom e ne amplificano la portata, impedendo di fatto ogni possibile processo di riscatto sociale. La mancanza di strutture igieniche, il mancato collegamento alla rete idrica e alla rete elettrica, l’ubicazione periferica e malsana del campo stesso, gli abusi delle forze dell’ordine, la distruzione periodica delle roulottes e delle baracche, la sottomissione ai regolamenti carcerari dei campi non fanno altro che negare ai rom ogni possibile processo di stabilizzazione abitativa, lavorativa, scolastica. “Che i campi nomadi si spostino di paese in paese ogni 7-15 giorni” ha coerentemente invocato l’ex ministro per la Giustizia Mastella54. Altro che progetti d’inserimento scolastico! Altro che programmi di stabilizzazione abitativa! Altro che percorsi professionali!
Violenza istituzionale e violenza popolare
Per comprendere come si possano comprimere a tal punto le condizioni esistenziali delle popolazioni relegate nei campi, non è sufficiente chiamare in causa dei presunti “fattori culturali”. Per comprendere in che modo ai margini di una città come Roma si sia potuto sviluppare un “ghetto di lamiera e di carta” quale il Casilino 900 (ex Casilino 700) è necessario riconoscere la violenza come un elemento centrale, imprescindibile nella gestione della politica dei campi. Innanzitutto, la violenza istituzionale. Sono infatti le autorità, sia a livello nazionale che locale, le principali responsabili delle regolarizzazioni negate, dei pacchetti sicurezza, delle classi separate, delle schedature etniche, delle ordinanze securitarie. Così come sono sempre le autorità a produrre tutta una serie di discriminazioni ed inadempienze di carattere amministrativo quali la mancata certificazione della continuità abitativa, il mancato rilascio di documenti, il rifiuto del riconoscimento dei matrimoni tradizionali e dei conseguenti legami familiari. Si tratta di discriminazioni ed inadempienze solo apparentemente secondarie, poiché in molti casi negano dei requisiti essenziali per l’accesso a servizi quali cure mediche, ricongiungimenti familiari, cure parentali, etc55. La mancata concessione del numero civico, ad esempio, oltre che intralciare la fruizione di numerosi servizi pubblici, impedisce l’ottenimento della residenza e, di conseguenza, ostacola un inserimento lavorativo in regola.
Tra tutte le forme della violenza istituzionale, la più evidente è costituita dagli sgomberi forzati dei campi. Queste operazioni delle forze dell’ordine, per la loro modalità e, soprattutto, la loro ciclicità, hanno il chiaro scopo d’impedire ogni possibile processo di stabilizzazione della popolazione dei campi. Non si tratta, come si vorrebbe far credere, di rimettere in viaggio delle popolazioni nomadi momentaneamente accampate nelle periferie cittadine. Si tratta di deportarle in altre località o, più semplicemente, ridurre alla disperazione e alla povertà più assoluta dei nuclei familiari che sono presenti da anni, se non da decenni, nei campi, oppure che vi sono giunti solamente di recente, in seguito alla disgregazione dell’Europa orientale. È necessario però sottolineare ancora una volta come questi ultimi avevano raggiunto nei loro paesi d’origine una condizione di stabilità abitativa, occupazionale e scolastica nemmeno confrontabile con la condizione che sono costretti a vivere nel “paese dei campi”, come è stata significativamente ribattezzata la penisola italiana. Lo scioglimento violento dei nuclei familiari, l’annullamento di ogni processo di stabilizzazione e dei seppur fragili rapporti intessuti con la popolazione locale, la distruzione periodica delle baracche e delle roulotte, la deportazione nei nuovi campi-carcere situati alla “periferia della periferia”, così come tutti gli altri abusi delle forze dell’ordine, non si riducono al mero allontanamento, dal sito o dalla città, di coloro che le occupavano, ma comprendono la loro disumanizzazione e brutalizzazione. Certo, al fondo della politica dei campi c’è anche una matrice eugenetica, come suggerito da Vitale56 (Vitale 2008b). Ma vi è, soprattutto, la lucida volontà delle istituzioni di negare ogni forma reale di “integrazione” e di condannare alla marginalità e al degrado la fascia più debole della popolazione immigrata. Come spiegare altrimenti il numero impressionante di sgomberi che in alcune città si susseguono quasi quotidianamente? E soprattutto come spiegare la loro ciclicità che fa sì che le stesse persone, gli stessi nuclei famigliari siano periodicamente gettati sulla strada e spinti ad occupare nuovi campi fino allo sgombero successivo? Tra il 2003 al 2007, nella sola Milano,
“si sono realizzati 350 interventi di sgombero di aeree dismesse e insediamenti abusivi, in buona parte riguardanti i rom. La politica del comune non prevede soluzioni abitative alternative e interventi di inclusione sociale, salvo qualche occasionale ospitalità temporanea per donne e bambini. Ebbene, qual è il bilancio? Semplice, l’unico risultato concreto sta nell’introduzione di una sorta di nomadismo coatto degli sgomberi per adulti e bambini, spesso con annessa perdita di faticosi inserimenti scolastici […]. Insomma, per i rom a Milano c’è soltanto la strada oppure i pochi “campi nomadi” regolari sul modello Triboniano, per una popolazione che per il 90% non pratica più il nomadismo da tempo”57 (Muhlbauer 2008, p. 107).
È a partire dalla seconda metà degli anni novanta che la “questione Rom” ha subito in Italia una vera e propria svolta, caratterizzata, come è stato scritto, da sgomberi e ruspe. Come è stato sottolineato da Tommaso Vitale, è proprio in questa la fase, in concomitanza con la svolta liberista e neoconservatrice delle politiche sociali, che viene varato un nuovo modello di politica anti-Rom. Si tratta di un modello emergenziale
“basato sul connubio perverso fra “campo nomadi & sgomberi ciclici”, in cui la scelta di costituire grandi campi segregati ha spinto verso la distruzione periodica delle condizioni materiali e sociali di stabilità. […] Anche solo osservando le politiche per le minoranze zigane, si può notare come in questo periodo il comune di Milano abbia smesso di investire in politiche sociali rivolte alle minoranze rom e sinta, ma non solo. Ha sospeso le politiche attive del lavoro per i gruppi zigani, dismessi i rapporti con le tre cooperative di lavoratori rom, ridotti gli spazi di promozione delle attività dei giostrai e dei circensi, chiusi i servizi di mediazione culturale nelle scuole e nei servizi socio-sanitari garantiti dalle professioniste romnì autorganizzate in cooperativa”58.
Congiuntamente quindi allo smantellamento del welfare, dell’insieme delle tutele pubbliche, di ogni decorosa politica d’integrazione, è stata varata una vera e propria crociata anti-Rom sia sul piano ideologico che su quello materiale. Alla popolazione italiana, resa sempre più socialmente insicura da elementi strutturali quali la crisi economica mondiale, la crisi occupazionale, il progressivo taglio delle politiche sociali, è stato offerto un capro espiatorio che rasenta la perfezione: il Rom immigrato. La “questione Rom”, pur riguardando un numero estremamente esiguo d’individui rispetto alla popolazione nazionale, è stata così ingigantita e plasmata fino a renderla una matrice credibile della crescente insicurezza sociale. Al contempo, rovesciando la realtà delle cose, il razzismo istituzionale e la violenza che ne consegue sono stati spesso descritti come una spiacevole contraddizione democratica scaturita dalla richiesta sociale, popolare, di sicurezza. Ad esempio, nel dibattito sorto nel parlamento europeo dopo il pogrom di Ponticelli, nel maggio del 2008, l’europarlamentare Borghezio ha dichiarato che la responsabilità della fermezza delle politiche italiane sia da ricercare, al fondo, nella stessa “sovrana” volontà popolare:
“è il popolo nel nostro paese a volere che il governo affronti senza buonismi, con realismo, l’emergenza criminalità, anche dei rom”59.
Secondo questa lettura le istituzioni, attraverso le proprie politiche securitarie, avrebbero addirittura il merito di prevenire proprio lo scatenamento di fenomeni di esasperazione fra la gente comune. Alla base delle schedature etniche e degli sgomberi, alla base dell’emanazione dei decreti legge sulla sicurezza non ci sarebbe quindi nient’altro che la lungimirante volontà politica di “gestire le tensioni sociali” ed evitare lo scatenarsi della violenza popolare contro i Rom e tutte le altre popolazioni immigrate. D’altronde, ha ribattuto La Russa, altro europarlamentare italiano,
“Non è colpa nostra se in Italia i rom si manifestano quasi esclusivamente per rapine, furti, rapimenti di minori, accattonaggio abusivo. Questa è l’immagine in Italia, nostro malgrado, dello zingaro, questa è l’immagine che viene data dai rom. Io sono ancora alla ricerca, qualcuno me lo segnali se lo conosce, di un rom in Italia con un lavoro regolare, legale e che paghi regolarmente le tasse. Non accusatemi di razzismo, siate seri, difendo solo gli europei onesti e anche i rom onesti. Ogni Stato deve avere come priorità la sicurezza dei propri cittadini, diversamente, i cittadini si sentono giustificati a farsi giustizia da sé”60.
Ed ecco sulla stessa linea, seppur con formule più sofisticate, l’ex-ministro Giuliano Ferrara:
“Riflettiamo. È in atto in Italia, con la complicità della destra e delle forze dell’ordine, una campagna di odio verso gli zingari per trasformare quel gruppo etnico nel capro espiatorio delle nostre insicurezze o per sfruttare politicamente la paura? Oppure si cerca, e questa ricerca è dei sindaci di sinistra come dei ministri di centrodestra, di governare le difficoltà sociali che derivano dalla convivenza con i rom? Insomma, se vogliamo essere onesti con noi stessi, dobbiamo riconoscere che quello che per i funzionari del bene è il morboso e xenofobico proposito discriminatorio del governo di Roma è solo un aspetto della realtà, che non è mai in sé biasimevole: il senso di insicurezza è, voce dal verbo essere, obiettivamente collegato a un gruppo specifico della popolazione in quelle periferie in cui i campi nomadi convivono con la popolazione meno protetta delle nostre città, lontano dai quartierini urbani di gran classe”61.
Insomma, è dovere del governo garantire la sicurezza dei cittadini e se questo significa essere accusati di “propositi discriminatori” è comunque di secondaria importanza. Al contempo è la stessa la presenza Rom, così come degli immigrati in genere, a generare le tensioni sociali ed a fomentare la richiesta securitaria nella popolazione nazionale. Questo ragionamento, ferreo nella sua concatenazione, è stato propagandato in maniera bipartisan dalla destra e dalla sinistra, e si basa sull’astuta finzione di non sapere che i motivi reali dell’insicurezza sociale dei lavoratori di nazionalità italiana non sono frutto certamente dei braccianti di Rosarno o dei Rom balcanici. I motivi della crescente insicurezza sociale hanno le loro radici nella generale precarizzazione delle condizioni di lavoro, nella caduta della capacità d’acquisto reale dei salari, nella crisi occupazionale, nell’estinzione del welfare.
Il dibattito sorto attorno ai campi-Rom non è sfuggito alla schematizzazione appena esposta. La realtà dei campi, parzialmente gestita e pubblicamente ignorata dalle istituzioni per decenni, non viene né spiegata, né affrontata a partire dal contesto economico, storico e sociale in cui si è sviluppata. Passando attraverso il processo di etnicizzazione e di criminalizzazione delle popolazioni dei campi, si trasforma invece la “questione Rom” in “emergenza Rom”, alimentando e convogliando al tempo stesso una sempre maggiore richiesta securitaria62. È in questa chiave che si deve allora leggere la nomina a “commissari straordinari per l’emergenza rom” dei prefetti di Roma, Milano, Napoli, Venezia e Torino63. È in questa chiave che si deve leggere la violenta campagna di criminalizzazione delle popolazioni Rom e la progressiva militarizzazione delle politiche che li riguardano64. Ed è infine in questa chiave che si vara la costruzione di campi “regolari” sempre più simili a carceri.
Situati in luoghi sempre più lontani dalle aree residenziali e commerciali e spesso delimitati da grandi e pericolose arterie viarie o da barriere naturali come gli argini di un fiume, questi nuovi campi sono stati chiaramente ideati per isolare definitivamente anche sul piano urbanistico le popolazioni che vi sono rinchiuse. Come se questo non bastasse, i campi sono generalmente delimitati da recinzioni o muri, sorvegliati da telecamere di sicurezza, controllati da istituti di vigilanza privata, da cooperative e associazioni coinvolte nel “business penitenziario” oltre che, naturalmente, dalle sempre più onnipotenti polizie locali. A rafforzare il carattere concentrazionario di queste strutture intervengono inoltre i regolamenti dei campi, generalmente imposti dalle autorità municipali, senza alcun contributo o consultazione con chi nei campi vi dovrà soggiornare65. In questi ordinamenti è generalmente sancito per gli occupanti l’obbligo del pagamento di una “tassa di soggiorno” e di frequenza scolastica per i minori. Ma vi è anche sancito, assai meno comprensibilmente, l’obbligo d’identificazione all’entrata dei campi, il divieto di accesso per gli autoveicoli, il divieto di ospitare amici o parenti senza autorizzazione, il divieto di assentarsi dal campo per più di 15 giorni senza aver informato l’autorità comunale. Si è perfino tentato d’inserire nei regolamenti una sorta di coprifuoco che avrebbe impedito l’accesso al campo dopo le ore 22.00! Ma la parte più discriminatoria, e perfino agghiacciante, di questi regolamenti è nel carattere collettivo delle loro sanzioni. Un carattere che ricorda le punizioni collettive inflitte alle popolazioni dei territori occupati:
“la violazione delle regole prevede sanzioni di vario tipo: l’ordine di sgombero è la più grave e viene in alcune circostanze estesa non solo al singolo responsabile della violazione ma a tutta la sua famiglia, con un’estensione della pena che appare ingiusta e sproporzionata. Inoltre, in generale, va notato che le regole di funzionamento dei campi sono spesso più rigide e prescrittive rispetto a quelle previste, ad esempio, per l’abitazione in residenze di edilizia pubblica. L’espulsione dalle aree di sosta, a cui si associa la perdita della residenza anagrafica, produce un effetto a catena nella vita delle famiglie colpite che si trovano senza un luogo di residenza, senza lavoro e nell’impossibilità, per i bambini, di andare a scuola. […] Per i rom stranieri, l’espulsione dal campo comunale può comportare l’impossibilità di rinnovare il permesso di soggiorno”66.
A Torino il regolamento comunale per le “aree di sosta attrezzate per sinti e rom” prevede addirittura che “una famiglia che abbia ricevuto un ordine di sfratto non possa accedere ad un’altra area in città”. In ogni caso si tratta sempre e comunque di aree di transito dove i “nomadi” possono stazionare per periodi limitati, in genere di un anno, oltre i quali è necessario un rinnovo approvato dalla commissione del campo. Commissione in cui, credo sia inutile specificarlo, i Rom non sono rappresentati. Alla luce di tutto questo non c’è quindi da stupirsi se Najo Adzovic, uno dei portavoce del Casilino 900, abbia dichiarato: «Vogliono trasformare i campi rom in carceri a cielo aperto, in nuovi Cpt» e se da più parti il ricordo sia volato all’internamento dei Rom nei campi di concentramento italiani istituiti durante il fascismo67.
Nonostante tutto questo, è bene non nasconderci come ad aumentare l’isolamento in cui sono condannati oggi le popolazioni Rom vi sia chiaramente anche un crescente, e a volte virulento, razzismo popolare.
Petizioni, manifestazioni e proteste hanno osteggiato praticamente ogni insediamento Rom, indipendentemente dal fatto che quest’ultimo possa essere stato grande, piccolo o solamente presunto. Da Napoli a Milano, da Genova a Venezia, in tutta la penisola si è registrato un grado d’intolleranza verso questa popolazione mai registrato prima. Nell’estate del 2007, ad esempio, 222 Rom, di cui 84 bambini, sono stati cacciati da Pavia al grido di “forni crematori, forni crematori”, “meglio un anno da italiano che cento da zingaro”, “zingaro uguale animale”, “vi ammazziamo i bambini”, “vi bruciamo vivi” e da uno striscione riassuntivo: “noi non vi vogliamo, vi odiamo”. Ed è solo uno degli innumerevoli esempi possibili.
Altrove dalle minacce si è passati alle vie di fatto: giugno 1999, a Scampia un vero e proprio pogrom incendia il campo locale mentre la fuga di tutti i circa mille occupanti viene accompagnata “da scroscianti applausi del vicinato, schierato sui balconi delle case circostanti”68; dicembre 2006, circa trecento cittadini di Opera (MI), per impedire che nel loro comune vengano ospitati temporaneamente una settantina di Rom appena sgomberati dalla periferia milanese, al grido di «Via gli zingari da Opera» danneggiano le tende della Protezione Civile per poi esibirle per le strade del paese69; maggio 2008, gli insediamenti Rom di Ponticelli (Napoli) vengono dati alle fiamme dopo l’ennesima presunta e incredibile accusa di rapimento di un minore da parte di una donna Rom70. Le aggressioni a colpi di spranghe e molotov si susseguono per tre giorni senza che nessuno degli assalitori venga fermato o identificato dalla polizia.
Questi episodi sono solo i più eclatanti tra gli atti di violenza fisica di questi ultimi anni. Ma, al contempo, sono stati innumerevoli i casi di violenze considerati minori o comunque non di massa contro le popolazioni dei campi. La sequela di questi episodi, dal lancio di sassi all’esplosione di colpi d’arma da fuoco, dal pestaggio all’attentato incendiario, dall’aggressione verbale a quella fisica, rivela chiaramente come vi sia stata una vera e propria escalation qualitativa e quantitativa degli atti d’intolleranza nei confronti delle popolazioni Rom71. Tale escalation non può essere scollegata dall’incrudimento delle politiche istituzionali riguardanti le popolazioni Rom. La cosiddetta violenza popolare, in sintesi, non può essere disgiunta dalla violenza istituzionale. Così come il razzismo popolare non può essere considerato indipendente dal razzismo istituzionale. Secondo alcuni autori saremmo di fronte ad una sorta di “saldatura” dei due fenomeni. Fenomeni, quindi, che si sarebbero sviluppati fino ad ora in forme parallele ma distinte. Con le parole di Annamaria Rivera:
«in Italia si è realizzata una saldatura temibile, quella che lega il razzismo costituzionale con il razzismo popolare. Infatti, l’escalation di proposte e misure legislative anticostituzionali, discriminatorie, perfino persecutorie si accompagna con lo stillicidio ormai quotidiano di aggressioni razziste, fino all’omicidio e alla strage»72.
In realtà vi è un rapporto assai meno “casuale” e “parallelo” tra il razzismo istituzionale e quello popolare. Il primo, infatti, prepara il terreno al secondo, assicura i presupposti per il suo scatenamento, lo alimenta e lo indirizza. Come potrebbe sostenersi il sentimento anti-Rom se “qualcuno” non avesse prima demolito in modo sistematico ogni altra possibile relazione tra rom e gagè? Se un “qualcuno” (la cui precisa identità abbiamo cercato di illustrare in questo saggio) non avesse condannato alla marginalità più assoluta e senza ritorno queste popolazioni?
Quale futuro per i Rom?
L’etnicizzazione della “questione Rom” implica inevitabilmente il tentativo di negare la “storicità” di questo popolo. Attraverso la loro etnicizzazione di fatto, i Rom vengono ridotti ad una sorte di popolo-fossile, un popolo al di fuori dello spazio e del tempo condannato a rimanere impietosamente sempre uguale a se stesso. Questo meccanismo è valido sia per la visione romantico/paternalistica del “popolo del vento”, sia – mutatis mutandis – per quella disciplinare/repressiva, che vorrebbe riconoscere nei Rom solo la condizione di emarginazione e degrado dei campi. La negazione di una propria storicità è, in fondo, un’ulteriore violenza perpetrata ai danni delle popolazioni Rom perché, intrinsecamente, è la negazione di ogni loro possibile riscatto dallo stato in cui versano. Ma così non è! Di fronte all’escalation di aggressioni di stato e popolari registrate in questi ultimi anni si può notare come, seppur in maniera frammentaria, fragile e talvolta contraddittoria, siano emerse delle prime reazioni. Si tratta, da un lato, di rivendicazioni basilari quali il diritto alla casa, al lavoro, all’istruzione e alla salute. Esigenze di “emancipazione” del tutto naturali ed universali, quindi, che potrebbero proprio per questo trasformarsi in un campo di lotta comune con il resto delleclasse lavoratrice. Dall’altro, si tratta dell’emergere, come risposta al montante clima di criminalizzazione, di nuovi processi di attivizzazione e di auto-organizzazione che portano con sé anche lo sforzo di ricostruire la propria storia. In questo senso l’esperienza più importante è sicuramente data dalla costituzione della “Federazione rom e sinti insieme” nel maggio del 200873. Ma altre significative forme di attivizzazione di queste popolazioni sono anche il costituirsi nei campi di esperienze di rappresentanza, o la preziosa opera di controinformazione svolta da siti web come “U Velto” dell’Istituto di Cultura Sinta74. In alcuni casi, sporadici ma significativi, le popolazioni dei campi si sono anche affacciate a mobilitazioni nazionali, come la manifestazione di Milano per lo sciopero generale indetto dalla Cgil il 21 febbraio 2003 o ad alcune iniziative contro la guerra del Kosovo tenutesi nello stesso periodo75.
Questi elementi stanno a dimostrare una certa dinamicità all’interno del mondo Rom, e soprattutto indicano la via per il superamento delle sciagurate condizioni attuali. Non vi può essere infatti alcuna soluzione alla questione Rom all’infuori di un reale processo di auto-organizzazione di queste popolazioni, di riconquista della propria dignità storica e, al contempo, di lotte rivendicative sempre più convergenti con la classe lavoratrice autoctona. Non vi può essere alcuna soluzione alla questione Rom, e alla questione immigrazione in generale, in un sistema basato sulla stratificazione e compartimentazione del mondo del lavoro. Sia a livello nazionale che internazionale. Al tempo stesso è necessario che i Rom non siano lasciati soli (o, peggio, in “compagnia” delle iniziative dei Soros…) negli sforzi, per embrionali che siano, di risalire dall’abisso. È necessario che i lavoratori italiani rifiutino il razzismo, difendendo così anche le proprie condizioni di vita e di lavoro. Per essi, infatti, non difendere le popolazioni Rom dai vergognosi attacchi che subiscono quotidianamente, non schierarsi al loro fianco, non supportare le loro aspirazioni emancipatrici significa accettare l’indebolimento ulteriore delle proprie condizioni, delle proprie lotte, delle proprie aspirazioni. Giustificare o tollerare i “campi nomadi” così come sono organizzati, significa per i lavoratori italiani condannare permanentemente una parte di sé “marginalizzata” alla ghettizzazione, al lavoro nero, alla microcriminalità. Come ben dice un testo distribuito dalla comunità Rom di Tor de Cenci: «difendere la dignità dei rom per difendere la propria – no alla deportazione dei rom»76.
NOTE
Si vedano ad esempio i testi di Barany Z., The East European Gypsies. Regime Change, Marginality, and Ethnopolitics, Cambridge University Press, 2002 e di Crowe D. M., A History of the Gypsies of Eastern Europe and Russia, Palgrave Macmillan, 2007.
Citato in Sigona N., Sono il nemico pubblico n.1?, in «Reset», 107/2008.
Si vedano ad esempio le conclusioni di questo disgustoso reportage che, seppur contraddistinguendosi per il senso di superiorità e malcelato razzismo nei confronti dei rom (e non solo), ha il pregio della chiarezza: “Nella presenza degli zingari c’è qualcosa che non è spiegabile secondo i soli parametri economici e sociali [non indagati o specificati, n.d.a.] e che affiora da strutture precedenti che non si sono diluite del tutto, che questo strano, inspiegabile popolo ha conservato in sé attraverso il tempo e lo spazio”. Si tratta, a detta dell’autore, di un popolo “indigeribile”, “incomprensibile e inestirpabile”. “Non può esserci un ordine preciso, una direzione, un comando, che spieghi perché questo popolo continua a migrare, questo fiume continua a scorrere. Questo misto di libertà e opportunismo, di fierezza e di infingardaggine, di irriducibilità e di parassitismo, di anarchismo e di fascismo. La parte più sconcertante, inspiegabile e misera delle migrazioni che stanno attraversando l’Europa [..] Tutto questo perché? Per quale ragione? Per quale disegno? Per quale sogno? Per quale altro disegno che non sia l’inarrestabile proliferazione delle strutture genetiche gettate allo sbaraglio attraverso il tempo e lo spazio? E, anche se fosse soltanto questa la spiegazione, perché le loro strutture genetiche hanno imboccato e poi conservato questo modo di proliferare e non quello degli altri?”, Moresco A., Zingari di merda, Effigie, Milano, 2008, pp. 47, 50.
Così Marx descrisse magistralmente il processo di proletarizzazione forzata delle masse popolari europee: “Non era possibile che gli uomini scacciati dalla terra per lo scioglimento dei seguiti feudali e per l’espropriazione violenta e a scatti, divenuti eslege, fossero assorbiti dalla manifattura al suo nascere con la stessa rapidità con la quale quel proletariato veniva messo al mondo. [..] Si trasformarono così, in massa, in mendicanti, briganti, vagabondi, in parte per inclinazione, ma nella maggior parte dei casi sotto la pressione delle circostanze. Alla fine del secolo XV e durante tutto il secolo XVI si ha perciò in tutta l’Europa occidentale una legislazione sanguinaria contro il vagabondaggio. [..] La legislazione li trattò come delinquenti «volontari» e partì dal presupposto che dipendesse dalla loro buona volontà il continuare a lavorare o meno nelle antiche condizioni non più esistenti. [..] Così la popolazione rurale espropriata con la forza, cacciata dalla sua terra, e resa vagabonda, veniva spinta con leggi fra il grottesco e il terroristico a sottomettersi, a forza di frusta, di marchio a fuoco, di torture, a quella disciplina che era necessaria al sistema del lavoro salariato”, Marx K., Il capitale. Libro primo, Editori Riuniti, Roma, 1999, pp. 797-800.
Nel milanese, nel Regno di Napoli, a Firenze come anche nello Stato Pontificio si intimano i gruppi rom ad abbandonare il territorio e si derubricano gli atti di violenza commessi contro di essi. Nella repubblica di Venezia, invece “dalla semplice espulsione entro dieci giorni del primo decreto si passa alla condanna a dieci anni di galera in quello del 1558. Chiunque consegnerà uno Zingaro alla giustizia riceverà in premio dieci ducati, uno Zingaro vivo o morto «possendo etiam li detti Cingani, così Huomini come Femine, che saranno trovati nelli Territorii Nostri esser impune ammazzati, si che li Interfettori per tali Homicidii, non abbino ad incorrer in alcuna pena»”, de Vaux de Foletier F., Mille anni di storia degli zingari, Jaca Book, Milano, 2002, p. 89.
Piasere L., I rom d’Europa. Una storia moderna, Bari, Laterza, 2007, pp. 52.
Nei Paesi Bassi, ma è solo uno degli esempi possibili, “a partire dall’inizio del XVIII secolo, delle vere e proprie battute spesso mortali, contro gli Zingari, le «Heidenjachten» (cacce ai pagani), con la partecipazione dell’esercito, fanteria e cavalleria, e della polizia vennero organizzate sul territorio della repubblica [delle Province Unite] con il concorso anche di Stati germanici”, de Vaux de Foletier F., op. cit., p. 90.
Fonseca I., Seppellitemi in piedi. In viaggio con i gitani attraverso l’Europa, Milano, Arnoldo Mondadori, 2008, pp. 262-3.
Nel 1633, in Spagna, “una Pragmatica vieta ai gitani di riunirsi, di vestire in modo diverso dagli altri spagnoli, di usare il romanes, di abitare in quartieri di soli gitani, stabilisce che essi non possono esibirsi in danze, né nomadizzare, né definirsi gitani, ma «nuovi castigliani». […] Alla fine del secolo l’imposizione viene perfezionata: i gitani possono vivere solo in località con più di duecento abitanti, svolgere solo lavori legati all’agricoltura, devono evitare il commercio degli equini e tenersi alla larga dalle fiere”. Similmente nell’Impero Austro-Ungarico, dove “fra il 1758 e il 1773 Maria Teresa cambia politica ed emana una serie di decreti che tentano la via dell’assimilazione forzata: tutti i rom devono sedentarizzarsi, pagare le tasse e trovarsi un lavoro presso un padrone; non dovevano indossare abbigliamenti particolari né parlare la loro lingua; non potevano avere cavalli e non dovevano chiamarsi zingari ma «nuovi zingari» o «nuovi contadini»; i giovani dovevano svolgere il servizio militare […]. I bambini con meno di cinque anni venivano strappati ai genitori e assegnati a famigli di gagé”, Piasere L., op. cit., pp. 55-6.
Cfr. Spinelli S., Baro romano drom. La lunga strada di rom, sinti, manouches e romanichals, Roma, Maltemi, 2005, pp.90-1.
“Il 4 maggio 1772 il senato di Palermo approvò uno statuto di ventidue capitoli della «Maestranza dei forgiatori seu Zingari», che comprendeva fabbri ferrai, chiodatori, forgiatori, indipendentemente dal fatto che fossero zingari o meno”, de Vaux de Foletier F., op. cit., p. 183.
Ministero dell’Interno, La pubblicazione sulle minoranze senza territorio, www.interno.it, 2006, p. 21.
“..da un tempo immemorabile, per lo meno dal XIII secolo, esistevano in quei paesi, come pure in Irlanda, persone dette «Tinkers», alcune sedentarie, nella maggior parte nomadi, i cui mezzi di sussistenza erano simili [a quelli delle popolazioni rom], cioè la mendicità, i mestieri del fabbro, del calderaio e del sensale di cavalli”, ivi, p. 62.
“Queste comunità si trovano un po’ in tutta Europa, e sono categorizzate come zingari o per il loro nomadismo o per il loro status di paria. […] Così, la penisola scandinava e la «frangia gaelica» (Irlanda e Scozia) sono abitate in prevalenza dai reisende e dai travellers («viaggianti»), mentre l’Inghilterra e la Danimarca, che contemplano una presenza mista, rappresentano forse situazioni di passaggio. Nell’Europa continentale la Svizzera e l’Olanda sono abitate in prevalenza, rispettivamente, dagli jenische e dai woonwagenbewoners. Gli jenische sono presenti anche in Germania e Francia, ma è nella Svizzera del secondo dopoguerra che hanno subito le persecuzioni più terribili. Maggioritari sono anche i caminanti, o carchianti, nella Sicilia sud-orientale, che nomadizzano in primavera-estate nel resto d’Italia. Dispersi poi nel mare magnum dei rom balcanici sono i cosiddetti rudari della Romania, conosciuti anche come bojaś, e in Ungheria come beas. […] Si è molto discusso sui rapporti storici di tali comunità con gli zingari parlanti o ex parlanti romanes. Se in certi casi si può supporre un’origine rom di questi gruppi, come nel caso dei rudari, che per qualche autore sarebbero degli ex rom «rumenizzatisi» per sfuggire alla schiavitù, in altri casi una ricostruzione è ben più difficile. L’Europa moderna ha costruito decine e decine di gruppi stigmatizzati, nomadi e sedentari, formati da famiglie o individui che venivano espulsi dai processi di produzione e pauperizzati e che, letteralmente, venivano buttati sulla strada o ai margini dei villaggi”, Piasere L., op. cit. pp. 17-18.
In Ungheria, ad esempio, “fabbri e calderai zingari eseguivano lavori per i comuni, come per la cittadina di Miskolc, per i contadini o per i signori. Alcuni erano qualificati come «fabbri dei signori». Ma in città le corporazioni si preoccupavano di questa concorrenza e le corporazioni dei fabbri di Miskolc riuscì a far interdire agli Zingari di lavorare fuori delle loro tende; non potevano nemmeno andare al mercato a farrare gli stivali dei contadini”, de Vaux de Foletier F., op. cit., p. 182. Cfr. anche per quanto riguarda l’Italia meridionale Novi Chavarria E., Sulle tracce degli zingari. Il popolo rom nel Regno di Napoli. Secoli XV-XVIII, Napoli, Guida, 2007.
Lettera a George Sand, citata in de Vaux de Foletier F., op. cit., p. 233.
Piasere L., op. cit. p. 43. Ed ancora: “l’aristocrazia si mostra sempre la più accogliente verso gli Zingari. [Questi] vengono anche a chiedere padrini e madrine per i loro figli. Sarebbe troppo lunga la lista delle famiglie signorili, che hanno concesso questo padrinato”, de Vaux de Foletier F., op. cit., pp. 233-4.
Léon A., Il marxismo e la questione ebraica, Milano, Giovanetalpa, 2001, pp. 34-36. Un suggerimento ad analizzare la “questione zingara” attraverso lo strumento d’analisi del popolo classe giunge inoltre da Nathan Weinstock: “Alla luce di queste considerazioni contenute nelle tesi di Abram Léon, risulta evidente che il concetto di popolo-classe è uno strumento di analisi estremamente fecondo che potrebbe essere esteso ad una serie di altri casi di comunità allogene che abbiano svolto una funzione economica determinata , tale da assicurare la sopravvivenza in quanto entità particolari. Si pensi all’accostamento che può stabilirsi con gli Zingari, gli Armeni, i Copti, i Cinesi del Sudest asiatico, i Tedeschi dell’Europa Orientale ecc..”, Weinstock A., Abram Léon e la sua opera, in Léon A., op. cit., p. 13. posizione ribadita anche in Weinstock A., Storia del sionismo. Dalle origini al movimento di liberazione palestinese, Bolsena, Massari, 2006, p. 12.
Per quanto riguarda l’accusa di cannibalismo in Ungheria, nell’estate del 1782 si giunse addirittura ad un maxi-processo contro numerosi “zingari” accusati d’aver “ucciso, cotto o affumicato” e divorato decine di persone, con la predilezione, per giunta, per la carne di giovinetti tra i sedici e i diciotto anni. Ben quarantacinque accusati, “dopo un processo sommario, vennero giustiziati. Parecchi furono impiccati, altri perirono sulla ruota. Quelli che erano considerati i più feroci, vennero squartati vivi. Alcune donne furono decapitate”. Inutile aggiungere che le confessioni vennero estorte con la tortura e che ben presto si scoprì come le persone ritenute fagocitate fossero tutte vive. Vedi a tal proposito de Vaux de Foletier F., op. cit., pp. 81-2.
Fonseca I., op. cit., p. 314.
Léon A., op. cit., p. 47.
Karpati M. (a c. di), Zingari ieri e oggi, Roma, Centro Studi Zingari, 1993, pp. 41-42.
Ivi, p. 43.
“Secondo Rudolf Hoess, il comandante di Auschwitz (da non confondersi con Rudolf Hess, vicecapo del partito), una di tali vittime fu «uno dei primi membri del partito, in parte zingaro, che aveva una grossa ditta a Lipsia, aveva preso parte alla guerra ed era stato più volte decorato»; un’altra vittima fu il capo dell’organizzazione delle Giovani tedesche di Berlino”, Fonseca I., op. cit., p. 300.
Naturalmente “tutti gli esentati dalla deportazione in età superiore ai dodici anni dovevano essere sollecitati a consentire alla sterilizzazione. In un incontro tenutosi il 15 gennaio [1943] si convenne che, in caso di rifiuto, andava preso in considerazione l’invio in campo di concentramento”, Lewy Guenter, La persecuzione nazista degli zingari, Einaudi, Torino, 2002, pp. 209-10.
Così la sociologa Anna Rita Calabrò riassume questo processo per l’esperienza italiana: “negli anni del boom economico, che corrisponde all’inizio del processo di sedentarizzazione, molti gruppi Rom abbandonano la vita nomade, che privilegiava le strade secondarie della provincia contadina, per raggiungere le periferie urbane e si improvvisano raccoglitori di carta, rottamai, sfascia carrozze. La scelta è forzata: gli antichi mestieri, giostrai, venditori ambulanti, maniscalchi, arrotini, stagnini,… spariscono con l’avanzare dell’industrializzazione. […] Spinti dalle mutate condizioni, i Rom si mettono sulla scia dei flussi migratori dalla campagna alla città. Il loro destino è però diverso: non diventano forza lavoro pronta ad essere assorbita all’interno delle fabbriche o nel terziario: la loro differenza culturale ed etnica li obbliga ai margini della città e a lavori marginali”, Calabrò A. R., Il vento non soffia più. Gli zingari ai margini di una grande città, Marsilio, Venezia, 1992, pp. 82-3.
Cuomo C., Zingari, cioè rom, in «Calendario del Popolo», febbraio 1997.
Marx K., Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte, Roma, Editori Riuniti, 1997, p. 129. Per un approfondimento sulla categoria marxista di “sottoproletariato” vedi Franklin B., Il sottoproletariato e il movimento della gioventù rivoluzionaria in «Monthly Review», 1-2/1970, oltre che, naturalmente, Marx K., Il capitale, op. cit.
“Dato che avevano attraversato gli stati di Sigismondo, re di Boemia, e avevano ricevuto da lui lettere di protezione, l’appellativo di Boemi (Bohémiens o Bohêmes, Boimes, Bohemis, Boumians) è ancora uno dei più usati in Francia a partire dal XV secolo fino ai nostri giorni. […] In Spagna alla fine del XV e all’inizio del XVI secolo il termine Bohemian o Bohemiano è sinonimo di Gitano”, de Vaux de Foletier F., op. cit., p. 23.
In Moldavia e in Valacchia gli schiavi “zingari” si suddividevano in tre categorie, definite in base alla classe sociale del proprietario: gli schiavi statali detti anche “Zingari della corona”, gli schiavi del clero e gli schiavi dei boiardi. Questi ultimi si potevano a loro volta suddividere in “schiavi di corte” e “schiavi di campo”, riproponendo così significativamente una distinzione utilizzata anche per gli schiavi afroamericani. “Gli «zingari di corte» svolgevano tutti i lavori necessari in una casa nobiliare che tendeva ad essere il più autarchica possibile. Erano fabbri, ciabattini, macellai, cuochi, domestici, giardinieri, bovai, guardie del corpo, guardiani, falegnami, carpentieri, muratori, fabbricanti di mattoni, sarti, musicisti ecc. […] Gli «zingari di campo» erano di gran lunga quelli che vivevano in condizioni peggiori. Dovevano lavorare i campi, disboscare le foreste, mentre le loro donne si occupavano all’orticoltura. Il loro numero aumentò sempre più a partire dal Settecento, quando i principati entrarono nel mercato internazionale del grano e aumentò la riserva feudale bisognosa di manodopera”, Piasere L., op. cit., pp. 39-40.
Marta C., Etnicismi e minoranze discriminate: il caso degli zingari, in «Quaderni internazionali», 2-3/1988, p. 90.
Tommaso Vitale, come altri, sottolinea come “l’ostilità verso le popolazioni romnì e sinte non ha equivalenti con alcun altra minoranza presente in Italia, e che la canea xenofoba nei confronti delle popolazioni tsigane aumenta con l’aumentare del titolo di studio”, Vitale T., Dinamiche di segregazione. Ceto politico e amministrazione alla prova dei rom di nuova immigrazione, in Rodari E. (a cura di), 2008, Rom, un popolo. Diritto a esistere e deriva securitaria, Milano, Edizioni Punto Rosso, p. 51.
Si veda a tal proposito Basso P., Razze, immigrazione, razzismo, in Basso P., Perocco F. (a cura di), 2000, Immigrazione e trasformazione della società, Milano, Franco Angeli, pp. 109-130.
L. R. Veneto 1984, n. 38. La prima circolare del ministero degli Interni a tutela del diritto al nomadismo è comunque datata 11 ottobre 1973, Bravi L., Sigona N., Educazione e rieducazione nei campi per “nomadi” in «Studi Emigrazione/Migration Studies», XLIII, n. 164, 2006, p. 865.
Ministero degli Interni, op. cit., pp. 45-6.
Boursier G., Lo sterminio degli zingari durante la seconda guerra mondiale, in «Studi Storici», 2/1995.
Ritter R., Zigeuner und Landfahrer, citato in Lewy G., op.cit., p. 70.
Lombroso C., L’uomo delinquente in rapporto all’antropologia, giurisprudenza e alle discipline carcerarie, Roma-Torino-Firenze, Fratelli Bocca, 1878.
Citato in A. Simoni, Stato di diritto e rom in Aa. Vv., 2003, Alla periferia del mondo. Il popolo dei rom e dei sinti escluso dalla storia, Milano, Fondazione Roberto Franceschi, p. 59.
Citato in A. Simoni, op. cit., p. 61-63.
Cfr. ad esempio il reportage di Moresco A. citato nella nota 3 o la seguente dichiarazione di Alessandra Mussolini: “Bisogna uscire dall’ipocrisia, dalla solidarietà di facciata e dal politicamente corretto: i rom debbono lasciare le nostre città. Niente campi né in centro né in periferia. [..] nel migliore dei casi sono accattoni, rubano e sfruttano donne e bambini. Gli unici rom possibili sono fuori dall’Italia”: “L’Unità”, 20 maggio 2007, p.1.
Si veda ad esempio Huonker T., Ludi R., Roms, sintis et yéniches. La «politique tsigane» suisse à l’époque du national-socialisme, Page deux, Lausanne, 2009, pp. 29-53. Da sottolineare come anche le stesse politiche d’etnocidio siano continuate ben oltre la fine del secondo conflitto mondiale attraverso le sterilizzazioni e le castrazioni forzate, gli interventi di psichiatrizzazione, la sottrazione dei minori. In Svizzera, ad esempio, tra il 1926 e il 1972, centinaia di “bambini jenisches sono stati sottratti a forza alle loro famiglie dall’Opera di soccorso “Enfants de la grand-route”, che aveva un unico mandato: quello di sradicare il nomadismo. Con questo proposito, i figli del popolo itinerante erano sistematicamente sottratti ai genitori e collocati presso famiglie affidatarie o negli orfanatrofi, quando non venivano addirittura incarcerati o internati in ospedali psichiatrici”, Jourdan L., Eugenetica in Europa tra le due guerre ed oltre. Caccia agli zingari in Svizzera in «Le Monde diplomatique/il manifesto», ottobre 1999, p. 3. Mentre, nell’ex Cecoslovacchia, ancor prima del 1989 “la sterilizzazione era una pratica semiufficiale utilizzata dallo Stato per limitare la popolazione Rom. Le donne Rom erano obbligate ad accettare questa pratica sotto la minaccia, in caso di rifiuto, di vedersi togliere i benefici sociali dallo Stato, ed è proseguita, tuttavia, silenziosamente anche dopo la “rivoluzione di velluto”. Le prime notizie sulle sterilizzazioni di donne Rom risalgono agli anni ‘70. Esperti sospettano che da allora oltre 2mila donne Rom nella sola Repubblica Ceca siano state sterilizzate contro la loro volontà”, Carpinelli C., La sterilizzazione forzata delle donne Rom, in «Noi Donne», febbraio 2009.,
“La casa, il domicilio, è l’unica barriera contro l’orrore del caos, della notte e dell’origine oscura; racchiude tra le sue pareti tutto ciò che l’umanità ha pazientemente raccolto nel corso dei secoli; si oppone all’evasione, alla perdita, all’assenza, poiché organizza il suo ordine interno, la sua civiltà, la sua passione. La sua libertà fiorisce nella stabilità, nel contenere, e non nell’aperto o infinito. Stare in casa è riconoscere la lentezza della vita e il piacere della meditazione immobile… Pertanto, l’identità dell’uomo è domiciliare; ed ecco perché il rivoluzionario, colui che è senz’arte né parte, e quindi senza fede né legge, condensa in sé tutta l’angoscia del vagabondaggio… L’uomo del non luogo è criminale in potenza”, Kant I., citato in Sigona N., 2002, Figli del ghetto. Gli italiani, i campi nomadi e l’invenzione degli zingari, Civezzano, Nonluoghi Libere edizioni, 2002, pp. 99-100.
Lo stesso processo è peraltro riscontrabile, seppur con tempi e modalità differenti tali da richiedere un serio studio comparativo, anche in altri paesi europei. Si veda, ad esempio, il Caravan Sites Act (1968) per l’Inghilterra e la Loi Besson (1990/2000) per la Francia.
Cfr. European Roma Rights Center, 2000, Il paese dei campi. La segregazione dei rom in Italia, Supplemento al n. 12 di «Carta», p. 10.
Sulle condizioni materiali e psicologiche della vita nei campi esiste una vasta letteratura a cui si rimanda il lettore: Brunello P. (a cura di), L’urbanistica del disprezzo. Campi rom e società italiana, Roma, Manifestolibri, 1996; Calabrò A.R., Zingari. Storia di un’emergenza annunciata, Napoli, Liguori, 2008; European Roma Rights Center, 2000, op. cit.; Geraci S., La salute degli zingari, in Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati, 2000, Rom e sinti: in’integrazione possibile. Italia ed Europa a confronto, Roma, Dipartimento per gli Affari Sociali – Presidenza del Consiglio dei Ministri; OsservAzione centro di ricerca azione contro la discriminazione di rom e sinti, Cittadinanze imperfette. Rapporto sulla discriminazione razziale di rom e sinti in Italia, Edizioni Spartaco, Santa Maria Capua Vetere, 2006; Sigona N., 2002, op. cit.; Vitale T., Etnografia degli sgomberi di un insediamento rom a Milano. L’ipotesi di una politica locale eugenetica, in «Mondi migranti», 1/2008; Vitale T., Comuni (in)differenti: i «nomadi» come «problema pubblico» nelle città italiane, in Cherchi R., Loy G. (a cura di), Rom e Sinti in Italia. Tra stereotipi e diritti negati, Ediesse, Roma, 2009.
Ivi., pp. 10-11.
Bravi L., Sigona N., 2006, op. cit., pp. 864-5.
Sulla condizione dei rom kosovari si veda ad esempio: Dérens J., La cacciata degli zingari dal Kossovo, in «Le Monde diplomatique/il manifesto», novembre 1999; Fisher M., Morte lenta per i Rom del Kosovo, 15 dicembre 2005 in www.osservatoriobalcani.org; Geslin L., Rom e tzigani, stranieri in patria nei paesi balcanici, in «Le Monde diplomatique/il manifesto», luglio 2008.
La rivelazione censuaria delle popolazioni rom in Italia, così come negli altri paesi europei, è estremamente problematica. Nel presente saggio ci si affida ai dati forniti dall’Opera Nomadi, comunemente riconosciuta come la fonte più autorevole per l’ambito italiano. Cfr. Rom, Sinti e Camminanti in Italia, in Caritas, Dossier statistico 2006. XVI Rapporto sull’immigrazione, Roma, IDOS, 2006.
Come sottolinea Nando Sigona: “Il processo di pauperizzazione dei rom inizia negli anni novanta, all’apice del trionfo neoliberale. Proprio allora, mentre alcuni beneficiavano del nuovo benessere, il reddito delle famiglie rom crollava insieme alla chiusura delle fabbriche di stato e alla riduzione drastica dell’impiego da parte delle amministrazioni pubbliche. L’ex presidente della Banca Mondiale, James Wolfensohn, [..] affermava: «I rom sono stati tra coloro che hanno perso di più nella transizione dal comunismo a partire dal 1989. Agli inizi degli anni novanta sono stati i primi a perdere il lavoro, successivamente gli è stato impedito di rientrare nella forza lavoro a causa della loro formazione professionale insufficiente e di una perversa discriminazione»”, Sigona N., I rom nell’Europa neoliberale. Antiziganismo, povertà e limiti dell’etnopolitica, in Palidda S. (a cura di), Razzismo democratico. La persecuzione degli stranieri in Europa, Milano, Agenzia X, 2009, pp. 54-5.
“Voglio la rivoluzione contro i clandestini. Voglio la rivoluzione contri i campi dei nomadi e degli zingari. Io ne ho distrutti due a Treviso. Adesso non ce n’è più neanche uno. Voglio eliminare i bambini che vanno a rubare agli anziani. [..] Voglio la rivoluzione contro le prostitute. Anche loro devono pagare le tasse. Tutti pagano le tasse e devono pagarle anche le prostitute. Voglio la rivoluzione contro quelli che voglio aprire le moschee e i centri islamici. [..] Voglio la rivoluzione contro chi vuole dare la pensione agli anziani familiari delle badanti extracomunitarie. [..] Voglio la rivoluzione contro i phone center i cui avventori si mettono a mangiare in piena notte e poi pisciano sui muri: che vadano a pisciare nelle loro moschee. Voglio la rivoluzione contro i veli e il burqa delle donne. Io voglio vedere le donne in viso, anche perché dietro il velo ci potrebbe essere un terrorista e avere un mitra in mezzo alle gambe. [..] Io voglio la rivoluzione contro chi vorrebbe dare il voto agli extracomunitari. Non voglio vedere neri, marroni o grigi che insegnano ai nostri bambini. Cosa insegneranno, la civiltà del deserto? Il voto spetta solo a noi”, Gentilini G., discorso pubblico tenuto a Venezia alla “Festa dei Popoli Padani” il 14 settembre 2008.
Naturalmente, in nome della segmentazione delle popolazioni immigrate, il primo cittadino di Roma Gianni Alemanno, si è anche affrettato ad aggiungere come questi CPT sarebbero dovuti essere “diversi da quelli per i clandestini extracomunitari”, Foschi P., Alemanno: “Creare i CPT per i nomadi” in «Corriere della Sera», 17 marzo 2007, p. 7.
Se un ministro propone i campi nomadi a rotazione, in «Liberazione» del 6 maggio 2007, p. 6.
Osservatorio Regionale per l’integrazione e la multietnicità, Vivere ai margini. Un’indagine sugli insediamenti rom e sinti in Lombardia. Rapporto 2006, Fondazione Ismu, Milano, 2006, p. 200.
Vitale T., Etnografia degli sgomberi di un insediamento rom a Milano. L’ipotesi di una politica locale eugenetica. In «Mondi migranti», 1/2008.
Muhlbauer L., “La politica della paura”, In: Rodari E. (a cura di). op. cit., p. 107. Secondo l’assessore comunale Riccardo De Corato dal 2007 ad oggi a Milano si sarebbero effettuati altri 188 sgomberi.
Vitale T., “Governare mediante gli sgomberi e la segregazione dei gruppi zigani”, in Palidda S. (a cura di). op. cit., p. 189.
Ue, interventi vergognosi di quattro parlamentari italiani in http://sucardrom.blogspot.com.
Ivi.
Ferrara G., Le anime belle del politically correct, in “Panorama”, 1 agosto 2008.
Cfr. Muhlbauer L., op. cit.
Sulla reale necessità della nomina di tali commissari straordinari ha ironizzato perfino la stampa locale, solitamente in prima fila nell’opera di criminalizzazione della popolazione immigrata e nella socializzazione della richiesta securitaria. Ecco un’intervista a Renata Paolucci, segretaria nazionale dell’Opera Nomadi, a riguardo del caso veneto: «Ma chi si occupa in Veneto proprio di questa realtà, si chiede dove sia quest’allarme sociale. “Qui non c’è nessuna emergenza sociale – esordisce Renata Paolucci – anzi ci sono progetti di integrazione e riqualificazione avanzati come costruzione di alloggi, ristrutturazione dei campi o presenza di famiglie allargate su terreni di proprietà della famiglia stessa”. E per quanto riguarda il degrado e la situazione dei minori? “Dico solo che il 95 per cento dei ragazzini delle realtà rom e sinti va a scuola”», Fungher F., Commissario anti-rom in laguna, Maroni: in Veneto c’è emergenza, in “E Polis”, 29 maggio 2009, p. 22.
Nel corso degli sgomberi o dei controlli nei campi Rom si è assistito, ad esempio, alla progressiva comparsa tra le dotazioni delle forze dell’ordine anche locali di “bastoni distanziatori”, di armi da fuoco automatiche, di tenute antisommossa, di scudi e di camionette blindate. Un impressionante resoconto, nonché certamente incompleto ed oramai datato, sugli abusi e sulla violenza delle forze dell’ordine nei confronti della popolazione dei campi è presente in European Roma Rights Center, 2000, op. cit., pp. 26-61.
OsservAzione centro di ricerca azione contro la discriminazione di Rom e Sinti, op. cit., pp. 67-73. Una parziale eccezione, in proposito, è costituita dalla recente costruzione di un villaggio sinti a Mestre: cfr. Università Ca’ Foscari Venezia, Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di laurea in Interculturalità e cittadinanza sociale, Il villaggio della discordia: il nuovo insediamento sinti a Mestre, tesi di laurea di Luminasi G., anno accademico 2008-2009.
OsservAzione centro di ricerca azione contro la discriminazione di rom e sinti, op. cit., pp. 67-8.
«L’11 settembre 1940, Arturo Bocchini, capo della polizia italiana, aveva infatti ordinato il “rastrellamento e la concentrazione di zingari italiani e stranieri sotto rigorosa sorveglianza per porli in località adatte in ciascuna provincia”. Le prefetture italiane arrestarono e raggrupparono famiglie di rom e sinti in attesa di indicazioni sul luogo verso cui trasferirli. La risposta non tardò e gli “zingari” vennero imprigionati nei campi di concentramento italiani: Agnone, Arbe, Boiano, Cosenza, Gonars, Perdasdefogu, Prignano, Tossicia, le isole Tremiti, Vinchiaturo, al cui interno erano già presenti, tra gli altri, ebrei ed oppositori politici. […] Solo l’armistizio ed il successivo caos in cui piombò il sistema concentrazionario italiano evitarono che i fini indicati dalla scienza della razza si realizzassero concretamente»: cfr. Bravi L., Sigona N., op.cit., pp. 861-864.
European Roma Rights Center, 2000, op.cit., pp. 62-tre. Sui fatti di Scampia si veda anche Sigona N., op.cit.
Petruzzelli P., Non chiamarmi zingaro, Chiarelettere, Milano, 2008, pp. 19-28.
European Union Agency for Fundamental Rights, Incident Report. Violent attacks against Roma in the Ponticelli district of Naples, Italy, FRA, 2008. Sul tema della “zingara rapitrice” si veda inoltre il testo di Tosi Cambini S., La zingara rapitrice. Racconti, denunce, sentenze (1986-2007), CISU, Roma, 2008 e le considerazioni di Annamaria Rivera in Regole e roghi. Metamorfosi del razzismo, Dedalo, Bari, 2009, pp. 36-39.
Per una rassegna delle aggressioni razziste tra il 2007 e il 2009 in Italia si veda Naletto G., Rapporto sul razzismo in Italia, ManifestoLibri, Roma, 2009, pp. 146-241.
Rivera A., op. cit., p. 11.
«La Federazione Rom e Sinti insieme è una organizzazione democratica che a poche settimane dalla sua costituzione già associa 22 associazioni Rom e Sinte di 12 Regioni Italiane. Costituita il 18 Maggio 2008, dopo oltre un anno di lavoro del comitato rom e sinti insieme […]. Con la costituzione della Federazione Rom e Sinti insieme è la prima volta che in Italia si avvia sia un articolato percorso di partecipazione attiva e propositiva di Rom e Sinti, sia un processo unitario delle nostre minoranze per una rappresentatività dei Sinti e dei Rom, Italiani ed immigrati»: così il documento presentato al meeting antirazzista di Cecina, 16 luglio 2008.
http://sucardrom.blogspot.com.
Ecco un comunicato stilato a Scampia in lingua romanes il 31 marzo 1999, citato in Sigona, op. cit., p. 19: «Noi fratelli Rom che viviamo a Napoli, in Italia dal 1991 perché siamo dovuti scappare dalla Jugoslavia per salvare le nostre famiglie dalla guerra, vogliamo libertà e pace in Jugoslavia e non vogliamo nessun coinvolgimento della Nato e dell’Europa che distrugga il nostro paese. La Nato ci bombarda e uccide il nostro popolo e distrugge quello che abbiamo: case, scuole, fabbriche e soprattutto vuole distruggere la nostra bandiera, simbolo dell’unità del popolo Jugoslavo». Firmato: I Rom di Napoli.
«Roma, lettera aperta dei Rom del villaggio attrezzato di Tor de Cenci», in http://sucardrom.blogspot.com/, 12 febbraio 2010.
IGNORANZA E PREGIUDIZIO
Non poteva scegliere un giorno più adatto, il Comune di Selargius (CA) per far notificare l’ordinanza di sgombero del campo Rom di Pitz’e Pranu. Nelle stesse ore in cui il messo comunale, con due vigili, comunicava l’ordinanza ai cittadini residenti nel campo, la radio di stato, con la trasmissione Wikiradio su Rai radio 3, e la canzone Khorakhané di Fabrizio de Andrè in sottofondo, ricordava cosa successe la notte fra il 2 e 3 agosto 1944:
La notte degli zingari raccontata da Marcello Flores
La notte fra il 2 e il 3 agosto 1944 tutti i rom e i sinti rinchiusi nel campo di Auschwitz-Birkenau vengono uccisi nelle camere a gas
https://www.raiplayradio.it/audio/2018/07/WIKIRADIO—La-notte-degli-zingari-180e1022-f1b3-4c4d-9015-57170d137dd3.html
Khorakhané https://g.co/kgs/WStTp3