#Saranonsarà

Uno dei tanti femminicidi…

di Maschile Plurale (*)

maschilePlurale-Femminicidio

     Nella settimana trascorsa, uno dei tanti femminicidi (quello di Sara di Pietrantonio in via della Magliana a Roma) compiuti nel nostro Paese è saltato questa volta al centro del dibattito pubblico (al contrario di quasi tutti gli altri) per la brutalità, per i modi, o per altri motivi che governano la pubblica informazione e la comune indignazione.

Abbiamo provato ad ascoltare le voci che sono emerse, in particolare quelle maschili. Riguardo alla violenza maschile contro le donne, e a quello che dovremmo dire, fare e pensare per eliminarla, noi maschi prima di tutto. Questo è uno scritto che ci è sembrato degno di nota, e lo ripubblichiamo come quaderno di oggi

 

drappo rosso di gianna pulsone

Foto di Gianna Pulsone – Un drappo rosso contro i femminicidi il giorno della Repubblica

Dal profilo facebook di Peter Freeman

La storia di questa giovane donna, uccisa in un modo così atroce da un uomo, un ex fidanzato, mi ha toccato molto.

Non è la prima, non sarà l’ultima, purtroppo.

Si parlerà molto, e con buone ragioni, di femminicidio e di violenza di genere.
Io penso che più di tutti dovremmo essere noi uomini a interrogarci, a spiegare. E non perché siamo tutti potenziali autori di violenza di genere: non è così e chi lo afferma dice una stronzata. E’ vero, però, che è nella psiche maschile che si annida quasi sempre il passaggio alla violenza, ovvero il passaggio che trasforma uno stalker (esiste anche uno stalking femminile, terribile e patologico, ma quasi mai si trasforma in violenza omicida) in uno psicopatico nel migliore dei casi, in un assassino nel peggiore.
Ripeto, non sto accusando i maschi in quanto tali. Sono però i maschi a uccidere, picchiare, ferire, quasi mai le donne, e una ragione c’è e andrebbe indagata.
Ma c’è un altro aspetto che mi preoccupa, e non da oggi, neppure da ieri. E’ il ruolo che gelosia e possesso hanno ormai assunto come elemento costitutivo o comunque “validante” in molti rapporti di coppia.

Sono cresciuto, divenuto adolescente, e poi giovane uomo, per mia fortuna in un’altra epoca in cui la gelosia – un certo tipo di gelosia – era poco tollerata e comunque mal giudicata. Men che meno il possesso sul(la) partner. Il femminismo a qualcosa è servito anche a noi maschi, o almeno a coloro che hanno avuto il coraggio di interrogarsi – allora, e senza mai smettere di farlo – su ciò che le donne smuovevano e chiamavano in causa.

Oggi sento sempre più spesso proclamare la gelosia come un valore: da uomini ma anche da donne. Se mai c’è stata una cartina di tornasole di quanto noi viviamo in un’epoca regressiva e restauratrice, questa idea della gelosia come valore positivo lo è.
I nostri figli, spesso adolescenti, vivono immersi in questo clima culturale, in questa patologia relazionale. Guardo, ascolto, interrogo mio figlio e i suoi compagni e compagne, e sempre più spesso mi imbatto in frasi, pensieri, comportamenti che rimandano a un’idea possessiva e gelosa del rapporto con il proprio/a giovane partner. Tutto il loro registro emotivo-comunicativo ne è permeato. E vedo in loro una fragilità preoccupante, la difficoltà a elaborare la sofferenza di un abbandono, di un rapporto che si interrompe. Essere lasciati è per loro qualcosa di cui vergognarsi, una ferita che è difficile lenire, un vulnus inimmaginabile.

E ogni volta cerco di interloquire, di spiegare, di indirizzare verso un’idea della relazione affettiva che non sia tanto esclusiva e fragile. Temo di non riuscirci abbastanza, non sempre almeno.

Mi chiederete che c’entra tutto questo con i fatti di cronaca di questi giorni. C’entra, eccome: negli ultimi due anni ho letto più di una volta di fidanzatini che hanno ferito e a volte ucciso la loro compagna. Ragazzi, spesso adolescenti.

Penso che anche la scuola dovrebbe fare qualcosa. Oltre a propinare brevi corsi sul bullismo, conferenze contro la droga (più raramente contro l’alcolismo, che è la vera piaga di molti dei nostri figli), opuscoli per il rispetto dell’ambiente, forse i nostri docenti dovrebbero occuparsi di più di quale sia il contesto relazionale e affettivo in cui i nostri cuccioli crescono, di quali e quante miserie siano zeppi i racconti, le “narrazioni” dei loro genitori o dei loro fratelli e sorelle maggiori quando si parla della parola “amore”.

O no?

(*) ripreso da www.maschileplurale.it

 

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