Sex Machine, nascere, morire: intervista a Giuliana Musso

Giuliana Musso, attrice e regista, 38 anni, studi a Milano alla scuola drammatica Paolo Grassi, è vicentina ma vive a Udine. E’ passata in Sardegna varie volte, l’ultima a Jerzu in agosto per il festival organizzato dai Cada Die. Sarà il 23 a Dorgali, poi a Nuoro, Pirri e San Sperate.

«All’inizio il teatro non era una scelta di professionismo ma curiosità per le tecniche d’attore. C’è stato un passaggio divertito con la Commedia d’arte. Un assaggio di prosa contemporanea, per approdare nel 2001 al teatro di narrazione con “Nati in casa” scritto a 4 mani con Massimo Somaglino, regista di tutti i miei i lavori».

Perchè raccontare come si nasceva e nasce?

«In realtà Nati in casa arriva su commissione. C’era l’idea di rendere omaggio alla figura della levatrice: un luogo preciso, un paesino, dove poi lo spettacolo debuttò. Poteva essere uno spettacolo sulla memoria ma da lì siamo partiti per un altro viaggio, più lungo. Mi sono chiesta cosa vuol dire mettere al mondo figli. Con una ricerca approfondita ho scoperto la situazione del parto oggi in Italia».

I famosi cesarei che toccano un picco il venerdì, certi medici vogliono il weekend libero…

«Gli eccessi della medicalizzazione… lo spettacolo diventa quasi un manifesto: più di 200 repliche, anche per i collegi delle ostetriche dimostrano che ce n’era la necessità. Dice cose che molti sanno ma in modo diverso, ironico e poetico. Mira al cuore e alla pancia, non al cervello. Lo spettacolo stimola la voglia di condividere le esperienze: vale per padri, madri, ostetriche e medici».

Come arriva in tv?

«E’ finito anche a Report (settembre 2004) a introdurre l’inchiesta sulla procreazione assistita, era tempo di referendum. L’anno seguente ho vinto – anche con il successivo “Sex machine” – il premio della critica teatrale; è pubblicato nella collana di teatro in dvd con il quotidiano “L’unità” diventa uno strumento per le ostetriche che fanno corsi alle gestanti».

Le piace l’espressione “teatro civile”?

«Per me, è il pubblico a essere civile, cioè non le solite persone che vanno a teatro».

Il successivo «Sex machine» è choccante; e non solo per i maschi.

«Dietro c’è la mia grande curiosità sulla sessualità; sembra che conosciamo tutto e non sappiamo un tubo, soprattutto se sei una donna, proveniente dal Veneto bianco e bigotto. Ho passato due anni a studiare per raccontare il sesso commerciale (preferisco questa espressione a prostituzione): lì ci sono le più forti contraddizioni e i paradossi – nei sentimenti e comportamenti personali – che abitano la nostra società».

Lo spettacolo sottolinea che ci sono più “privè” nel vicentino che a Milano.

«Il Veneto sono io. Poi il Veneto è oggi il grande modello di progresso, potenzialità, incoerenze, contraddizioni e schifezze. Un modello non solo economico ma culturale. Nella regione più cattolica d’Italia c’è un alto consumo di prostituzione e anzi alcuni esperti lo considerano “imbattuto” sul territorio europeo, ma è la stessa regione in cui ci si preoccupa per il traffico disturbato dalle prostitute: un bisogno di sessualità che rompe le regole del costume, della coppia e allo stesso tempo è accompagnato da un bisogno di reprimere il fenomeno».

Anni fa i Pitura Freska cantavano un Veneto costruito sul denaro e l’ignoranza, è così?

«Chissà se i soldi sono causa o conseguenza. Ci si butta sul lavoro perché non si hanno altre passioni? Oggi il Veneto è pieno di villette-capannoni, di mortalità in auto ma anche di delitti in famiglia: alcuni paesi dove quasi in ogni famiglia c’è un’azienda, niente cinema figuriamoci un teatro».

Quando la Fiat era all’apice a Torino c’erano migliaia di prostitute: esiste un legame fra la produzione e il sesso a pagamento?

«Chi fa le statistiche sulla prostituzione? Le cifre che do in “Sex machine” sono approfondite ma la parte sommersa è sempre maggiore. La voglia di ricondurre le prostitute all’intermo degli spazi chiusi è una scelta che ripulisce le strada da visioni imbarazzanti e riporterà la maggior parte di queste donne a una condizione maggiore di invisibilità e di pericolo, ricattabilità, sfruttamento.

I 4 maschi e le 2 donne che lei interpreta sono patetici e brutti ma a tratti simpatici. Storie vere o invenzioni?

«Dino, il vecchietto è per intero una mia elaborazione tecnica-attoriale che si rifà alle decine di persone che ho incontrato. Avevo bisogno di un “Dino” , un vecchio che rimpiange le case chiuse con l’orgoglio di non aver mai tradito la moglie, separando la sua sessualità privata da quella pubblica. A lui potevo consegnare alcuni argomenti. La macchina del sesso è un sistema complesso, non può essere ridotto a poche verità o definizioni… Milioni di italiani hanno bisogno della sessualità a pagamento, però nessuno indaga sul perché, al massimo si ascolta qualche faccia velata in tv o qualche confessione anonima. Una giostra degli specchi. Mi sono stupita da quanto diverse siano le identificazioni e le reazioni allo spettacolo. Ogni personaggio dice la sua verità, ognuno ne riconosce o disconosce delle parti. Vittorio dice anche cose vere eppure fa schifo quando parla delle ragazzine da comprare. Vale per tutti, ognuno in certi momenti è mostro e in altri simpatico, così è la vita. Non cercavo a priori personaggi comici o drammatici, buoni o di cattivi».

Cosa sta facendo?

«Da settembre metto in scena Tanti saluti, uno spettacolo sul morire: anche in questo caso una ricerca lunga e faticosa, stavolta sui luoghi del morire oggi in Italia, intervistando decine di medici e infermiere. Fra i tre lavori per me è stato il più doloroso, però forse quello che mi ha più arricchito: alla fine del viaggio ho incontrato testi che fanno riferimento a culture orientali, che mi hanno dato moltissimo anche se non sono persona attratta da misticismi però ho riscoperto un bisogno o l’esistenza di un pensiero non razionale sugli eventi, sul nostro morire».

Questa mia intervista è uscita sul quotidiano “L’unione sarda” il 20 ottobre 2008.

 

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