Sulla rotta ribelle dei mapuche, Petü Mogeleiñ
Un dossier sui mapuche, detti anche i kurdi o i palestinesi dell’America latina
tratto da Global Project
El Maiten, nel cuore della Patagonia, è un paese di 3782 abitanti composto da case nella maggior parte a un piano, qualcuna a due, qualche centinaio di metri di strada asfaltata; per il resto todo ripio, sassi e polvere, tanta polvere. Fa sorridere incontrare un autolavaggio, rigorosamente a mano, in un luogo dove per arrivarci devi percorrere un chilometro di strada polverosa, ma qui gli standard sono nettamente diversi da quelli della città.
Siamo nel cuore della bestia, come si suol dire, circondati dalle estancias dell’impresa Benetton, che, con appezzamenti da 40.000 ettari ciascuna lungo il rio Chubut per chilometri e chilometri, una dopo l’altra, un paese dopo l’altro, compongono un paesaggio a perdita d’occhio e oltre; sì, perché l’occhio si ferma alle montagne, mentre le proprietà della compagnia italiana proseguono al di là.
A El Maiten trasmette la radio comunitaria mapuche Petü Mogeleiñ (benvenuto fratello). Por la libertad de decidir y pensar recita l’insegna, una voce per il popolo originario, ma non solo. “La Petu”, come viene chiamata dagli attivisti, è un progetto sollecitato dalle comunità resistenti disperse nel vasto territorio per assolvere alla necessità di comunicazione, realizzato dall’Associazione Ya Basta 10 anni fa, grazie all’impegno di tante e tanti, in gran parte concittadini del Gruppo trevigiano, che di buon grado hanno aderito all’appello. Il progetto originario è stato integrato negli anni con la costruzione di un salone comunitario, un luogo di incontro, aperto ai giovani, dove condividere attività culturali in forma autogestita.
Oggi la Petu diffonde messaggi che toccano le tematiche della comunità mapuche ma che sempre più spesso interessano anche tutta la popolazione: argomenti come l’agricoltura tossica, la minaccia delle imprese minerarie e petrolifere, le questioni ambientali in generale, ragionamenti di genere e contro la violenza sulle donne, militarizzazione del territorio e repressione.
Il lavoro che stanno facendo gli attivisti è tutt’altro che facile. Analizzare questi argomenti in un luogo dove l’agire del capitalismo estrattivista ha la sua espressione esemplificativa, richiede molta determinazione. Significa scontrarsi con un immaginario collettivo che va verso un’altra direzione. Nei ragionamenti quotidiani, con la gente comune, non mancano mai i riferimenti all’estancia: un punto di riferimento, un’entità superiore che tutto può, a cui chiedere aiuti e protezione, ma che in realtà ti possiede. Un immaginario costruito nel tempo, fatto anche dì piccole cose come il campo sportivo donato alla comunità, la strada risistemata, i regali per le scuole dei bambini, il grande proprietario che arriva dal cielo. Questo, nonostante le matite colorate regalate siano di scarsa qualità e si spacchino subito, che a fronte della strada sistemata ne siano state chiuse altre di accesso al rio Chubut, luogo di refrigerio della comunità locale e ora raggiungibile solo attraversando un camping, che il reddito distribuito con gli stipendi ai lavoratori della grande estancia sia paragonabile a quello prodotto da una cooperativa locale che usa un territorio immensamente più piccolo.
Nell’ultimo anno la Petu è stata in prima linea nell’appoggio alle comunità mapuche sotto attacco da parte dello stato, con il paese di El Maiten militarizzato, ridotto a dormitorio per i 300 gendarmi impegnati nelle operazioni “di sicurezza” che hanno portato al fermo di decine di persone e al triste epilogo per Santiago Maldonado. La perseveranza e determinazione degli attivisti della radio nello smascherare le menzogne diffuse dal governo e dai media nazionali proponendo un punto di vista differente, li ha portati ad essere oggetto di controlli e di indagini, foto segnalamenti nei rapporti di intelligence e indicati come appartenenti, o comunque fiancheggiatori, della Resistenza Ancestrale Mapuche (RAM), gruppo che negli ultimi tempi ha rivendicato alcuni sabotaggi contro grandi proprietari terrieri. Un paio di loro, medici, sono sospettati di aver curato un mapuche feritosi durante un attentato. Le intimidazioni comunque non trovano un terreno facile e il collettivo de la Petu continua a proporre contenuti diversi in un luogo dove la voce del capitalismo estrattivista vorrebbe essere unica.
In questi giorni l’esecuzione di un murales su una parete del salone comunitario, disegnato con la partecipazione attiva di grandi e bambini, è stata l’occasione per organizzare un’attività culturale aperta a tutta la popolazione, con la partecipazione di vari musicisti che hanno proposto canzoni incentrate sulla lotta e la repressione, fra i quali anche un gruppo formato da attivisti della radio, e con una mostra fotografica sulla pressione militare e le violenze avvenute al Pu Lof Cushamen e a Villa Mascardi.
Nonostante la repressione e le difficoltà, quello che abbiamo respirato e condiviso in questa occasione è stata la voglia di continuare in questa esperienza di informazione, alla ricerca di percorsi nuovi per riempire di contenuti questi spazi autogestiti, e tanta gioia di vivere.
Sempre su Global Project, leggi anche Sulla rotta ribelle dei mapuche – Trawun in Wallmapu e l’intervista a Moira Millàn