«Teatro come differenza» di Antonio Attisani

di Giuliano Spagnul

Libri da recuperare: sesta puntata (*)

La “convinzione che oggi il teatro non possa continuare a esistere” che apre il testo di Antonio Attisani Teatro come differenza (Feltrinelli 1978, rieditato nel 1988 da Essegi Edizioni con la prefazione di Leo de Berardinis) ci pone, a quarant’anni di distanza, la domanda se questa “convinzione” possa ancora essere seguita dall’invito a una ricerca e a “una riflessione che, evidenziando la novità rappresentata dalla situazione attuale rispetto alla tradizione del teatro, contribuiscano a rifondarne una nuova qualità, caratterizzata dalla partecipazione cosciente dei suoi soggetti alle tensioni del presente”, oppure debba esser presa così com’è nella sua apoditticità.

Rileggere questo vecchio libro, scritto sul finire di quegli anni definiti “di piombo” (da chi il piombo continua ancora a fabbricarlo e ad esportarlo ricavandone ingenti guadagni) vuol dire ritrovarsi dentro quell’apertura che si dischiude ogni qual volta ci si trova collettivamente a mettere in discussione “il criterio di volta in volta adottato per isolare il ‘teatro’ dalla teatralità sociale e quale rapporto tra questo e quella”. Differenza allora come volontà di non cedere a una omologante visione di una realtà che tramite il teatro rappresenta se stessa per poter essere criticata, emendata, nella sua forma surrogata, e poter poi essere nuovamente riassorbita in una ritrovata pacificazione collettiva.

Il teatro qui in discussione è quindi strettamente legato col rapporto che siamo in grado di instaurare con il nostro essere attori sociali; è teatro che “esprime bisogni più profondi di riappropriazione della comunicazione e della creatività” quando questi vengono ad essere sussunti in modo quasi totale, se non proprio definitivo, dalle esigenze di un nuovo e più sofisticato processo produttivo ormai assurto a dimensioni globali. Ed è proprio il teatro ad assurgere a protagonista della nostra modernità in quanto unico tra i cosiddetti “prodotti culturali” a sfuggire al destino odierno della riproducibilità legato com’è, nel suo farsi, a un “presente permanente”. È questo che ancora ci affascina, e ci coinvolge, nello spettacolo di questo arcaico (di basso o alto livello che sia) modo di rappresentare e rappresentarci; nulla di sacro in tutto ciò, solo la consapevolezza che il nostro stare al mondo “si gioca nella storia, scoprendo il rapporto tra ogni forma che si definisce teatrale e i bisogni che esprime, tra questi bisogni e il progetto politico che li rappresenta, tra i diversi progetti politici che in questa forma si rendono ‘viventi’”.

Eppure il teatro tra “tutte le arti è quella che lascia meno tracce” in quanto “oggetto senza storia” (o, parimenti, la cui storia è “senza oggetto”) il che porta quel costante bisogno di fare differenza, di “isolare il ‘teatro dalla teatralità’” di cui sopra. Insomma la storia del teatro, la sua evoluzione altro non sarebbero che il costituire “elenchi degli oggetti che lo specialista considera pertinenti alla definizione” di ciò che fa esistere la differenza fra il teatro e la vita e che lo fa esistere in quanto oggetto storico, concreto, praticabile e, nella maggior parte dei casi, rassicurante e omologante.

Questo vecchio testo ci spalanca in faccia tutte le contraddizioni di un teatro condannato a “un enorme silenzio, di un grande potenziale creativo che non si può esprimere” e che, quando è stato scritto, vedeva esplodere in pieno tutte le contraddizioni di questo potenziale creativo alla ricerca di quel “luogo della differenza, luogo in cui una società sogna e festeggia i suoi obiettivi, i suoi ‘santi’, le sue capacità e i suoi risultati; e luogo dove è possibile la religio di cui ancora abbiamo bisogno, cioè il rapporto con gli interrogativi, i fallimenti e la residua follia, una religione che non è consolazione metafisica e motivazione sovrannaturale dell’ingiustizia, ma sistema di critica e solidarietà, fusione di scienza e umanità.”

Non della storia, di cui il teatro comunque fa parte essendo da questa determinato, ma dall’idea di una propria storia evolutiva che si sviluppa per acquisizioni progressive occorre liberarsi. In definitiva: il pensare che tramite un accumulo di esperienze e conoscenze esso possa rendersi capace di capitalizzare e sfruttare al meglio la propria storia. Ma il teatro nel suo definirsi è, all’opposto (essendo fatto di, e da, corpi) l’evidente putrefazione di qualunque prodotto arrivato a maturazione. È processo quindi di un fare e disfare in un lavorio continuo che cerca costantemente forme di equilibrio per poi, subito dopo, rimetterle in discussione: che è la lotta al tempo stesso perdente e divertente della vita contro la morte. Non si può quindi che concordare con Attisani quando chiudendo il libro dice che: “non può esistere alcuna ‘politica culturale’, alcun progetto di sviluppo del teatro, ma soltanto la ridefinizione di una politica all’interno della quale il teatro viene aiutato a distruggersi dallo sviluppo di mille nuove forme di teatralità consapevole.”

Da qui occorrerebbe ripartire per poter uscire dalle secche anche di quel dibattito che oggi, soprattutto nell’emergenza Covid, sembra sempre più chiudersi nelle pressanti richieste di reddito e sicurezza a scapito dell’interrogarsi su cosa significhi, nel bene e nel male, essere diventati “prodotto culturale”.

(*) L’idea di questa rubrica è nata da un messaggio di Giuliano Spagnul: «… una serie di recensioni, coinvolgendo una lista di persone per spingere alla ristampa (o verso una nuova casa editrice) di libri fuori catalogo, preziosi, da recuperare». Siamo partiti il 2 aprile (con Giuliano ovviamente) a raccontare Gunther Anders: «Essere o non essere». Poi L’epica latina: Daniel Chavarrìa (il 14 aprile) di Pierluigi Pedretti,  «Poema pedagogico» di Anton Makarenko (il 30 aprile) di Raffele Mantegazza, «Il signore della fattoria» di Tristan Egolf (il 12 maggio) di Francesco Masala e «Chiese e rivoluzione in America latina» (il 26 maggio) di David Lifodi. Ci siamo dati una scadenza quattordicinale, all’incirca. Se qualcuna/o vuole inserirsi troverà le porte aperte. [db per la “bottega”]

 

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