«Terra Matta»: l’epopea di Vincenzo Rabito…

… un bracciante ragusano “illetterato”

di Domenico Stimolo

vincenzorabito

In ricorrenza dell’inizio del grande massacro umano italico (ed europeo) è doveroso ricordare Vincenzo Rabito.

Una persona cosiddetta illetterata, che non ha mai frequentato scuole superiori alle “elementari” o appropriati corsi di formazione d’istruzione, può scrivere un memorandum di vita, diventato libro di successo? L’intelligenza, l’esperienza di vita, la passione civile e morale, la memoria, possono essere gli strumenti fondamentali di guida nella stesura dello scritto?

Sì, è possibile!

La dimostrazione palese è rappresentata da Vincenzo Rabito (1899-1981) bracciante, cantoniere e altro ancora. Ragusano di Chiaramonte Gulfi, autodidatta, semianalfabeta (acquisì la licenza elementare a trentacinque anni) che in «Terra Matta», pubblicato nel 2007, ha rappresentato la sua epopea di vita e il quadro storico.

Conta più la potenza dell’intelletto, elemento fondante dell’essere umano. Conta la capacità di pensare razionalmente, comporre concetti ed esternarli, la protezione e l’attivazione della memoria nei profili cronologici, il mantenimento della sensibilità.

E’ la Storia, quella grande, che nel suo turbinio ha coinvolto le popolazioni, vista e descritta dal “basso”. Un rappresentante del popolo semplice, tenuto sempre all’oscuro dalle trame operate dai “potenti”, manovrato come marionetta. Racconta, senza sofismi e presunte scientificità.

Descrive il suo “secolo breve”. L’ accaduto di un proletario siciliano, sempre alle prese (lui e la famiglia) con l’orrida quotidianità che li riguarda, attraverso gli eventi più tragici che hanno caratterizzato le vicende d’Italia: la “grande guerra”, la dittatura fascista, le imprese coloniali, la guerra di aggressione nazifascista, la ricostruzione, il tentativo del riscatto, nel cambiamento complessivo, per rompere l’assoluta immobilità che ha caratterizzato lo scorrere plurisecolare del tempo, quando la stragrande maggioranza delle persone pativa la fame, prevaleva l’asservimento e contava il totale rispetto per i nobili, i feudatari e i ceti privilegiati in gran parte parassitari.

Una situazione identica nell’impianto generale, per contesto sociale, tribolazioni e sfruttamenti, a quella patita dalla stragrande maggioranza delle persone che hanno “attraversato” la vita in Sicilia, nel Meridione in generale (e non solo) nei primi settant’anni del secolo scorso.

Era, già anziano, aveva 69 anni, quando iniziò a stendere il suo memoriale, battendo su una vecchia macchina da scrivere 1027 pagine con spazio a interlinea stretta. Il lavoro durò per sette anni. Di fatto inventò una “differente parlata” scritta, non consona allo schema ufficiale. Molte parole sono storpiate, in particolare l’uso delle separazioni: virgola, punto, punto e virgola assumono un ritmo personale. Da “illetterato” traslò il parlato “delle buone occasioni”, un misto fra il dialetto siciliano chiaromontese e l’italiano, a scrittura “vivente”. Il risultato, che certamente fa arricciare il naso ai professionisti delle scienze intellettuali e dell’uso grammaticale, è proprio eccezionale.

Chi leggerà il libro (che riprende solo una parte dell’enorme scritto) non essendo originario della Sicilia, e in particolare dell’area orientale, può avere difficoltà nello scorrimento comprensivo. Però, tant’è! E’ il popolo, da sempre sbeffeggiato, che parla, mettendosi finalmente in cattedra.

Rimasto orfano di padre (in una famiglia numerosa) Vincenzo Rabito iniziò a lavorare in campagna a sette anni. La triste “sorte” toccata a molti altri bambini siciliani; i più sfortunati, a migliaia, costretti a lavorare nel malefico buio del sottosuolo delle miniere di zolfo, giusto per rimediare un soldo e una pagnotta.

Scrive: «Io ero piccolo ma era pieno di coraggio, con pure che invece di antare alla scuola sono antato allavorare da 7 anne, che restaie completamente inalfabeto. Quinte io, che capiva che cosa voleva dai suoi figlie mia madre, per fare soldei mi n’antava magare allavorare lontano di Chiaramonte, bastiche io portava solde a mia madre. Perché mia madre non dormeva alla notte, perché penzava che aveva 7 figlie…..la più picola ne aveva 3 mese».

Appena compiuti i 18 anni, diventò un “ragazzo del 99” (era nato nel 1899) – cioè quelli che seminarono di carne e di ossa le terre dell’alto nord-est d’Italia – pronto, come comandato dai regnanti, a sacrificarsi (in caso diverso erano pronti i plotoni di esecuzione) per la patria «nelle immane stragi umane consumatosi nella “grande guerra”, al grido dell’avanti Savoia». Così, nominato militare, racconta la sua triste partenza dal paese (era il 19 febbraio del 17): «E davero il lunedì, alle ore 11, erimo tutte nella piazza di Chiaramonte con 8 carrette, che tutte ci abbiamo messo tutto il manciare che ni avevino preparato li nostri mamme. Così, recordo che la piazza di Chiaramonte quella notte del 19 febbraio, era piena come fosse la festa della Madonna, perché tutte li famiglie, picole e crante, erino nella piazza. Io ci aveva ammia madre e i mieie fratelline esorelline che piancevino, ma non c’era niente che fare, si doveva partire per forzza, perché li carabiniere l’avemmo sempre a tuorno a tuorno, che erino nella piazza per vedere chi è che voleva partire».

I misfatti della guerra occupano una parte abbondante del libro. Più di un quarto dello scritto pubblicato, per oltre 110 pagine. Con grande maestria Vincenzo Rabito descrive gli orrori direttamente vissuti….fino alla “vittoria”.

Il linguaggio usato, descrittivo degli eventi, con le valutazioni e le sensazioni, è molto naturale, così come certamente è sgorgato, senza inibizioni e censure, trovandosi al centro di quelle drammatiche vicende. Ricostruisce la realtà, le verità, senza le retoriche dei bellicisti che aulicamente hanno “cantato” le bellezze della guerra. Viene ricostruita la vera dimensione degli umani – quelli normali, non ubriacati dalla retorica – senza filtri di “protezione”, consumatasi nelle trincee e nei campi di battaglia, fra i morti, i lamenti dei feriti e dei mutilati, il suono delle bombe e delle mitraglie, i secchi comandi, le grida ossessive dell’attacco.

Scrive: «Così, di Vecenza hanno fatto venire 2 battaglione della compagnia di morte, che questi battaglione di morte erino tutte Ardite, e tutte delinquente, tutte fatte uscire a posetamente della galera propia per queste deficile imprese. E poi, d’ogni battaglione di queste, erino 1.000 soldate di queste soldate delinquente, quinte erono 3 battaglione. E li stessi officiale erino delinquente. Poi queste, quanto davino l’asalto, quello che dovevino fare l’avevino a fare in 3. 4 ore, e in queste 3 o 4 ore la posezione vero la conquistavono, e ni partevino 3.000 di queste malantrine soladte vive, ma ne potevino ritornare 300, perché totte li mazzavino…».

Riporta ancora, riguardo l’attacco a Monte Fiore: «E il nostro elimento era la bestemia, tutte l’ore e tutte li momente, d’ognuno con il suo dialetto: che butava besteme alla siciliana, che li botava venite, che le butava lombardo, e che era fiorentino bestemiava fiorentino, ma la bestemia per noie era il vero conforto».

Poi… arrivò la pace. Rabito rimase soldato per qualche anno ancora. Racconta che fu inviato a Firenze per molti mesi e ad Ancona durante la rivolta popolare e dei bersaglieri (giugno 1920). Fu congedato dopo la “Marcia su Roma” fascista.

Il tempo scorre, scorre… Altre sventure attendono gli italiani e Vincenzo Rabito, dismessa la divisa, riprende le vicissitudini della vita. Nella sua personale quotidianità nulla è mutato rispetto a prima della partenza per il fronte. Viene la presa del potere da parte dell’eia, eia, alalà, con tutte le tragiche conseguenze che ricadono sul Paese. La dittatura infame, le imprese coloniali, le leggi razziali, l’alleanza con la Germania nazista, la nuova guerra. Più grande e distruttiva dell’altra.

Vincenzo Rabito registra tutto nel suo memorandum. La sua vita procede, alquanto sofferente e travagliata, dentro questi sconquassamenti con le lunghe camminate a piedi, strumento principale di spostamento nelle medie distanze. Continua a fare il bracciante e l’operaio manuale in cantieri esterni. Le conseguenze dell’assolutismo mussoliniano ricadenti sul popolo sono sempre in agguato. Con l’inganno viene fatto diventare “camicia nera” e sbarca nelle sponde dell’impero in Libia. Aveva espresso volontà di andare nelle colonie come lavoratore civile… invece gli fecero firmare “ben altro”.

Ecco come racconta la trappola. Era l’anno 1935: «Così, revaie a Enna, come per partire per lavorare, e invece c’era un battaglione di camicie nere che dovevino partere per l’Africa, tutte volontarie. E io, come mi ho inteso chiamare: – La camicia nera Rabito Vincenzo, qui ene il tuo zaino, il tuo fucile, – mi ha parso che mi avessero dato una pugnalata nella schiena. Io non potte parlare, perché mi avevavo fatto mettere 3 firme con li mieie propia mane». Poi, dopo il congedo (era il settembre del 36) ritorna in Africa; Etiopia, Somalia, Eritrea, come lavoratore civile nei cantieri. Ritornò a Chiaramonte Gulfi il 5 ottobre del 39.

Vincenzo si sposa e mette su famiglia. Venne di nuovo la guerra, quella proclamata dalla “razza eletta” che voleva conquistare il mondo. Mussolini e il re – il “piccoletto” – si aggregarono all’«allegra» comitiva nazista. Nel frattempo Rabito parte per la Germania, da lavoratore emigrante. In quegli anni di massacri europei furono tanti gli italiani che portarono le loro braccia nella terra del principale componente dell’Asse. Ritornò in Sicilia, a Chiaramonte, quasi alla viglia dello sbarco degli alleati nell’isola, luglio del ’43.

Da qui si dipana la seconda fase del libro. Dopo pochi mesi l’isola non fu più direttamente interessata dagli eventi bellici ma tanti siciliani, dopo l’8 settembre continuarono a combattere sui fronti interni ed esterni… era iniziata la Resistenza.

Vincenzo diventò cantoniere stradale. Gli anni corrono. Lui non partecipò ai grandi movimenti di lotta che si svilupparono in Sicilia, per la conquista delle terre, contro la mafia e il potere latifondista, nell’ambito di una terra che lentamente e con grandi sacrifici, cambiava pelle.

Si usciva dalla povertà più grande. Anche per lui e la sua famiglia venne il riscatto sociale, con due figli laureati.

Dopo un percorso di vita lungamente travagliato, Vincenzo Rabito chiuse gli occhi in un dì del 1981.

Il suo enorme scritto fu “tirato fuori” da un figlio (Giovanni) che l’inviò all’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano: quindi il memorandum, diventato libro, iniziò a “volare”.

 

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