Trattori in marcia

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articoli e video di Les soulevements de la terre, Miguel Martinez, Piero Bevilacqua, Matteo Saudino, Pubble, Luca Martinelli, Contre Attaque, Igor Giussani

I trattori in strada raccontano la fine di un modello agricolo – Luca Martinelli(*)

La crisi dei prezzi è la crisi di un sistema produttivo che non valorizza filiere e non è certo alla ricerca della sostenibilità.
La sovranità alimentare concepita dal ministro Lollobrigida non rispetta e non tutela acqua e suolo. Dal coordinamento europeo di Via Campesina la richiesta di una rilettura nella chiave della “transizione ecologica”.

Per un ministro che ha fatto della sovranità alimentare la propria bandiera, come Francesco Lollobrigida, è senz’altro complesso accettare le proteste degli agricoltori e degli allevatori che anche in Italia bloccano da qualche giorno strade e caselli autostradali. Non c’è voluto molto, quindi, affinché il titolare dell’Agricoltura nel Governo Meloni decidesse di incontrare il cosiddetto “movimento dei trattori”, cosa avvenuta il 31 gennaio davanti alla Fieragricola di Verona.

Il giorno prima, di fronte alle proteste che nella Tuscia avevano portato a bruciare una bandiera di Coldiretti, tra le associazioni di categoria senz’altro la più vicina all’esecutivo, Lollobrigida ne aveva preso le difese, sostenendo che la mobilitazione non dovrebbe mettere agricoltori contro agricoltori, posto che secondo lui “gli agricoltori sono i primi ambientalisti del territorio”, come ha detto entrando alla Fieragricola.
La visione del ministro è quella neo-bucolica, secondo cui a protestare “sono quelli che proteggono quello che hanno di più prezioso, la terra che gli ha dato il pane, e deve tornare a darglielo arricchendo loro e le loro famiglie, e in questo anche la nostra nazione, e difendendo il nostro valore di riferimento che è la qualità”. E ancora: “L’agricoltore nell’ambiente e nella terra ha il suo patrimonio principale, ha quello che gli garantisce il reddito. Pensare che lo distrugga con le sue attività è una cosa che non ha logica”.

Eppure lo fa, come dimostrano le analisi sul degrado del suolo condotte in Italia dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, guardando alle azioni che riducono la capacità in termini di produttività di un “tappeto magico” che non è minacciato solo dall’impermeabilizzazione ma anche da un modello agricolo non sostenibile, che rilascia nel suolo stesso e da lì nell’acqua di falda e in quella superficiale pesticidi di cui si ritrovano concentrazioni superiori ai limiti di legge.
È il caso, ad esempio, degli erbicidi glifosate e del suo metabolita Ampa, del metolaclor e del metabolita metolaclor-esa, di imazamox, esaclorobenzene e nicosulfuron, o tra i fungicidi di azossistrobina, dimetomorf, carbendazim e metalaxil, come evidenza l’ultimo Rapporto nazionale sui pesticidi nelle acqua di Ispra (edizione 2022).

La realtà, anche leggendo le cronache sui quotidiani in questi giorni, è che chi protesta sta inconsapevolmente denunciando il fallimento di un modello agricolo che è in realtà agro-industriale, un sistema che non regge, basato su produzioni intensive senza alcun controllo della filiera e dei prezzi, in balia della grande distribuzione (nel caso di prodotti destinati al consumo umano) o dell’industria mangimistica, per quei prodotti come il mais che ormai non vengono più prodotti per l’uomo, ma per diventare il cibo insostenibile del nostro cibo, cercando quindi di massimizzare la resa per ettaro anche a discapito della qualità ambientale del lavoro agricolo e pur a fronte di situazioni contingenti come la scarsità idrica che riguardano in particolare l’area della Pianura Padana e renderebbero opportuno modificare il tipo di colture, come ricordato anche dal segretario generale dell’Autorità distrettuale del Po, Alessandro Bratti.

Ecco perché raccontando la protesta dei trattori avrebbe senso amplificare la voce di quelle realtà che lottano per una nuova agricoltura, come i francesi di Confédération paysanne che chiedono ad esempio “l’introduzione di prezzi garantiti per i nostri prodotti agricoli, la definizione di prezzi minimi d’ingresso nel territorio nazionale, il sostegno economico alla transizione agro-ecologica commisurato alle problematiche in gioco, la priorità alla creazione e non all’ampliamento delle aziende agricole, il blocco dell’artificializzazione dei terreni agricoli”, o Via Campesina, il cui coordinamento europeo ha diffuso un “Manifesto per la transizione agricola per affrontare la crisi”.

Le rivendicazioni sono puntuali: “Chiediamo un bilancio adeguato affinché i sussidi della Politica agricola comune (Pac) vengano ridistribuiti per sostenere la transizione verso un’agricoltura in grado di affrontare le sfide della crisi climatica e della biodiversità. Tutti gli agricoltori già impegnati e che vogliono impegnarsi in processi di transizione verso un modello agroecologico devono essere sostenuti e accompagnati nel lungo periodo.
È inaccettabile che nell’attuale PAC la minoranza di aziende agricole più grandi monopolizzi centinaia di migliaia di euro di aiuti pubblici, mentre la maggioranza degli agricoltori europei non riceve alcun aiuto, o solo le briciole
”.

I contadini esprimono preoccupazione per i “tentativi dell’estrema destra di sfruttare questa rabbia e le varie mobilitazioni per promuovere la loro agenda, negando il cambiamento climatico, chiedendo standard ambientali più bassi e puntando il dito contro i lavoratori migranti nelle aree rurali. Non sono queste le cause del disagio, e non contribuiranno a migliorare le condizioni degli agricoltori. Al contrario -continua un comunicato stampa del coordinamento di Via Campesina in Europa – negare la crisi climatica rischia di intrappolare gli agricoltori in un susseguirsi di catastrofi sempre più intense: ondate di calore, inondazioni, tempeste, ecc. È necessario agire: noi agricoltori siamo pronti ai cambiamenti necessari per affrontare queste crisi, a patto di non essere più costretti a produrre al prezzo più basso possibile. Allo stesso modo, i lavoratori migranti svolgono oggi un ruolo fondamentale sia nella produzione agricola che nell’industria agroalimentare: senza di loro non ci sarebbero forza lavoro sufficiente in Europa per produrre e trasformare il nostro cibo. I diritti dei lavoratori agricoli devono essere integralmente rispettati”.

Una delle possibili soluzioni è forse quella di scendere dai trattori da 200mila euro che Brunella Giovara ha visto alle porte di Milano per la Repubblica per tornare a un’agricoltura contadina e a filiere di produzione e distribuzione capaci di riconoscere un prezzo equo.

(*) Tratto da Altreconomia

 

 

Perché Soulèvements è in strada – Les soulevements de la terre

Ci sembra di straordinario interesse questo documento di Les soulevements de la terre, uno dei più interessanti e repressi movimenti francesi degli ultimi anni che declina le proteste per il clima con la gestione dell’acqua e dunque contro l’agricoltura intensiva, senza separare le questiona ecologica dalla questione sociale. Non solo perché ricostruisce in modo puntuale le ragioni della importante quanto complessa lotta dei contadini in Europa, ma perché allarga il concetto di lotta dal basso intrecciando umiltà, rabbia e amore per la terra. “L’attuale movimento, nella sua eterogeneità, è stato questa volta avviato e ampiamente sostenuto da forze diverse dalle nostre… Possiamo solo rallegrarci del fatto che oggi la maggioranza degli agricoltori blocchi il paese. Certo è un peccato che, nei negoziati col governo, siano rappresentati dalla FNSEA e dai padroni dell’agroindustria…, per di più in un momento in cui i dirigenti del sindacato di maggioranza non vengono solo copiosamente fischiati in alcuni dei blocchi, ma non riescono nemmeno più a mantenere le loro basi. Molte persone presenti nei blocchi organizzati non sono sindacalizzate e non si sentono rappresentate dalla FNSEA…”. Uno tra le principali ragioni che spingono gli agricoltori alla protesta è che i gruppi industriali intermediari sia a monte che a valle dei settori che strutturano il complesso agroindustriale, “li spossessano dei prodotti del loro lavoro…”. Gli accordi internazionali di libero scambio – denunciati, tra gli altri, dalla Confédération paysanne e dalla Coordination rurale -, oltre a mettere in competizione i contadini di tutto il mondo, hanno accelerato questi processi: così si riduce il numero di contadini e l’agroindustria espande superfici agricole e profitti. A tutto questo si aggiunge la brutalità del cambiamento climatico, di cui l’agricoltura industriale è tra le principali cause. “Pur non avendo lezioni da impartire agli agricoltori né false promesse da rivolgergli – scrive Les soulevements de la terre -, l’esperienza delle nostre lotte a fianco dei contadini – che si tratti di contrastare grandi progetti, inutili e imposti, come i mega bacini, o di riappropriarsi dei frutti dell’accaparramento delle terre – ci ha offerto alcune certezze che guidano le nostre scommesse strategiche… L’ecologia sarà contadina e popolare oppure non sarà… Crediamo anche nella fecondità e nel potere delle alleanze estemporanee…”

 

Ecco ormai trascorsa una settimana da quando il mondo agricolo ha preso ad esprimere chiaramente e nei fatti la sua rabbia: rabbia di una professione diventata quasi impraticabile, in crollo sotto la brutalità degli sconvolgimenti ecologici che si annunciano e sotto asfissianti vincoli economici, normativi, amministrativi e tecnologici. Mentre i blocchi continuano un po’ ovunque, presentiamo alcune posizioni circa la presente situazione espresse dal punto di vista dei Sollevamenti della Terra (Les soulevements de la terre).

Siamo un movimento composto da abitanti delle città e delle campagne, di ecologisti e contadini già installati sulla terra o in procinto di installarsi. Rifiutiamo la polarizzazione che alcuni cercano di creare tra questi mondi. Abbiamo fatto della difesa della terra e dell’acqua – strumenti di lavoro degli agricoltori e degli ambienti di produzione alimentare – il principio e il punto di ancoraggio della nostra azione. Da anni ci mobilitiamo contro i grandi progetti di artificializzazione che li devastano, contro i complessi industriali che li avvelenano e li monopolizzano. Saremo chiari: l’attuale movimento, nella sua eterogeneità, è stato questa volta avviato e ampiamente sostenuto da forze diverse dalle nostre; con obiettivi dichiarati che a volte divergono dai nostri, che altre volte ci vedono assolutamente d’accordo. In ogni caso, quando sono iniziati i primi blocchi, noi dei diversi comitati locali abbiamo aderito ad alcuni di esse e ad alcune azioni. Siamo andati a incontrare i contadini e gli agricoltori mobilitati, abbiamo parlato con i nostri compagni di diverse organizzazioni contadine per comprendere la loro analisi della situazione. Noi stessi ci siamo ritrovati nel dignitoso moto di rabbia di chi rifiuta di rassegnarsi alla propria estinzione.

Possiamo solo rallegrarci del fatto che oggi la maggioranza degli agricoltori blocchi il paese. Certo è un peccato che, nei negoziati col governo, essi siano rappresentati dalla FNSEA e dai padroni dell’agroindustria, per di più in un momento in cui i dirigenti del sindacato di maggioranza non vengono solo copiosamente fischiati in alcuni dei blocchi, ma non riescono nemmeno più a mantenere le loro basi. Molte persone presenti nei blocchi organizzati non sono sindacalizzate e non si sentono rappresentate dalla FNSEA. Nato nel dopoguerra, questo sindacato egemone sostiene da decenni lo sviluppo del sistema agroindustriale, in cogestione con lo Stato. È questo sistema che mette una corda al collo dei contadini, che li sfrutta per alimentare i propri profitti e che alla fine li spinge a indebitarsi per espandersi al fine di rimanere competitivi o scomparire. Nel 1968 Michel Debatisse, allora segretario generale della FNSEA, prima di diventarne presidente, disse: “Due terzi delle aziende agricole non hanno, in termini economici, alcun motivo di esistere. Siamo d’accordo per ridurre il numero degli agricoltori”. Missione più che riuscita: il numero degli agricoltori e dei lavoratori agricoli è passato da 6,3 milioni nel 1946 a 750.000 nell’ultimo censimento del 2020. Mentre il numero dei trattori nelle nostre campagne è aumentato di circa il 1000%, il numero delle aziende agricole è diminuito del 70% e quello dei lavoratori agricoli dell’82%. In altre parole, più di 4 lavoratori su 5 hanno abbandonato il lavoro agricolo in un periodo di soli quattro decenni, tra il 1954 e il 1997. E la lenta emorragia continua ancora oggi…

Mentre la dimensione media di un’azienda agricola in Francia (nel 2020) è di 69 ettari, quella di Arnaud Rousseau, attuale direttore della FNSEA, ex intermediario e commerciante sfornato da una business school, ammonta a 700 ettari, senza contare il fatto che egli sia a capo di una quindicina di imprese, holding e aziende agricole, nonché presidente del consiglio di amministrazione del gruppo industriale e finanziario Avril (Isio4, Lesieur, Matines, Puget, ecc.), direttore generale della Biogaz du Multien (una società di metanizzazione), amministratore della Saipol, leader francese nella trasformazione dei semi in olio, o ancora presidente del consiglio di amministrazione di Sofiproteol…

Per i dirigenti della FNSEA, così come per i leader delle più grandi cooperative agricole – abbondantemente rappresentate dalla “Fédé” e dai suoi satelliti – è la grande abbuffata: il reddito medio mensile delle dieci persone più pagate nel 2020 all’interno della cooperativa Eureden ammonta a 11.500 €.

I redditi medi dei contadini sventolati sui palcoscenici e il mito dell’unità organica del mondo agricolo mascherano una disparità di reddito sconcertante e violente disuguaglianze socio-economiche che non possono più essere dissimulate: i margini dei piccoli produttori continuano a erodersi mentre i profitti dei complessi agroindustriali esplodono.

Secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO), percentuale del prezzo di vendita destinata agli agricoltori è scesa dal 40% nel 1910 al 7% nel 1997. E questo ovunque, nel mondo. Dal 2001 al 2022, i distributori e le aziende agroalimentari del settore lattiero e caseario hanno visto il loro margine lievitare rispettivamente del 188% e del 64%, sebbene quello dei produttori vada stagnando, quando non sia semplicemente negativo.

Uno fra i motivi che spingono il mondo agricolo a bloccare le autostrade, a svuotare bottiglie di latte al Carrefour (Epinal-Jeuxey), a bloccare le fabbriche Lactalis (Domfront, Saint-Florent-le-Vieil, ecc.), ad arare un parcheggio (Clermont-l’Hérault), a bloccare il porto di La Rochelle, a svuotare i camion provenienti dall’estero, a spargere liquame su una prefettura (Agen), a mettere sottosopra un McDonald’s (Agens), è che i gruppi industriali intermediari sia a monte (fornitori, venditori di prodotti agricoli e attrezzature, aziende di semenze industriali, venditori di fertilizzanti, pesticidi, alimenti…) che a valle (cooperative di raccolta e distribuzione come Lactalis, grande distribuzione industriale e agroalimentare come Leclerc…) dei settori che strutturano il complesso agroindustriale, li spossessano dei prodotti del loro lavoro.

È questa spoliazione del valore aggiunto organizzata dalla catena dei settori industriali che spiega come, oggi, senza le sovvenzioni che svolgono un ruolo perverso di stampelle del sistema (oltre ad avvantaggiare i più grandi) il 50% di coltivatori e allevatori avrebbe un conto negativo ante imposte: per i bovini da latte, il guadagno totale calcolato al di fuori dei sussidi, il quale si aggirava intorno a una media di 396 € per ettaro tra il 1993 e il 1997, è diventato negativo alla fine degli anni 2010 (-16 € per ettaro in media), mentre il numero di agricoltori presi in considerazione da la Rete Informativa Contabile Agraria del settore è passata in questo periodo da 134.000 a 74.000 [2]…

Gli accordi internazionali di libero scambio (denunciati dalla Confédération paysanne e dalla Coordination rurale), oltre a mettere in competizione i contadini di tutto il mondo, hanno anche accelerato queste depredazioni economiche. Sappiamo bene che, oggi, quando si parla di “liberalizzazione”, di “aumento di competitività” o di “ammodernamento” delle strutture, significa che aziende agricole scompariranno, che la policoltura associata ad allevamento (rappresentata attualmente solo dall’11% delle aziende agricole) diminuirà, lasciando solo un deserto verde di monocolture industriali guidate da agricoltori alla guida di strutture sempre più indebitate e sempre meno in controllo di uno strumenti di lavoro e di un conto bancario che finisce per appartenere solo ai creditori.

Il riscontro è senza appello: meno agricoltori ci sono, meno riescono a guadagnarsi da vivere, a meno che non espandano continuamente la loro superficie agricola, divorando i loro vicini. In queste condizioni, “diventare un manager d’impresa”, come promette la FNSEA, è in realtà ritrovarsi nella stessa situazione di un autista Uber che si indebita fino al collo per acquistare il suo veicolo, quando dipende da un unico committente per eseguire la sua attività… a questo aggiungiamo la brutalità del cambiamento climatico (siccità, incendi, inondazioni, ecc.), le perturbazioni ecologiche che portano alla moltiplicazione di malattie emergenti e epizootiche e… e la professione diventa quasi impossibile, invivibile, tanta e tale è l’instabilità.

Se ci solleviamo, è in gran parte contro le devastazioni di questo complesso agroindustriale, con il ricordo vivido delle aziende agricole delle nostre famiglie che abbiamo visto scomparire e con l’acuta consapevolezza della profondità delle difficoltà che incontriamo nel nostro cammino d’installazione. Sono queste industrie e le mega-corporazioni d’accaparramento che le accompagnano – inghiottendo la terra e le fattorie circostanti, accelerando la trasformazione in marche della produzione agricola e così uccidendo, silenziosamente, il mondo contadino – sono queste industrie che abbiamo preso di mira nelle nostre azioni fin dall’inizio del nostro movimento: e non la classe contadina.

Se affermiamo che la liquidazione economica e sociale del mondo contadino e la distruzione degli ambienti di vita sono strettamente correlate – le aziende agricole scompaiono allo stesso ritmo degli uccelli dei campi, il complesso agroindustriale stringe la sua morsa mentre il riscaldamento globale accelera – non ci facciamo certo sfuggire gli effetti deleteri di una certa ecologia industriale, manageriale e tecnocratica. La gestione dell’agricoltura secondo norme ambientali e sanitarie è quindi assolutamente ambigua. Incapace di tutelare realmente la salute delle popolazioni e degli ambienti di vita, essa ha soprattutto costituito, dietro buone intenzioni, un nuovo vettore di industrializzazione delle aziende agricole. Gli investimenti colossali richiesti dagli aggiornamenti normativi nel corso degli anni hanno ovunque accelerato il processo di concentrazione delle strutture, la loro burocratizzazione a suon di controlli permanenti e la perdita di senso del mestiere.

Ci rifiutiamo di separare la questione ecologica dalla questione sociale, o di farne una questione di cittadini consumatori responsabili, di cambiamenti nelle pratiche individuali o di “transizioni personali”. È impossibile esigere da un allevatore intrappolato in un settore iper-integrato che faccia un’improvvisa sterzata e che si sottragga da un modo di produzione industriale, così come è vergognoso chiedere che milioni di persone strutturalmente dipendenti dagli aiuti alimentari inizino a “consumare biologico e locale”. Né vogliamo ridurre la necessaria svolta ecologica del lavoro della terra a una questione di “regolamenti” o di “un insieme di norme”: la salvezza non arriverà rafforzando il controllo delle burocrazie sulle pratiche contadine. Nessun cambiamento strutturale arriverà finché non allenteremo la morsa dei vincoli economici e tecnocratici che gravano sulle nostre vite: e possiamo liberarcene solo attraverso la lotta.

Pur non avendo lezioni da impartire agli agricoltori né false promesse da rivolgergli, l’esperienza delle nostre lotte a fianco dei contadini – che si tratti di contrastare grandi progetti, inutili e imposti, come i mega bacini, o di riappropriarsi dei frutti dell’accaparramento delle terre – ci ha offerto alcune certezze che guidano le nostre scommesse strategiche.

L’ecologia sarà contadina e popolare oppure non sarà. I contadini scompariranno insieme alla sicurezza alimentare delle popolazioni e ai nostri ultimi margini di autonomia di fronte ai complessi industriali, se non sorgerà un vasto movimento sociale che, di fronte al loro accaparramento e alla loro distruzione, miri a riappropriarsi delle terre. E scompariranno se non abbattiamo le barriere (trattati di libero scambio, deregolamentazione dei prezzi, influenza monopolistica dell’industria agroalimentare e degli ipermercati sui consumi delle famiglie…) che sigillano la presa del mercato sulle nostre vite e sull’agricoltura, se non blocchiamo la corsa a capofitto tecno-soluzionista (il trittico biotecnologie genetiche / robotizzazione / digitalizzazione), se i principali megaprogetti della ristrutturazione del modello agroindustriale non verranno neutralizzati, se non troviamo le leve adeguate di socializzazione dell’alimentazione che permettano insieme di garantire il reddito dei produttori e il diritto universale al cibo.

Crediamo anche nella fecondità e nel potere delle alleanze estemporanee. In un momento in cui la FNSEA cerca di riprendere il controllo del movimento – in particolare rimuovendo da alcuni blocchi tutto ciò che non assomiglia ad un agricoltore “sindacalizzato” dei loro – crediamo che la svolta possa venire dall’incontro tra gli agricoltori mobilitati e le altre frange del movimento sociale ed ecologico che si sono sollevate negli ultimi anni contro le politiche economiche predatorie del governo. Il “corporativismo” è sempre stato il fondamento dell’impotenza contadina. Proprio come la separazione dai mezzi di sussistenza agricoli ha spesso segnato la sconfitta dei lavoratori.

Forse è giunto il momento di abbattere qualche muro – continuando a rafforzare alcuni blocchi, andando incontro al movimento di chi ancora, in questi blocchi, non ci ha messo piede, proseguendo nei prossimi mesi le lotte comuni tra abitanti dei territori e lavoratori della terra.

[Traduzione di Francesco Zevio]

da qui

 

 

Contadini – Miguel Martinez

E’ da un po’ che mi manca il tempo per scrivere: un buon segno, vuol dire che sto facendo molte cose interessanti.

Ieri sera comunque abbiamo parlato tra amici e complici della grande rivolta contadina che è scoppiata in queste settimane in Europa.

Piccola scena commovente: i contadini francesi che sequestrano il cibo importato ai camion che lo stanno portando ai supermercati perché costa ancora di meno di quello francese, e lo distribuiscono ai Restos du coeur per sfamare i senza tetto.

La premessa: alla base di tutta la nostra vita c’è la produzione agricola.

Che è rappresentata da due vicini di casa.

Il primo è Giovanni da Montespertoli, che ieri sera ci faceva assaggiare il vino, il formaggio e la soprassata che lui cresce, cura e vende al mercato contadino alla Gavinana.

Il secondo è il suo vicino di campo: un imprenditore del rame con base a Milano. Un commercialista gli ha suggerito un modo facile per arricchirsi ancora di più – intercettare i fondi europei per l’agricoltura (il 60% delle risorse europee finisce in agricoltura), e così lui ha mandato un omino benvestito a Montespertoli a comprargli un campo che fa cospargere incessantemente di prodotti chimici, dove ogni tanto qualche operaio viene mandato a raccogliere i prodotti che ottengono i sussidi. Poi si potrebbero pure buttare, ma c’è pure un ridicolo margine in più a vendergli alla Grande Distribuzione Organizzata.

Oggi, spiega Giovanni, tutta la categoria è in difficoltà estrema.

Per poter produrre abbastanza da ottenere un minimo margine dalle multinazionali della grande distribuzione, il contadino deve attingere a ogni possibile canale, tra fondi europei (che però si riversano soprattutto sulle grandi imprese) e prestiti, per “modernizzare” il proprio lavoro, cioè per fare di ciò che nasce dalla biodiversità, una replica della fabbrica. Insomma, il sistema finanziario obbliga il contadino, per sopravvivere, a distruggere l’ambiente; e il prezzo per salvare l’ambiente consiste nel privare il contadino della sua sopravvivenza.

La rivolta contadina è quindi una questione complessa, anche dal punto di vista ambientale. Ma alla fine, la questione è sempre quella – il modo incredibile in cui il capitalismo riesce a distruggere sistematicamente ogni possibilità di vita umana e non.

Qualche sera fa, sull’autostrada che collega Milano e Bergamo, di notte vediamo, tra gli infiniti capannoni, uno più grande e brutto degli altri, ma tutto illuminato (alla faccia della sostenibilità) a tricolore – luce verde, rossa e bianca , e la scritta PLANET FARMS.

Colpiti dal kitsch sovranoidale, indaghiamo: si tratta di un’immensa fabbrica dove pochi operai producono un’insalata “senza pesticidi”: infatti non servono, visto che gli insetti non ci possono entrare, come non ci possono entrare i raggi del sole e nemmeno un granello di dirt (che in inglese indica significativamente sia terra che sporco).

E finalmente capisco come il Green sia il nemico ultimo e assoluto della Natura.

La mattina dopo, dalla casa di Bergamo dove ci ospitano degli amici, apriamo la finestra e guardiamo fuori.

Una giornata splendida, solo se che c’è in lontananza una densa nuvola nerissima: scopriamo che durante la notte, ha preso fuoco proprio Planet Farms.

Che non sapevo mica che l’insalata facesse un fumo così:

 

Sulla rivolta contadina, suggerisco due importanti letture.

La prima è un articolo di Dario Dongo, Italia, protesta degli agricoltori contro Coldiretti. #VanghePulite, che apre un mondo.

La seconda è un articolo di Igor Giussani, Sulla protesta degli agricoltori tedeschi, che approfondisce la falsa questione dei sussidi.

da qui

 

 

Francia: i migliori slogan visti sui trattori

Per coprire la rivolta degli agricoltori, come sempre, i media dominanti hanno scelto di dare la parola solo ai loro alleati di classe: i grandi boss dell’agroalimentare e i rappresentanti della FNSEA, la lobby inquinatrice e produttivista legata al macronismo.

Tradotto da Contre Attaque

Ma la rabbia degli agricoltori va ben oltre le semplici richieste sul diesel o sugli standard ecologici, come vorrebbe farci credere la FNSEA. Per molti, si tratta di una rabbia per la dignità, per una paga equa e per la fine del neoliberismo. La prova è negli slogan affissi sui trattori a Nantes e Angers negli ultimi giorni, che uniscono umorismo e anticapitalismo e denunciano apertamente la FNSEA e i pesticidi.

Contrariamente all’idea diffusa dai media, questi agricoltori non oppongono l’ecologia alla loro professione, anzi. Vogliono un’agricoltura che rispetti la terra e gli esseri viventi e non sia soggetta a interessi finanziari. Non meritano il disprezzo per il mondo rurale che è fin troppo diffuso a sinistra. La società del futuro non può essere concepita senza tenere conto della questione cruciale dell’agricoltura che ci nutre tutti.

Gli agricoltori della Confédération Paysanne sono stati presenti in molti cortei per la difesa delle pensioni nel 2023, ma anche contro i megabacini e hanno partecipato regolarmente alle manifestazioni a Nantes nel corso degli anni. Una parte del mondo agricolo è coinvolta nella lotta sociale e va sostenuta! Non lasciamoli soli.

Adoro i contadini, tra venti o trent’anni non ce ne saranno più.
La FNSEA perde il suo sostegno al glifosato
Agroindustria + ultraliberismo = malessere contadino
Sosteniamo l’agricoltura contadina, non l’agro-business!
Sinistra: Lavoro in media 52 ore, pensate che abbia il tempo di fare un cartello!!! Destra: I miei figli non potranno mai andare al St. Stanislas perché non posso permettermelo. E soprattutto non voglio.
Sosteniamo l’agricoltura contadina, non l’agro-business!
Gabriel a tavola. Gioco di parole con il nome del ministro dell’agricoltura francese Gabriel Attal.
Contadini contro il capitalismo

https://www.infoaut.org/crisi-climatica/francia-i-migliori-slogan-visti-sui-trattori

 

 

 

“Difendiamo la nostra terra!” Reportage dalle proteste degli agricoltori Piemontesi

Partiamo subito specificando che questo è un reportage costruito a partire dalla partecipazione alle mobilitazioni avvenute in Piemonte, in particolare tra Torino, Alessandria, Vercelli e Novara, tra domenica 21 e mercoledì 31 gennaio 2024. Si tratta di un racconto situato e parziale, a metà strada tra la cronaca e l’analisi, che speriamo possa servire da spunto tanto per una riflessione più ampia quanto per la scrittura di altre analisi situate.

Torino (21-22-29 gennaio)

(21 gennaio) A lanciare le piazze torinesi sono alcuni dei gruppi consolidatisi nel corso del movimento No Green Pass, in particolare il gruppo La Variante Torinese, la Casa del Popolo ed il Coordinamento Piemonte. A differenza di altri gruppi presenti a Torino, dove il movimento No GP si è frammentato in circa una dozzina di gruppetti connotati da diversi registri discorsivi, orientamenti ideologici e pratiche organizzative, questi sono gruppi caratterizzati dallo spiccato personalismo di alcuni leader e dall’adesione a un repertorio molto ampio di teorie del complotto. Sarà Marco Liccione, front-man della Variante torinese, che assumerà un ruolo centrale durante i comizi di questi giorni, ed i comizi spazieranno dalla difesa dell’agricoltura e dell’eccellenza italiana al rifiuto dei diktat imposti dall’Unione Europea, colpevole di portare gli agricoltori ad abbandonare i campi in favore dei pannelli solari e farine di grillo. La domenica in piazza ci sono circa 300-500 persone, tra cui qualche dozzina di agricoltori. Durante la piazza viene rilanciato un appuntamento per il giorno dopo, lunedì, di fronte al Ministero dell’Agricoltura, dove si vorrebbe procedere a bloccare tutto.

(22 gennaio) Il giorno dopo, di fronte ai cancelli del Ministero, nella periferia, ci sono più celerini e digossini che manifestanti, circa una trentina, e non c’è nemmeno l’ombra di un trattore. Sono tutti veterani del movimento No GP, e quando Liccione spiega che i trattori non arriveranno il piccolo presidio si scioglie.

(29 gennaio) La manifestazione comincia calorosamente, con Liccione che brucia sul palco una bandiera dell’UE. Sotto il palco circa gli stessi numeri della settimana precedente, se non che anche quei pochi agricoltori che sembravano presenti la volta prima, stavolta sembrano del tutto assenti. Sul palco di susseguiranno gli interventi dei leader della galassia No GP torinese, ma soprattutto del leader dei CRA Danilo Calvani e di Francois, esponente di diverse realtà del mondo No GP francese, e venuto a siglare una pubblica alleanza con il movimento italiano. Per un’analisi più approfondita di queste piazze e del legame con le piazze degli agricoltori, rimandiamo a Monitor Italia, dove la questione verrà affrontata in modo approfondito.

Alessandria e Novara (31 gennaio)

Partendo da Torino ci siamo divisi in due gruppi, di modo da avere più punti di vista su quanto stava avvenendo. Arriviamo all’uscita del casello di Alessandria verso le 9 e 30, e subito troviamo uno schieramento di celere, circa 3 camionette ed un paio di volanti. Procediamo fino a Viale Milite Ignoto, lungo il quale continuiamo a incontrare numerosi mezzi delle FDO. Presto cominciamo a sentire il suono dei clacson, centinaia di clacson. Mentre avanziamo sulla corsia, alla nostra sinistra cominciano a sfilare i trattori, spesso addobbati di bandiere tricolori e cartelli di cartone. Arriviamo al presidio permanente mentre i trattori continuano a incolonnarsi, e rimaniamo nel piazzale dove da una settimana è in corso il presidio permanente, centro pulsante della socialità e dell’organizzazione della protesta. Invece di seguire il corteo, regolarmente autorizzato, che proseguirà fino al casello per poi immettersi in autostrada e rallentare drasticamente il traffico, decidiamo di rimanere lì a parlare con gli oltre 30 agricoltori rimasti al presidio, molti dei quali organizzatori. Quasi del tutto assenti i solidali, eccezion fatta per una manciata di simpatizzanti, tutti veterani del movimento No GP, e residenti nelle cittadine limitrofe. Circa un’ora e mezza più tardi il corteo di trattori tornerà al piazzale. Gli organizzatori stimano 500 trattori, la questura circa la metà. Rimaniamo lì a chiacchierare con gli agricoltori appena arrivati, mentre gli animatori del presidio offrono pane e formaggio, vino e torta a tutti i presenti. C’è solo un breve intervento all’impianto, durante il quale uno degli organizzatori ringrazia la Digos per non aver creato problemi allo svolgimento della protesta, e poi si lascia spazio alla musica. Il primo pezzo a partire è il remix di “La gente come noi”.

Per quanto riguarda la mobilitazione di Novara e Vercelli, arriviamo a Borgo Vercellese che il corteo diretto al punto di incontro a Novara è già partito. Praticamente assenti le FDO, se non un paio di pattuglie. Per circa un’ora e mezza non possiamo fare altro che ammirare il retro di un trattore, mentre seguiamo il corteo da Borgo fino ad un piazzale nella periferia industriale di Novara, dove si contano circa 150-200 trattori, addobbati di cartelli e bandiere. Qui siamo rimasti fino alle 11.30, quando sono partiti 3 o 4 gruppi di trattori. Ci siamo quindi messi al seguito di uno di questi, potendo godere delle melodie dei loro clacson. Moltissimi ragazzi e ragazze giovani, tra i 20 ed i 35 anni, le cui aziende spesso sono state fondate dai loro nonni. Una composizione che in un primo momento ci sorprende, aspettandoci di trovare più gente sui 50, con alle spalle una lunga carriera, mentre si tratta invece di persone che lottano per poter continuare ad avere un futuro in questo settore lavorativo. Il secondo gruppo di trattori ha quindi continuato lungo la provinciale fino all’Outlet di Vico Lungo, dove c’era un camion adibito a palco. Qui molti hanno parcheggiato tra lì ed il campo vicino all’autostrada. La Digos è presente ma rimane in disparte, tutto è autorizzato.

Composizione

Come si sarà capito dall’incipit narrativo di questo questo reportage, non trova conferma la narrazione mediatica, secondo la quale vi sarebbe una sovrapposizione tra movimento NoGreenPass e “movimento dei trattori”, già ribattezzato dei “gilet verdi” da parte dei media.  Ciò detto, la piazza di Torino è indubbiamente caratterizzata dalla presenza egemonica di realtà organizzate e legate al movimento No GP, e riteniamo che tanto l’analisi della composizione, dei discorsi e del rapporto tra la piazza torinese e il movimento nelle campagne meriti di essere oggetto di una riflessione a parte.  Completamente differente è la situazione nelle campagne, dove il movimento si dà in completa autonomia, senza coordinarsi né con i CRA, né con le realtà attive a Torino. Completamente assente, sia in città che in campagna, la sempre più temuta “infiltrazione fascista”. Ciononostante la situazione è comunque complessa e sfaccettata. Speriamo quindi di mettere un pò di chiarezza, per quanto parziale, con questo contributo.

Nelle varie piazze troviamo una massiccia presenza di aziende o contoterzisti dell’agroindustria, principalmente di proprietari di medie imprese agricole cerealicole, risicole, o di allevamenti intensivi, possiamo quindi parlare di una presenza principale di imprenditori agricoli. Questo comparto negli ultimi cinquant’anni ha avuto un’accelerazione spinta alla macchinizzazione volta a rendere sempre più produttiva la terra coltivata, di pari passo ad un abbassamento della fetta di popolazione che si dedica a questo settore.

La presenza più marcata sembra essere quella dell’avanguardia del comparto, ovvero di agricoltori che ormai da decenni provano ad innovarsi stando dietro i vari diktat europei, che hanno provato il biologico, la minima lavorazione, la riduzione drastica di diserbanti e fertilizzanti, e la cosiddetta agricoltura scientifica dove ogni trattamento o irrigazione è mirata e dettata da un’analisi satellitare del terreno. Insieme a questa composizione, c’è una forte presenza giovanile e ultra-giovanile di neo-agricoltori che orgogliosamente rivendicano la loro occupazione e la volontà di migliorarla, insieme ad una forte componente femminile che riveste spesso ruoli di riferimento ed avanguardia della lotta.

Legame con altre composizioni

Media e giornali parlano di un forte legame tra la composizione NoGreenPass e queste lotte degli agricoltori. Per quanto possiamo testimoniare a partire da quanto osservato nelle piazze torinesi del 21 e del 28 Gennaio, questa narrazione sembra rendere giustizia alla sola situazione cittadina. In questi luoghi l’assenza di lavoratori del comparto viene colmata dalla composizione scesa in piazza nei periodi della pandemia, che nel farlo mette a disposizione il proprio bagaglio di capacità discorsive e strumenti mediatici, capaci di rendere subito queste piazze uno strumento politico d’attacco alle politiche globali ed europee. Significativo è il fatto che i giornali abbiano garantito molto risalto mediatico a questa composizione, come quando la repubblica del 29 gennaio ha dedicato ampio spazio all’atto di bruciare la bandiera europea in una piazza senza nemmeno un trattore, e nulla o quasi sulle decine di presidi e blocchi portati avanti dagli agricoltori in tutta la penisola.

Per approfondire: La convergenza impossibile. Pandemia, classe operaia e movimenti ecologisti da Monitor Italia.

Inoltre, questo è un legame contraddittorio. Molti non si sentono rappresentati dai discorsi sulle politiche pandemiche, né vedono una particolare affinità con le piazze lanciate dal movimento NoGreenPass. Eppure, come Piero, sono disponibili ad un allargamento e a ricevere solidarietà da questa galassia, purchè si parli di cibo e della sua produzione-vendita:

Intervistatore « Con i movimenti cittadini che sono legati in gran parte ai movimenti No Vax, voi avete dei rapporti?»

Piera «Non abbiamo nessun rapporto. Comunque, come dicevo prima, noi siamo autonomi nel nostro gruppo, siamo di tutte le idee! Quindi ci saranno tra di noi NoVax, ci saranno tra di noi persone che hanno hanno seguito questi gruppi e che comunque adesso ci vogliono sostenere. Adesso noi stiamo parlando di agricoltura. Adesso stiamo parlando di cibo: qui in questo gruppo la parola d’ordine è: chi mangia è dei nostri.»

Va notato che non regge nemmeno il discorso per cui gli agricoltori sarebbero fascisti o di destra, anzi notiamo una forte mancanza di volontà e capacità politica delle destre nel provare a cavalcare la protesta, come invece avevano provato in altre situazioni, ad esempio nel caso della mobilitazione degli allevatori sardi. Probabilmente questa mancanza è dovuta innanzitutto ad un conflitto di interessi, per cui essendo al governo provare a cavalcare la situazione richiederebbe subito un’azione politica forte, e forse anche figlia di una classe politica poco lucida. Evidentemente, il ministro Lollobrigida in testa che non spicca di perspicacia nel cogliere i movimenti popolari. Staremo a vedere nei prossimi giorni il tentativo del presidente della regione Cirio che ha fatto trapelare di voler di incontrare gli agricoltori in presidio permanente ad Alessandria.

In conclusione, potremmo dire che ad ora si tratta di una lotta prettamente corporativa, anche se ricerca un legame con i consumatori e cerchi di enfatizzare quanto questa lotta sia per tutti, in quanto inerente alla base fondante della riproduzione sociale: il cibo per sfamarci. Tuttavia, eccezion fatta per i movimenti No GP, per ora riceve solo solidarietà indiretta e mediatica, e sono quasi inesistenti i solidali nei presidi e cortei. ..

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Dall’8 gennaio scorso, gli agricoltori tedeschi hanno organizzato imponenti manifestazioni di protesta in tutta la Germania, come dimostrano i cinquemila trattori che hanno occupato le strade di Berlino; mentre scrivo, si stanno diffondendo a macchia d’olio anche nel resto d’Europa. Si tratta di un tipico evento dove una problematica di per sé apparentemente settoriale e circoscritta affonda le radici su motivazioni più profonde e, come tali, tenute marginalmente in considerazione benché fondamentali per capire la vera posta in gioco.

Partiamo dalla rimostranza su cui i media si sono concentrati maggiormente, ossia il taglio dei sussidi per il gasolio destinato a uso agricolo, argomento brandito da molte testate e commentatori per attaccare le misure ispirate alla decarbonizzazione. Sono diversi anni che i veicoli a motorizzazione diesel sono oggetto di provvedimenti restrittivi, ma con ogni probabilità non è la sensibilità ecologista a spingere i governi in tal senso. Infatti, per ovviare al progressivo esaurimento dei giacimenti di petrolio convenzionale si ricorre sempre di più alle risorse non convenzionali (come lo shale oil) ma da queste si possono ricavare per lo più ‘oli leggeri’ adatti per produrre benzine ma non gasolio e olio combustibile per le navi. Un fenomeno esacerbato dalle sanzioni contro il petrolio russo.

“The World Is Struggling to Make Enough Diesel”, titolava preoccupato il Time il 23 settembre scorso. Vista la necessità di sostituire progressivamente l’olio pesante con prodotti a minor contenuto di zolfo (l’Organizzazione marittima internazionale si è già attivata da alcuni anni ), sia per ragioni ecologiche che sanitarie, rimarrà sempre meno gasolio per gli autoveicoli: le vetture private sono inevitabilmente le prime vittime, ma anche anche per camion e macchine da lavoro oramai la situazione si fa critica. Ugo Bardi non ha dubbi: i sussidi al diesel stanno impedendo una altrimenti possibile e vantaggiosa elettrificazione delle macchine agricole. In ogni caso, è evidente come gli agricoltori tedeschi stiano combattendo una lotta comprensibile ma di retroguardia, in quanto il bubbone è destinato presto a scoppiare.

Una situazione simile riguarda le proteste sul rincaro dei fertilizzanti, uno degli svariati problemi la cui causa viene imputata alla guerra in Ucraina, fatto cavalcato da tanti filorussi tra cui il movimento emergente di estrema destra Alternative für Deutschland. In realtà, come nel caso del gasolio il conflitto gioca un ruolo spettacolare ma marginale. Il costo dei fertilizzanti è progressivamente salito con l’avvento del nuovo millennio, le recenti tensioni internazionali hanno quindi solo esacerbato un trend in atto già da tempo. C’è da stupirsene? Ben poco.

I concimi di sintesi non si producono per magia bensì a partire da materie prime non rinnovabili. Quelli azotati, di gran lunga i più impiegati, sono legati a doppio filo al metano, perché senza di esso non si può innescare il processo Haber-Bosch per fissare l’azoto atmosferico e ricavare così ammoniaca. Ovviamente sono possibili interventi razionali per mitigare il problema, come ridurre progressivamente la quota di gas naturale destinata alla generazione di elettricità e all’uso domestico rendendone prioritario l’impiego per l’industria chimica. Tuttavia, ammesso che ciò si possa fare in modo relativamente indolore, i nodi prima o poi verranno al pettine in tutta la loro gravità, proprio come sta accadendo con il gasolio.

Il caso del fosforo, il secondo elemento più utilizzato nelle coltivazioni, è ancora più emblematico. Le previsioni sul picco produttivo spaziano dalle più preoccupanti che lo annunciano come imminente o già in corso a quelle decisamente rassicuranti che lo pospongono addirittura oltre la metà del XXII secolo. Queste ultime, però, ostentano ottimismo limitandosi a constatare l’entità delle riserve esistenti (spesso giacimenti sottomarini o comunque a cui è molto complicato accedere) dando per scontato lo sviluppo tecnologico, le risorse economiche e soprattutto l’apporto energetico necessari per sfruttarle. In un mondo dove oramai anche la locomotiva cinese comincia pesantemente ad arrancare ed è necessario abbandonare il prima possibile le fonti fossili (con tutto ciò che può comportare in termini di disponibilità effettiva di energia), ragionare così significa mettere decisamente il carro davanti ai buoi.

Se le lamentele nei confronti del gasolio e dei fertilizzanti suscitano perplessità per la loro scarsa lungimiranza, sembra invece ineccepibile la richiesta di migliori condizioni contrattuali nei confronti della gdo e quindi di prezzi più adeguati per i produttori. Tuttavia, mi sorge un dubbio atroce: che l’elargizione di sussidi attinti dalla fiscalità generale sia proprio funzionale a mitigare gli effetti peggiori di questa posizione dominante, rendendola più socialmente accettabile? In definitiva, al di là del caso specifico dell’agrodiesel, è giusto continuare a sussidiare l’agricoltura mantenendo un sistema che non sembra particolarmente apprezzato neppure dai fruitori delle sovvenzioni?

Gaia Baracetti, contadina e blogger che spesso commenta gli articoli di Apocalottimismo, nel 2020 ha pubblicato un libro dal titolo inequivocabile: Perché bisogna abolire i contributi all’agricoltura, edito dalla Phasar Edizioni. Personalmente non l’ho ancora letto, amici fidati e addentro le questioni agricole me ne hanno parlato molto bene. Ricordo quando, da giovane no global, ascoltavo spesso i militanti più interessati e competenti su questi temi esprimersi in maniera molto negativa, accusando i sussidi dei paesi occidentali di provocare la subordinazione se non proprio la rovina dei contadini del sud del mondo e descrivendoli come una sorta di welfare per ricchi che favorisce i più grossi del settore.

Personalmente non sono pregiudizialmente contro i sussidi in sé, penso anzi che possano rivelarsi fondamentali per favorire progressi concreti che altrimenti stenterebbero a imporsi. Tuttavia, il fatto che siano necessari denota qualche criticità a livello generale. Se chi provoca esternalità negative fosse obbligato a ripagarle, non ci sarebbe ad esempio bisogno di sussidiare le energie rinnovabili, perché le fossili diventerebbero automaticamente anti-economiche. Senza pensare a comportamenti schizofrenici come quello di sovvenzionare gli agricoltori per impiegare tecniche agroindustriali che contribuiscono a creare zone morte marine (al largo della delle coste tedesche se ne sono già formate diverse), devastando gli ecosistemi e mettendo in crisi l’attività di pesca: il paradosso di incentivare un modo di produrre cibo che distrugge altre risorse alimentari.

Dopo che gli agricoltori hanno minacciato di paralizzare completamente il paese rifiutando pure la proposta di mediazione per l’eliminazione graduale dei sussidi al gasolio spalmata su tre anni, il governo ha deciso di mantenerli preferendo colmare il deficit di bilancio togliendo fondi alla protezione degli ecosistemi marini e al settore ittico, cioé settori danneggiati proprio dalle pratiche agricole convenzionali. Sono stati inoltre ridotti gli incentivi all’industria del fotovoltaico ed è previsto il graduale abbandono del bonus per l’acquisto di auto elettriche, il tutto per evitare un rialzo del prezzo della CO2 che avrebbe ricadute molte negative sugli agricoltori.

Le associazioni di categoria hanno esultato trionfanti, ed è comprensibile che chi rappresenta l’ultima ruota del carro nel gigantesco business alimentare intenda lottare strenuamente per la sopravvivenza. Tuttavia, ragionando in ottica meramente corporativa si finisce solamente per buttare la polvere sotto il tappeto. Per non parlare dell’assurdità di esseri diventati beniamini di coloro che negano il riscaldamento globale, cioé una delle minacce più gravi per l’esistenza stessa dell’agricoltura. I contadini devono invece farsi promotori di una revisione globale del sistema alimentare, dalla produzione alla vendita. Difendendo a spada tratta lo status quo stanno solo preparando un futuro peggiore per sé e per gli altri, dove il ricordo delle vittorie di Pirro sarà di scarsa consolazione.

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