Fra l’etnografia del cibo e…

…l’antropologia della comunicazione

intervista di Andrea Mameli ad Alessandria Guigoni  

Un giorno dovevo scrivere un articolo in cui c’entrava in qualche modo lo zafferano. Cercando qualche notizia in rete mi capitò sotto gli occhi questo post: «L’estate di San Martino e i fiori di zafferano di San Gavino». Ma questa la conosco, pensai, leggendo il nome e la breve biografia dell’autrice: Alessandra Guigoni, antropologa culturale, esperta di comunicazione del cibo.
Mi sarebbe piaciuto intervistarla ma non avevo il tempo. E, proprio perché la conosco, pensai, non mi sarà difficile ricontattarla più avanti. Sono passati più di tre anni. Durante le vacanze di Natale ho avuto modo di leggere una nuova, intrigante, riflessione di Alessandra: «Questioni antropologiche sul relativismo culinario» (etnografia.it). Così nei giorni scorsi è maturata una lunga e densa intervista che vi propongo qui e nel blog di Daniele Barbieri, il cui incoraggiamento è stato determinante per la riuscita dell’intervista.

 

Alessandra, nel 2009 hai pubblicato «Antropologia del mangiare e del bere» (Altravista). Partiamo da questo titolo: cosa significa fare ricerca in questo particolare ambito dell’antropologia, oggi?
«Significa occuparsi dei paesaggi del cibo, foodscapes o ciborami, con l’umiltà di sapere che si tratta di complessi sistemi in cui occorre multidisciplinarietà e interdisciplinarietà, lavoro di équipe, studio continuo, informarsi e comunicare con quante più persone possibili. Per questo motivo sono in Internet si può dire da quando si è diffuso in Italia e oggi utilizzo volentieri i canali social, in primis facebook e twitter. Stando sui social si condividono informazioni preziose, idee e pareri, e per un antropologo sapere qual è il mood, lo stato d’animo, su di un certo tema, tipo l’alimentazione vegan, o gli OGM, o l’olio di palma contenuto nella Nutella, è importante, no, mi correggo, è fondamentale».

«Il cibo è in ogni luogo e in ogni epoca un atto sociale», scriveva Roland Barthes nel 1984 («Il brusio della lingua», Torino, Einaudi, 1988). Condividi questo assioma?
«Sì, assolutamente, diciamo che potrebbe essere la tagline della mia disciplina, l antropologia alimentare. Mi interessano gli aspetti socioculturali del cibo, capire perché un determinato prodotto viene consumato, in quali circostanze, da chi, e con quali ritualità. Mi interessano le pratiche e i discorsi intorno al cibo, le retoriche e le narrative con cui viene comunicato all’interno di una società o di una comunità, andare alla radice delle mitologie contemporanee. Non è semplice, ma ci si prova, insieme ad altri colleghi che condividono questa mission e vision della disciplina.»

Ha ancora senso parlare di  locale e di  globale ?
«Sì ha senso, anche se non nel senso comune che si intende. Ti faccio un esempio: in Sardegna ci sono almeno due grosse aziende locali lattiero-casearie (ma senz’altro sono di più) che utilizzando latte ovino sardo, pastori sardi e manodopera sarda producono formaggi ovini che vengono poi venduti sull’Isola, nella penisola e anche all’estero da Lidl, Eurospin, Auchan e altre imprese che nel senso comune sono  multinazionali ed estranee al sistema agroalimentare sardo. E’ uno dei casi in cui il globale si è localizzato, e anzi aiuta l’economia locale. Naturalmente ci sono molti esempi contrari, casi in cui le produzioni locali sono soffocate letteralmente dalle produzioni massificate e a prezzi più competitivi che vengono dal continente o dall’ estero. Però ecco, bisogna fare attenzione, caso per caso, filiera per filiera, prodotto per prodotto, soprattutto distinguendo fra globalizzazione “cattiva”, che toglie alle persone la dignità, il lavoro, il futuro, e quella buona, che può essere usata a vantaggio degli indigeni, dei territori e delle economie locali, come il caso suddetto. Ciò vale in Sardegna, una regione periferica dell’Europa, che potrebbe fare di questa sua perifericità e dunque delle sue peculiarità, unicità, un punto di forza, proponendo uno stile di vita, anche alimentare, alternativo a quello di massa. E il discorso può valere in altre regioni  satelliti di altre potenze politiche ed economiche.
Poi ci sono prodotti che sono glocal da sempre, penso al torrone, ad esempio: la ricetta originaria, medievale, è catalano-aragonese, il prodotto è diventato sardo nei secoli ma le ostie si sono sempre importate, attraverso Genova, dall’estero. Oggi le mandorle e le nocciole, così come il miele, sono spesso di importazione. Però la manodopera e le tecniche di lavorazione sono sarde e danno lavoro a un bel po’ di persone sull’Isola.
Ci sono poi casi in cui i prodotti sono sardi, penso a pomodori e carciofi, ma la manovalanza per coltivarli e raccoglierli è straniera, se facciamo un giretto nelle aziende agricole del Medio Campidano vedremo tanti stranieri chini nei campi a zappare e raccogliere. Si tratta di un esempio di filiera agroalimentare multietnica, con prodotti e aziende sarde coadiuvate da personale immigrato, senza il quale, forse, fra 10 anni, tali produzioni non potrebbero andare avanti, visto che gli italiani e i sardi non ritengono che il mestiere contadino abbia appeal. E gli esempi della complessità della dinamica locale/globale potrebbero continuare…
Insomma la dialettica fra locale, glocale e globale è un bel po’ complicata, e la sfida sta nel saperla studiare e raccontare al pubblico, oltre che ai propri colleghi nelle riviste specializzate che leggono solo gli addetti ai lavori. Perché è il pubblico che deve essere informato e diventare consapevole di ciò che si mette nel piatto».

L’alimentazione costituisce ancora un fondamento dell’identità?
«Per me la risposta è assolutamente sì, anzi mai come ora i prodotti identitari sono uno status symbol. Mi spiego meglio. Siamo immersi in quella che Zygmunt Bauman chiama società e modernità liquide, i punti di riferimento religiosi, politici ed economici  classici della giovinezza dei nostri genitori sono venuti a mancare, e le persone sentendo di aver perso le radici e le loro rassicuranti ideologie spesso si rifugiano nei beni di consumo per rassicurarsi e dotarsi di un identità salda. Mai come oggi l’identità si fa coincidere con i consumi. Fra i consumi quelli alimentari fanno sicuramente la parte del leone. Sicché semplificando consumare sushi trasmette voglia di cosmopolitismo, internazionalità, mentre un panino alla mortadella è simbolo del ritorno alla semplicità e alla genuinità del passato.
Inoltre le persone soffrono di essere un numero tra tanti, di essere come gli altri, indistinti e indistinguibili. Hanno bisogno di distinguersi, per usare un termine caro al sociologo Pierre Bourdieu, e i prodotti di qualità, locali, di eccellenza, tradizionali sono prodotti non massificati, prodotti su piccola scala, in modo artigianale. I prodotti handmade per osmosi trasferiscono le proprie proprietà a chi li consuma, rendendo il consumatore unico, ricercato e irripetibile come quel certo formaggio di fossa, quella rara varietà di mela o quel particolare vino. Inoltre consumare quel tipo di prodotti è rassicurante, anche perché la sicurezza alimentare è messa in pericolo da sofisticazioni e adulterazioni, e un prodotto artigianale, fatto a mano da produttori etici rassicura il consumatore sulla sua bontà in tutti i sensi».

Forlimpopoli, città natale di Pellegrino Artusi (autore del celebre «La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene»), organizza ogni anno una festa dell’alimentazione e premia gli autori di riflessioni sui rapporti fra uomo e cibo. Come vedi questa modalità di stimolare la discussione a stomaco, giustamente, pieno?
«Ben vengano tutte le manifestazioni e gli eventi in cui si unisce la riflessione teorica e l’approccio scientifico con un momento degustativo e ludico. Le persone imparano soprattutto facendo, e mangiare bene aiuta a pensare meglio secondo me.»

Nella tua tesi di laurea «Civiltà precolombiane dell’America» (Università di Genova, 1993) hai toccato anche l’alimentazione? Ci sono particolarità che hai poi ritrovato in altri popoli e in altri luoghi?
«Sì, anche se parliamo di una ricerca svolta 20 anni fa. Già allora mi interessava la cultura materiale, e ricordo che in Perù avevo fatto soprattutto esperienze alimentari, assaggiando la chicha (una birra locale) ed altre  strane specialità locali in casa di conoscenti. Ero molto incuriosita, avevo visitato un allevamento di polli, e alcune aziende contadine sorte accanto alle rovine archeologiche della civiltà che stavo studiando, quella dei Chimù. Però l’interesse per il cibo è iniziato nel 1997 quando ormai vivevo in Sardegna da quattro anni, dove il cibo permea ogni aspetto della vita socio-culturale, ha un valore simbolico straordinario, è un marcatore identitario, e così da antropologa sono inciampata per forza diciamo in quell’oggetto di ricerca e da allora non l’ho più abbandonato».

guigoni

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


ripreso da Linguaggio Macchina, 17 gennaio 2014; la foto di Alessandra Guigoni è di Adriano Mauri.

 

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