Anarchici in piedi, fra storia…
… e letteratura: un libro da non perdere
La prima delle 40 storie ci porta a cavallo fra ‘800 e ‘900 quando Pietro Gori venne soprannominato «il cavaliere dell’ideale» o «il poeta dell’anarchia»: magari non ricordate il suo nome ma avrete ascoltato (forse intonato) una delle sue canzoni, per esempio «Addio Lugano bella».
La seconda storia ci conduce a Barcellona nel 1936: dopo quasi 80 anni ancora non si sa – e probabilmente mai si scoprirà – da chi fu ucciso Buenaventura Durruti: dai fascisti che combatteva a viso aperto o alle spalle dagli stalinisti?
In un’altra storia più vicina ai nostri giorni (siamo nel dicembre 1969) c’è «l’anarchico tripede», cioè «il ferroviere suicida» che indossava tre scarpe o almeno così riassume, da par suo, Dario Fo cercando di dare una “logica” all’assurda versione poliziesca che avrebbe dovuto spiegare la morte di Giuseppe Pinelli, volato da una finestra della questura milanese.
Storie di anarchici in Brasile, in Spagna, in Messico, in Francia, in Argentina, negli Usa, in Russia e naturalmente in Italia. «Ritratti in piedi» come recita il titolo: «dialoghi fra storia e letteratura». Li ha scritti, fra il 2001 e il 2009, Massimo Ortalli su «A rivista anarchica» e vengono ora raccolti dall’Editrice La Mandragora (576 pagine per 32 euri).
Bella gente quella che incontriamo qui. Ma – dirà qualcuna/o – gli anarchici non erano (e forse sono) «bombaroli» e ogni tanto regicidi come Bresci? La risposta è «no» ma anche «sì, talvolta«» e Ortalli lo documenta, racconta e analizza molto bene: per esempio a proposito della strage al teatro Diana di Milano del 23 marzo 1921, della banda Bonnot in Francia oppure del «controverso» Severino Di Giovanni, «anarchico espropriatore»; su quest’ultimo il giudizio storico di Ortalli è molto duro, certo «disinteresse personale» e coraggio «sperperato» ma «al di là delle furiose e fratricide polemiche» quell’esasperato illegalismo si trasformò «in poderosi strumenti di creazione del consenso per il potere e di giustificazione della indiscriminata repressione».
Qualche altro frammento di un libro ricchissimo che non può essere riassunto e va assolutamente letto da chi raccolga i semi della memoria in vista di futuri (e speriamo vicini) raccolti.
Di miniere Ortalli parla più volte. A esempio, con i 43 morti a Ribolla, in Toscana, che fanno da sfondo al bellissimo romanzo «La vita agra» di Luciano Bianciardi. Ma c’è anche una vicenda tragicomica che illustra – attraverso un romanzo (di Emilio Tanfani) che ebbe gran successo intorno al 1880 – i conflitti in miniera con questa trama: «i buoni padroni e gli onesti operai uniti nella lotta contro i cattivi internazionalisti», per lo più anarchici. Il feuilleton o se preferite il romanzo d’appendice è (come altre forme di cultura “bassa”) spesso più indicativa delle analisi storiche per capire un’epoca: ed ecco Ortalli ingaggiare un braccio di ferro analitico nientemeno che con «Il figlio dell’anarchico» scritto nel 1901 da Carolina Invernizio, un’autrice di straordinario e duraturo successo popolare. Se vi capiterà di leggere i brani scelti da Ortalli e i suoi commenti ridete pure ma … senza esagerare: gli stereotipi e i trucchetti della Invernizio sono diversi solo nella forma (e forse nell’ingenuità) rispetto a quelli oggi usati dai media “moderni” contro i dissenzienti.
Più o meno contemporaneo (è del 1891) al feuilleton della Invernizio ma di tutt’altro orientamento e spessore è il romanzo utopico di William Morris che in Italia venne pubblicato come «Notizie da nessun luogo» ma uscì una prima volta (nel 1922) come «La terra promessa». Siamo dalle parti di una “concreta” utopia dove «sono definitivamente e concordemente banditi lo sfruttamento capitalistico e le istituzioni autoritarie». Quello di Morris è un romanzo (di fantascienza in certo senso) ma tentativi simili furono davvero tentati su piccola scala e Ortalli ne dà conto per esempio scrivendo della Colonia Cecilia, comune agricola realizzata nel Brasile di fine ‘800, attraverso due bei libri che ne trattano: «Colonia Cecilia» appunto di Afonso Schmidt e «Anarchici, grazie a dio» di Zelia Gattai, vedova di Jorge Amado e «una delle ultime epigoni della massiccia emigrazione italiana in Brasile».
Divertentissimo anche – ma qui l’umorismo è voluto, non involontario come capita con l’Invernizio e con chi sostenne il suicidio di Pinelli – tutto ciò che riguarda lo scrittore praghese Jarislav Hasek, autore fra l’altro del romanzo (anzi della serie) «Il buon soldato Scveik»; o «Sc’véik» se preferite quest’altra trascrizione. Il quale fondò persino un canzonatorio «Partito del progresso moderato nei limiti della legge»; non fu per caso che la censura lo perseguitò.
Ripassiamo dalla Spagna. C’è un argomento del quale «si è sempre parlato vergognosamente troppo poco, perché una Spagna baluardo anticomunista negli anni della Guerra Fredda era troppo preziosa per permettere una eccessiva curiosità sulle efferatezze commesse da Franco e dai suoi carnefici», con 40 mila ammazzati secondo il regime ma più probabilmente 200mila. Ortalli ne parla attraverso il romanzo «Le voci del fiume» (del 2007) di Jaume Cabrè che in un intreccio di storie e colpi di scena ci porta dalla Guerra Civile in Spagna sino ai giorni nostri.
Fra i libri che raccontano tempi a noi molto vicini e che Ortalli ben inquadra vale almeno segnalare «L’amore degli insorti» di Stefano Tassinari e «Zero maggio a Palermo» (2003) di Fulvio Abbate. Ed è sempre Abbate che con maestria ci proietta di nuovo nella Spagna repubblicana per incantarci con la vera storia di Juan Garcia Oliver, «Il ministro anarchico».
Il titolo della rubrica a suo modo si ricollega a «Ritratto in piedi» di Gianna Manzini, un bellissimo ricordo del padre Giuseppe, che Ortalli infatti analizza. Dopo una prima interruzione e una ripresa, la serie dei “ritratti” si è interrotta ma io dubito che non riprenderà. Chi meglio di Ortalli potrebbe, a esempio, inquadrare «Il sole dell’avvenire», l’ultimo romanzo di Valerio Evangelisti?