Argentina: quando i militari proclamarono l’autoamnistia

di David Lifodi

È la metà del 1983 quando i militari argentini si preparano a lasciare il potere: sembra la fine di un incubo e il ritorno alla democrazia con il presidente Raúl Alfonsin (peraltro più che ambiguo su molteplici aspetti relativi al regime) dà l’impressione di far ritrovare al paese quella pace persa a partire dal 1976: il buco nero dei diritti umani. I militari, però, vogliono garantirsi un salvacondotto come via d’uscita: ecco allora spuntare la cosiddetta ley de autoamnistía o, come la chiamano loro, di pacificación nacional.

A raccontare questa storia, nei mesi scorsi, il quotidiano argentino Página12. L’autoimmunità rappresentava, per i militari, l’unica soluzione per mettersi al sicuro nei confronti delle organizzazioni dei diritti umani, che per loro erano organizaciones subversivas, come testimoniato da una serie di documenti segreti adesso resi pubblici. Si scopre allora che il magistrato José Nicasio Dibur aveva stretto un patto del silenzio con Rodolfo Peregrino Fernández, testimone della polizia che, proprio all’inizio del 1983, aveva espresso la sua intenzione di vuotare il sacco sui crimini della dittatura e sulle persone che vi erano coinvolte fin ai più alti livelli. Dibur avvisava che, se il testimone fosse andato avanti con le sue rivelazioni, lui sarebbe stato costretto a fare il nome di una serie di militari responsabili di crimini politici. I documenti di questo rimpallo di responsabilità sono stati ritrovati, alla fine del 2013, nei locali che ospitavano la sede della Fuerza Aérea: l’attuale ministro della Difesa argentino, Agústin Rossi, ha deciso di divulgarli. Emerge, dagli atti, che Rodolfo Peregrino Fernández era un poliziotto in servizio presso il Ministero degli Interni e che, nel marzo 1983, aveva rivelato già delle informazioni sul terrorismo di Stato e la Tripla A (l’Alleanza Anticomunista Argentina) di fronte alla Comisión Argentina de Derechos Humanos. Dalle sue confessioni erano emerse cose che ai giorni nostri sono note (ad esempio la necessità di difendere la triade Tradizione, Famiglia e Proprietà, tanto cara alla destra argentina attraverso la strategia del terrore e dell’eliminazione dei prigionieri politici), ma anche aspetti finora sconosciuti. Il più clamoroso riguarda l’utilizzo degli aerei della Prefectura Naval Nacional per i voli della morte, oltre alle iniezioni fatte ai prigionieri poco prima di essere gettati in mare e alle rivelazioni nei dettagli sul funzionamento della Tripla A, dell’esistenza dei centri di detenzione clandestini e dei Grupos de Tareas, che agivano su ordine delle Forze Armate per uccidere gli oppositori politici dopo averli rapiti. Quando il giudice Dibur minacciò di parlare i militari si preoccuparono, temendo che la loro ley de autoamnistía sarebbe andata in fumo. Al tempo stesso, sorprende che, al momento di andare in pensione, Dibur esercitò privatamente la sua professione di avvocato difendendo buona parte dei militari accusati di aver violato i diritti umani, eppure, nel 1992 fu l’allora presidente Carlos Menem, uno dei più corrotti nella storia dell’Argentina, a volerlo presso il Ministero della Giustizia, dove rimase addirittura fino al 2008. In questo contesto emerge il lato sporco della giustizia argentina che, in alcuni casi, fu apertamente connivente con i militari, in altri giocò un ruolo quantomeno ambiguo, fingendo di indagare, ma senza mai giungere fino in fondo, sul terrorismo di Stato. Paradossalmente, fu proprio la ley de autoamnistía a creare divisioni all’interno dei corpi militari. Di fronte all’urgenza dell’esercito, che ne chiedeva una rapida approvazione, la Fuerza Aérea non credeva molto nell’opportunità della legge, mentre la Marina pretendeva direttamente la grazia. La Ley 22.924, ufficialmente denominata Ley de Pacificación Nacional, fu promulgata il 22 settembre 1983. All’articolo 1 si dichiarava l’estinzione dei delitti commessi per prevenire lo sviluppo di “attività terroriste o sovversive” dal 25 maggio 1973 al 17 giugno 1982, mentre l’articolo 5 ammoniva che nessuno avrebbe potuto essere interrogato per le imputazioni legate all’articolo 1. Infine, l’articolo 12 sanciva che la magistratura avrebbe dovuto rifiutare, sin sustanciación alguna, denunce che avessero come imputati i militari. Lo scopo della legge di autoimmunità era chiaro: non solo tutelare i militari in sede giudiziaria, ma fare in modo che gli anni della dittatura non fossero ritenuti parte di quel processo di memoria collettiva che, per fortuna, conserva ancora una buona parte della società argentina. Ad oggi Página12 ha diffuso i risultati di un sondaggio in base al quale, per 6 argentini su 10, il colpo di stato del 24 marzo 1976 è ritenuto ingiustificabile, anche se un ancora preoccupante 20% lo ritiene tuttora necessario per la salvaguardia della “democrazia”. Spaventa, inoltre, il dato relativo ad una parte della popolazione, in prevalenza giovani, che non si sente in grado di esprimere un’opinione: si tratta dei cosiddetti hijos de la democracia, cioè ragazzi nati quando il paese era già tornato alla democrazia e che non hanno vissuto la dittatura. Il sondaggio, realizzato dal Centro de Estudos de Opinión Pública, fa emergere un dato interessante: la maggior parte degli argentini che si dichiara contraria al golpe è composta da persone che hanno vissuto quegli anni drammatici in prima persona, tanto che dall’inchiesta è emersa la netta separazione tra due cicli sociali, quello di coloro che sono nati prima della dittatura e quello di coloro che sono nati a seguito del ritorno della democrazia. E così sono gli appartenenti al primo ciclo, o comunque un’ampia parte di loro, a concordare sul fatto che fu la dittatura ad aprire le porte al neoliberismo e alle privatizzazioni e a non riconoscersi in quell’idea di riconciliazione nazionale imposta dalla propaganda menemista all’inizio degli anni Novanta.

Sulla parte di società argentina incapace di condannare il colpo di stato significa che il prezioso processo di coscientizzazione e memoria collettiva-sociale non ha funzionato appieno e lottare affinché l’oblio non avvolga i crimini dei militari fa parte di una sfida intensa quanto impegnativa nel segno di uno degli slogan più conosciti delle Madres de la Plaza de Mayo: ni olvido, ni perdón.

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