«Art. 7: storia dei Patti Lateranensi»

Recensione di Maurizio Portaluri (*) al libro di Daniele Menozzi

Nel settantesimo anniversario della Costituzione italiana, Carocci editore lancia una interessante serie di volumetti su ciascuno dei 12 articoli contenuti nei princìpi fondamentali. La serie si chiama Sfere extra ed è diretta da Pietro Costa e Mariuccia Salvati. Nel novembre scorso è stata pubblicato «Art. 7» di Daniele Menozzi, professore ordinario di Storia contemporanea alla Scuola normale superiore di Pisa dove dirige anche il Centro archivistico e gli “Annali della Classe di Lettere” e coordina la direzione della «Rivista di Storia del Cristianesimo».

«Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale». Come si è giunti a questa formulazione, quali sono gli antefatti che risalgono all’unità d’Italia? Come mai la Costituzione italiana ha incorporato una normativa così distante e talora in patente contrasto con i suoi princìpi di libertà ed uguaglianza? Ed infine, quali sono stati i cambiamenti successivi (il nuovo Concordato nel 1984 firmato dal governo Craxi) e quali gli ostacoli ancora verso una piena laicità dello Stato? Questi potrebbero essere gli interrogativi: a cui, mi pare, risponda con precisione e ricchezza di notizie il pur breve volume (142 pagine) dedicato al controverso articolo della Costituzione.

Il saggio prende le mosse dal principio “libera Chiesa in libero Stato” che Cavour presentò alla Camera il 27 marzo 1861 e col quale lo statista intendeva proporre al pontefice uno scambio: «la rinuncia ai territori ancora sottoposti al governo papale … compensata dal riconoscimento di una piena libertà di autogoverno della Chiesa. L’abbandono da parte dello Stato italiano di quelle pratiche giurisdizionale che in Antico regime avevano ostacolato l’indipendenza organizzativa della Chiesa». Egli vedeva per il nuovo Regno un ulteriore vantaggio: «liberata dagli interessi temporali, l’autorità ecclesiastica si sarebbe interamente dedicata a coltivare quella cura spirituale delle anime che egli riteneva essenziale al mantenimento della solidarietà e della coesione sociale in una società liberale basata sull’attribuzione di larghe sfere di autonomia degli individui». Alla linea separatista si affiancava con maggior successo la linea giurisdizionalista con Bettino Ricasoli che riteneva necessaria una legislazione ecclesiastica in grado di promuovere una riforma della Chiesa. Stante il Sillabo (1864) e la proclamata contrapposizione fra cattolicesimo e civiltà moderna, si riteneva necessario assumere una legislazione che adeguasse la comunità ecclesiale ai nuovi tempi e ai nuovi diritti di libertà. Intanto le leggi Siccardi, emanate nel 1850 e 1851, limitavano fortemente il diritto di proprietà degli enti ecclesiastici e la cancellazione di alcuni privilegi della Chiesa. Nel 1855 le leggi Rattazzi avevano soppresso ordini e congregazioni religiose non dedite alla predicazione, all’ educazione e all’assistenza degli infermi. Nel 1866 si trasferivano i registri di stato civile dalle parrocchie ai Comuni e l’alienazione dei beni di tutti gli enti ecclesiastici con l’assicurazione di una rendita del 5% a favore del Fondo per il culto. Ricasoli cercò di attenuare le alienazioni fino alle cosiddette guarentige – Garanzie della indipendenza del Sommo Pontefice e del libero esercizio dell’autorità spirituale della Santa Sede – nel 1871 che riconoscevano la sacralità e l’inviolabilità del pontefice e rinunciavano ad interferire negli affari interni della Chiesa sebbene rimanesse la placitazione delle nomine ecclesiastiche da parte dello Stato. E’ interessante la risposta di Pio IX con l’enciclica Ubi nos in cui respingeva la legge del governo “subalpino” non italiano. Per lui la sovranità territoriale costituiva la sola garanzia di una effettiva libertà. «In tale situazione nessuno poteva avere la certezza che gli atti compiuti dalla Santa Sede per il governo della Chiesa universale rispondessero al mandato divino, alla legge naturale ed ai criteri della giustizia». Le potenze europee, il cui aiuto Pio IX invocò, non lo soccorsero, neppure quelle cattoliche in quanto non potevano più condividere la motivazione che il papa poneva a base del richiesto soccorso: «il papato godeva di un supremo potere sull’intera vita collettiva di tutti gli uomini, cui governanti e governati dovevano ossequiosamente sottomettersi».

All’ascesa al potere della sinistra storica, nel 1876, seguirono una serie di norme sempre più restrittive per la Chiesa: nel 1873 la soppressione della Facoltà di Teologia; nel 1877 la legge Coppino toglieva l’obbligatorietà della religione cattolica dal curriculum degli studi della scuola primaria (anche se fu reintegrata come materia facoltativa a carico dei bilanci comunali); nel 1890 la legge Crispi toglieva alla Chiesa la gestione delle opere pie.

Numerosi furono i tentativi di conciliazione negli anni seguenti come l’Associazione nazionale per soccorrere i missionari cattolici italiani, costituita da personalità del mondo cattolico e laico; l’ardente patriottismo di alcuni vescovi per la conquista italiana della Libia ritenuta una “crociata contro il turco”; la modificazione della legge elettorale nel 1912 con l’abbandono del divieto contenuto nel non expedit (1874) con l’elezione di candidati cattolici e liberali che si impegnassero a rispettare alcuni punti programmatici decisivi per la Chiesa. Furono ad un passo dall’accordo il governo di Vittorio Emanuele Orlando e la Chiesa cattolica nel 1919 (con contenuti ripresi poi nel 1929 dai Patti lateranensi) ma questa volta a opporsi fu Vittorio Emanuele III.

I Patti Lateranensi furono preceduti da una serie di misure del fascismo a favore della Chiesa: obbligo del crocefisso nei tribunali, nelle caserme e nelle scuole, festività religiose nel calendario civile, obbligatorietà dell’insegnamento religioso, parificazione delle scuole e riconoscimento della Università Cattolica, il reato di vilipendio della religione cattolica e altri benefici. Misure che venivano bilanciate con la tolleranza da parte di Mussolini per le violenze squadristiche contro le organizzazioni politiche e sindacali cattoliche. Atteggiamento che portò il fascismo ad ottenere quanto voleva cioè l’abbandono del Partito Popolare e delle leghe sindacali cattoliche da parte della Chiesa in cambio delle concessioni pubbliche in suo favore. Operazione che riuscì «dal momento che non solo comuni erano i nemici (liberalismo e comunismo) ma convergente anche la visione della società che agli occhi delle due parti doveva assumere un’organizzazione gerarchica, autoritaria, corporativa, ruralistica e familistica».

L’11 febbraio 1929 sancisce questa convergenza con un accordo che si compone di un Trattato, una Convenzione finanziaria ed il Concordato. Non entrando nel dettaglio dei contenuti – per i quali si rinvia alla lettura del libro – sottolineo che «si sarebbe rivelata ben presto illusoria la convinzione pontificia che grazie al fascismo ed al suo Duce, la Chiesa avrebbe potuto di nuovo contare su un’autorità civile pronta a tradurre in legislazione civile le norme etiche del cattolicesimo» dal momento che lo Stato fascista rivendicò energicamente un carattere di piena eticità attraverso l’educazione giovanile alla virilità, alla potenza e alla conquista e mantenne tratti di giurisdizionalismo che proponeva anche una religione politica sostitutiva del cristianesimo. La pratica attuazione dei Patti visse una stagione di contrastanti interpretazioni anche se prevalsero alla fine le ragioni dell’accordo come nel caso della decisione di chiudere i circoli dell’Azione Cattolica nel 1931 – perché vi si svolgeva l’attività educativa al di fuori delle direttive del fascismo – sebbene l’associazione fosse riconosciuta dall’articolo 43 del Concordato. Ma nonostante la forte tensione lo scontro si compose nella consapevolezza che non si poteva mettere «in questione la fondamentale conquista che per entrambe le parti, (i Patti) avevano felicemente assicurato; una società autoritaria, gerarchica e corporativa che limitava l’autonomia dei singoli». La questione dell’Azione Cattolica si riaprì nel 1938 quando le leggi razziali, vietando il matrimonio di un cittadino italiano di razza ariana con persona appartenente ad altra razza, violava il Concordato che attribuiva al diritto canonico la disciplina del matrimonio. Il Duce minacciò di togliere la tessera del partito fascista, con conseguenza perdita del lavoro pubblico, agli aderenti all’Azione Cattolica. La minaccia fu ritirata in uno scambio – come nel ‘31 – ma questa volta in cambio del silenzio della stampa cattolica sulla politica razziale del governo.

Con queste premesse si giunge alla caduta del fascismo e alla elaborazione della Costituzione del 1947. Il libro presenta le posizioni del papato, dei partiti e del mondo cattolico. Sembra un periodo durante il quale le parti in gioco seppero tenere un ruolo estremamente responsabile e realistico. Si trattava di introdurre in una Costituzione democratica e che riconosceva i diritti degli individui una normativa antidemocratica e autoritaria. La quasi unanime accettazione della menzione dei Patti nella Costituzione fu il prezzo pagato per il pieno sostegno della Chiesa alla gracile Repubblica democratica. «L’inserimento degli accordi lateranensi nello statuto portava l’istituzione ecclesiastica ad accettare quelle libertà religiose e civili che, richieste dagli Alleati e proposte dal mondo contemporaneo come dal mondo protestante, per secoli erano state da essa osteggiate. In tal modo si garantiva il sostegno vaticano (tutt’altro che scontato e peraltro affatto necessario, anche alla luce della fascistizzazione della società italiana nel ventennio) all’edificazione di un moderno assetto democratico nella penisola». Il libro di Menozzi dà conto dell’articolato dibattito che vide, tra i cattolici, l’impegno di Dossetti, artefice del compromesso poi votato a larghissima maggioranza, basato sul principio della pluralità degli ordinamenti giuridici quale garanzia con cui la Repubblica poteva sottrarsi alla logica totalitaria e diventare effettiva garanzia di sfere di libertà. Anche se la pluralità degli ordinamenti non impedisce, a mio parere, che in alcuni di essi vi possa essere una grave negazione di diritti individuali, Dossetti era convinto che la costruzione di un moderno ordinamento democratico in Italia richiedeva l’appoggio della Chiesa. Era chiaro che la realizzazione di un ordinamento pienamente democratico passava poi attraverso una revisione delle norme concordatarie. La posizione di Togliatti era animata dalla volontà di mantenere la pace religiosa in un Paese che ne aveva assoluto bisogno per la sua rinascita. L’articolo come formulato da Dossetti fu approvato con 350 voti a favore e 149 contrari.

Gli anni successivi – fino alla revisione del 1984 – sono l’oggetto dell’ultima parte del libro: anni caratterizzati da un sostanziale immobilismo sul fronte dell’adeguamento delle norme concordatarie alla Costituzione, anni in cui si critica la DC da parte della gerarchia per non costituire un argine alla secolarizzazione ed alla modernizzazione della società italiana. Il cardinale Ottaviani nel 1954 elogiava l’accordo con il regime franchista che riconosceva la Chiesa come società perfetta e si impegnava a tutelarne i conseguenti diritti. Nel 1955, Dossetti – ritiratosi dalla politica ed impegnato a Bologna in un’attività di approfondimento culturale – preparava un documento sulla situazione italiana richiestogli dal cardinale Lercaro in vista di un’assemblea di vescovi. Dossetti rilevava che il sistema concordatario non aveva prodotto risultati sul piano della cultura religiosa della società e che per la Chiesa sarebbe stato più utile affidare la sua presenza nella società italiana ad altri strumenti come l’impegno per la giustizia sociale, piuttosto che la gestione spesso burocraticamente routinaria, dei vantaggi derivanti dall’inserimento degli accordi del Laterano nella Carta fondamentale. Dossetti, a queste date, non invocava certo l’abbandono del Concordato. Auspicava piuttosto che la Chiesa «si impegnasse nella realizzazione di quella società autenticamente democratica che egli aveva vagheggiato da costituente». Si trattava di una posizione assolutamente lontana dai pensieri della gerarchia cattolica dell’epoca su cui il libro fornisce ampia documentazione. Ci vorrà l’ascesa al papato di Giovanni XXIII per chiudere “la questione romana” con la celebrazione, nel 1961, del centenario dell’Unità d’Italia. Un contributo al superamento della filosofia concordataria fu anche il Concilio Vaticano II che nella Gaudium et Spes rivendicava piena libertà per il ministero apostolico ma aggiungeva che la Chiesa «non pone la sua speranza nei privilegi offertigli dall’autorità civile. Anzi, essa rinunzierà all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso può far dubitare della sincerità della sua testimonianza o nuove circostanze esigessero altre disposizioni». Anche la sconfitta della Chiesa nei referendum sul divorzio e sull’aborto accelerarono la revisione conclusa poi dal governo Craxi nel 1984 i cui esiti principali furono l’abbandono del principio della religione di Stato, la piena libertà della Chiesa cattolica, il ridimensionamento del carattere sacro della città di Roma trasformato in un riconoscimento del particolare significato di Roma per il mondo cattolico, la limitazione dei privilegi fiscali agli enti con finalità di religione o di culto, il controllo da parte dei tribunali italiani dell’annullamento del matrimonio pronunciato dai tribunali ecclesiastici come avviene per le sentenze di Stati esteri, il carattere non obbligatorio dell’insegnamento della religione, l’estensione dell’assistenza religiosa oltre che alle forze armate anche agli istituti ospedalieri e penitenziari nel pieno rispetto delle credenze religiose di quanti vi operano». Sebbene Craxi celebrasse il nuovo accordo come il raggiungimento di una moderna separazione, subito si sollevarono interrogativi dovuti al mantenimento di privilegi mal conciliabili con la laicità: retribuzione statale degli insegnanti di religione scelti dall’autorità ecclesiastica; la spesa pubblica per l’assistenza negli ospedali, nelle carceri e nell’esercito con i cappellani inquadrati come ufficiali, con relativo stipendio e pensione, nei ruoli dell’esercito; l’esenzione fiscale per edifici ed attività religiose così genericamente definite che il turismo vi si faceva facilmente rientrare. Ma soprattutto l’istituto dell’8 per mille e la distribuzione delle non-scelte in proporzione alle scelte (modalità peraltro criticata di recente dalla Corte dei Conti NDR). Ma anche la Chiesa con Giovanni Paolo II aveva definito una accettazione della laicità molto “condizionata”. «Se nella costituzione del 1948 il rapporto pattizio tra Chiesa e Stato era dettato dalla prospettiva di garantire lo sviluppo della vita democratica, la sua riproposizione nel 1984 ha rappresentato un rallentamento del percorso della società italiana verso quell’effettiva laicità auspicata anche da quegli ampi settori della comunità ecclesiale che vi scorgevano l’attuazione di una istanza evangelica».

(*) ripreso da manifesto4ottobre

 

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