Attila era un uomo gentile, in confronto a Netanyahu

articoli, video e disegni di Giorgio Agamben, Meri Calvelli, Sergio Cipolla, Massimo Cacciari, Enrico Campofreda, Chris Hedges, Ali Abunimah, Treq Hajjaj, Alison Avigayil Ramer, Ennio Cabiddu, Fabrizio D’Esposito, Orly Noy, Scott Ritter, Nicolai Lilin, Caitlin Johnstone, Remocontro, Alberto Negri, Diego Ruzzarin, Lorenzo Lamperti, Alberto Capece, Davide Malacaria, Ignacio García-Valdecasas Fernández, Francesco Masala, Tomaso Montanari, Giuseppe Imperatore, Alessandro Orsini, Gianfranco Pagliarulo, Anwar El Ghazi, Giuliano Marrucci, Alessandro Di Battista, Zerocalcare, Latuff, Patrizia Cecconi

Il silenzio di Gaza – Giorgio Agamben

In questi giorni scienziati della School of Plant Sciences dell’università di Tel Aviv hanno annunciato di aver registrato con speciali microfoni sensibili agli ultrasuoni gli urli di dolore che le piante emettono quando sono tagliate o quando mancano di acqua. A Gaza non ci sono microfoni.

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Gaza, sopravvivere davanti alla morte – Enrico Campofreda

Passare da una scodella, riempita quando si può e riscaldata alla buona, al lettino d’un ospedale con un’ampia fasciatura sulla ferita curata prima che una sequenza di bombe la spazzi via assieme a medici, infermieri e feriti, è da settimane l’orrenda realtà della Striscia di Gaza. Amplissima la documentazione mediatica, tantoché alle migliaia di vittime civili (finora quindicimila, ma la guerra continuerà ricorda inesorabile il premier israeliano Netanyahu) si sono aggiunti, giorno dopo giorno, oltre cinquanta cadaveri di giornalisti e cineoperatori. Mica tutti colpiti per sbaglio. No. Mirati e centrati, come gli ultimi della lista, Farah Omar e Rabie al-Maamari, segnalati quali corrispondenti della tivù libanese Al Mayadin vicina a Hezbollah, dunque considerati nemici giurati e fatti fuori. Pacem in terris e via, da una terra senza pace. L’accordo che sta liberando 50 ostaggi israeliani, reclusi da Hamas in qualche atrio sotterraneo che l’Israel Defence Forces in azione e distruzione non è finora riuscito a raggiungere, in cambio di 150 prigionieri palestinesi e un effimero cessate il fuoco, varrà per quattro giorni. Poi dagli F35 e dai Merkava le bombe riprenderanno a cadere su edifici e teste, sui poveri corpi martoriati di chi non sa dove stare e dove andare. E non lo sa neppure chi punisce questa gente col sanguinario trapasso, con la sospensione di un’esistenza nata grama e proseguita mortifera.

Così quel piede inerte sotto un tramezzo di cemento che pesa quintali e chi è lì ad aiutare con le nude mani non riesce a sollevare, può essere di tuo figlio o comunque d’un qualsiasi figlio di Palestina destinato a sparire. Se non è crepato alla deflagrazione, se ha resistito addirittura al crollo, morirà davanti allo sguardo disperato di soccorritori urlanti e indaffarati, ma impotenti di fronte a un’estrazione impossibile. Resa tale da chi scientemente e in barba alla coscienza decide di portare morte, fulminante o lenta, compresa quella per fame e infezioni. Piaghe bibliche orientate da chi guida il popolo eletto. Allora pensi che è giunta l’ora del sudario, meglio finire una sopravvivenza stentata. E seppure davanti all’inumana tragedia che hai sotto gli occhi non lo pensi, questo è l’esiziale orizzonte che ti senti già avvolto nel lenzuolo bianco. Presto ricominceranno. L’annunciano, fa parte di quello che chiamano accordo sottoscritto dagli stessi leader d’ogni fronte. Domani, fra quattro giorni, ti toccherà morire. Sarai un martire adagiato in una fossa comune, ricoperto di quella terra che i grandi della Terra dicono ma non vogliono pacificare. Né offrire speranza di vita a chi angosciosamente d’intorno trova solo rovine.

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La guerra di Israele agli ospedali – Chris Hedges

Israele sta portando avanti una campagna per rendere Gaza inabitabile. Questa campagna prevede la distruzione di tutti gli ospedali di Gaza. Il messaggio che Israele sta inviando è chiaro: Nessun posto è sicuro. Se rimani muori.

Israele non sta attaccando gli ospedali di Gaza perché sono “centri di comando di Hamas”. Israele sta sistematicamente e deliberatamente distruggendo le infrastrutture mediche di Gaza come parte di una campagna di terra bruciata per rendere Gaza inabitabile e intensificare la crisi umanitaria. Intende costringere 2,3 milioni di palestinesi a oltrepassare il confine con l’Egitto da dove non torneranno mai più.

Israele ha distrutto e quasi svuotato l’Ospedale Al Shifa di Gaza City. Il prossimo è l’Ospedale Indonesiano di Beit Lahia. Israele sta schierando carri armati e mezzi corazzati attorno all’ospedale e ha sparato colpi contro l’edificio, uccidendo dodici persone.

Il copione è familiare. Israele lancia volantini sopra un ospedale avvisando di andarsene perché l’ospedale è una base per “attività terroristiche di Hamas”. Carri armati e proiettili di artiglieria abbattono parti delle mura dell’ospedale. Le ambulanze vengono fatte saltare in aria dai missili israeliani. L’elettricità e l’acqua vengono interrotte. Le forniture mediche bloccate. Non ci sono antidolorifici, antibiotici e ossigeno. I bambini più vulnerabili, i nati prematuri nelle incubatrici e quelli gravemente malati, muoiono. I soldati israeliani fanno irruzione nell’ospedale e costringono tutti a uscire sotto la minaccia delle armi.

Questo è quello che è successo all’Ospedale Al Shifa. Questo è quello che è successo all’Ospedale Pediatrico Al Rantisi. Questo è quello che è successo nel principale ospedale psichiatrico di Gaza. Questo è quello che è successo all’Ospedale Nasser. Questo è quello che è successo negli altri ospedali che Israele ha distrutto. E questo è ciò che accadrà nei pochi ospedali rimasti.

Israele ha colpito 21 dei 35 ospedali di Gaza, compreso l’unico ospedale oncologico di Gaza. Gli ospedali ancora operativi presentano gravi carenze di medicinali e forniture di base. Uno dopo l’altro gli ospedali vengono saccheggiati. Presto non ci saranno più strutture sanitarie. Questo è stato pianificato.

Decine di migliaia di palestinesi terrorizzati, costretti ad evacuare da Israele, con le loro case ridotte in macerie, cercano rifugio dagli incessanti bombardamenti accampandosi dentro e intorno agli ospedali di Gaza. Sperano che i centri medici non vengano presi di mira da Israele. Se Israele rispettasse le Convenzioni di Ginevra, avrebbero ragione. Ma Israele non sta portando avanti una guerra. Sta compiendo un Genocidio. E in un Genocidio, una popolazione, e tutto ciò che ne permette la sopravvivenza, viene annientato.

In un segnale inquietante che Israele si scaglierà contro i palestinesi in Cisgiordania una volta che avrà finito di radere al suolo Gaza, veicoli blindati hanno circondato almeno quattro ospedali della Cisgiordania. L’Ospedale Ibn Sina è stato saccheggiato dai soldati israeliani insieme all’ospedale di Gerusalemme Est.

Lo Stato coloniale israeliano è stato fondato sulla menzogna. È sostenuto dalla menzogna. E ora, mentre è cupamente determinato a compiere il peggior massacro e Pulizia Etnica di palestinesi dai tempi della Nakba, o “Catastrofe”, del 1948, che vide 750.000 palestinesi sottoposti a Pulizia Etnica e circa 50 massacri da parte delle milizie sioniste, sputa fuori una grottesca assurdità dopo l’altra. Parla dei palestinesi come di una massa disumanizzata. Non ci sono madri, padri, figli, insegnanti, medici, avvocati, cuochi, poeti, tassisti o negozianti. I palestinesi, nel lessico israeliano, rappresentano un virus che deve essere debellato.

Coloro che intraprendono progetti di sterminio di massa mentono per evitare di demoralizzare la propria popolazione, indurre le vittime a credere che non saranno tutte sterminate e impedire alle forze esterne di intervenire. I nazisti sostenevano che gli ebrei caricati sui treni e inviati nei campi di sterminio erano impegnati in attività lavorative e avevano buone cure mediche e cibo adeguato. Per quanto riguarda gli infermi e gli anziani, sono stati curati nei centri di riposo. I nazisti crearono persino un finto campo per il “reinsediamento” degli ebrei “in Oriente”, Theresienstadt, dove organismi internazionali come la Croce Rossa potevano vedere quanto umanamente venivano trattati gli ebrei, anche se milioni venivano sterminati.

Almeno 664.000 e forse fino a 1,2 milioni di armeni furono massacrati o morirono per esposizione, malattie e fame durante il Genocidio compiuto dall’Impero Ottomano dalla primavera del 1915 all’autunno del 1916. Il Genocidio armeno fu pubblico quanto il Genocidio a Gaza. Le missioni consolari europee e statunitensi hanno fornito resoconti dettagliati della campagna per ripulire la moderna Turchia dagli armeni.

Il governo ottomano, nel tentativo di nascondere il Genocidio, proibì agli stranieri di scattare fotografie dei profughi armeni o dei cadaveri lungo le strade. Anche Israele ha impedito alla stampa straniera di entrare a Gaza, autorizzando solo una manciata di visite brevi e attentamente organizzate dall’esercito israeliano. Israele interrompe periodicamente i servizi internet e telefonici. Almeno 43 giornalisti e operatori dei media palestinesi sono stati uccisi da Israele dall’incursione di Hamas in Israele il 7 ottobre, molti senza dubbio presi di mira dalle forze israeliane.

Gli armeni, come i palestinesi, sono stati costretti a lasciare le loro case, uccisi a colpi d’arma da fuoco e privati ​​di cibo e acqua. I deportati armeni furono inviati in marce della morte nel deserto siriano dove decine di migliaia furono fucilati o morirono di fame, colera, malaria, dissenteria e influenza. Israele sta costringendo 1,1 milioni di palestinesi a rifugiarsi nella punta meridionale di Gaza, bombardandoli mentre fuggono. Questi profughi, come gli armeni, mancano di cibo, acqua, carburante e servizi igienico-sanitari. Anche loro presto soccomberanno alle epidemie di malattie infettive.

Talat Pasha, il leader de facto dell’Impero Ottomano, rivolgendosi all’ambasciatore degli Stati Uniti, Henry Morgenthau Sr., con parole che replicano la posizione di Israele, il 2 agosto 1915, disse: “La politica armena è assolutamente determinata e nulla può cambiarla. Non avremo gli armeni da nessuna parte in Anatolia. Possono vivere nel deserto, ma da nessun’altra parte”.

Quanto più a lungo continua il Genocidio, tanto più assurde diventano le bugie.

Ci sono grandi bugie israeliane: L’annientamento di Gaza e l’uccisione sistematica di migliaia di palestinesi, insiste Israele, è uno sforzo mirato a sbarazzarsi di Hamas piuttosto che una campagna per ridurre Gaza a un cumulo di macerie, compiere uccisioni di massa e pulire etnicamente i palestinesi.

Ci sono piccole bugie israeliane: Quaranta bambini decapitati. L’Ospedale Al Shifa è un “centro di comando di Hamas”. Un calendario in arabo sul muro di un ospedale, secondo il Portavoce dell’IDF, il Contrammiraglio Daniel Hagari, è “un elenco di guardiani, dove ogni terrorista scrive il suo nome e ogni terrorista ha il proprio turno di guardia alle persone che erano qui”. Un attore israeliano vestito da infermiere e parlando arabo con un forte accento afferma di essere un medico palestinese e di aver visto Hamas usare i civili come scudi umani. Dice che i membri di Hamas “hanno attaccato l’Ospedale Al Shifa” e hanno rubato “carburante e medicine”. I militanti palestinesi, e non i carri armati israeliani, secondo Israele, sono responsabili del bombardamento dell’Ospedale Al Shifa. Israele ha colpito un’auto piena di “terroristi” nel Sud del Libano, “terroristi” che si sono rivelati essere tre ragazze, la loro madre e la loro nonna. L’esplosione all’Ospedale Al Ahli è stata il risultato di un razzo vagante lanciato dai palestinesi, un’affermazione messa in dubbio dal New York Times quando ha screditato il video sulla base dell’analisi della sua data e ora. Israele ha affermato di “aver risposto alla richiesta del direttore dell’Ospedale Al Shifa di consentire ai cittadini di Gaza che si trovavano ricoverati nell’ospedale e che desiderano evacuare dall’ospedale verso il passaggio umanitario nella Striscia di Gaza attraverso un corridoio sicuro”, ha dichiarato Mohammed Zaqout, direttore generale degli ospedali di Gaza, ha detto che era “falso”, aggiungendo che “sono stati costretti ad andarsene sotto la minaccia delle armi”. Il Tenente Colonnello israeliano Jonathan Conricus, in un video confutato dalla BBC, mostra agli spettatori una misera scorta di armi automatiche in un video promozionale che aumentano magicamente una volta che i giornalisti stranieri arrivano per una visita guidata. L’IDF lo ha successivamente cancellato.

Le bugie verranno scritte nei libri di scuola israeliani. Le bugie verranno ripetute da politici, storici e giornalisti israeliani. Le bugie verranno raccontate dalla televisione israeliana e nei film e nei libri israeliani. Gli israeliani sono vittime eterne. I palestinesi sono il male assoluto. Non c’è stato alcun Genocidio. La Turchia, un secolo dopo, nega ancora quello che è successo agli armeni.

In tempo di guerra le persone credono a quello che vogliono credere. Le bugie soddisfano la fame dell’opinione pubblica israeliana che vede il conflitto come una lotta tra “i figli della luce e i figli delle tenebre”. Le bugie sono uno scudo contro la responsabilità, perché se Israele rifiuta di riconoscere la realtà, non è costretto a rispondere della realtà. Le bugie creano dissonanza cognitiva, dove i fatti diventano finzione e la finzione diventa verità. Le bugie rendono impossibile qualsiasi discussione sul Genocidio o sulla riconciliazione.

Israele, con il sostegno dell’amministrazione Biden, continuerà a spegnere tutti i sistemi che sostengono la vita a Gaza. Ospedali. Scuole. Centrali elettriche. Impianti di trattamento dell’acqua. Fabbriche. Fattorie. Condomini. Case. Allora Israele fingerà, come gli assassini dei Genocidi del passato, che tutto ciò non sia mai accaduto.

Le menzogne usate da Israele per assolversi dalle proprie responsabilità divoreranno la società israeliana. Ne corroderanno la vita morale, religiosa, civica, intellettuale e politica. Le menzogne eleveranno i Criminali di Guerra allo status di eroi e demonizzeranno coloro che hanno una coscienza. Il Genocidio di Israele, come lo sterminio di massa del 1965 in Indonesia, sarà mitizzato, una battaglia epica contro le forze del male e della barbarie, proprio come abbiamo mitizzato il Genocidio dei nativi americani e trasformato i nostri coloni e le unità di cavalleria assassine in eroi. Gli assassini della guerra indonesiana contro il comunismo vengono acclamati nelle manifestazioni come salvatori. Vengono intervistati sulle “eroiche” battaglie combattute quasi sessant’anni fa. Israele farà lo stesso. Stravolgerà i fatti. Celebrerà i suoi crimini. Trasformerà il male in bene. Esisterà all’interno di un mito autocostruito. La verità, come in tutti i dispotismi, sarà bandita. Israele, un mostro per i palestinesi, sarà un mostro per se stesso.

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

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Parlando con mio nipote – Francesco Masala

Mio nipote mi chiede di spiegare qualcosa di quello che accade a Gaza, che quello che sente in tv non lo convince.

Gli ho risposto così, ricordando il passato.

Dopo il 25 luglio del 1943 i nazisti occupavano l’Italia, ma nonostante i numerosi attacchi e attentati dei partigiani, non hanno mai pensato di distruggere delle città.

A Gaza sopravvivono (sopravvivevano?) quasi due milioni e mezzo di persone, dopo l’attentato di Hamas del 7 ottobre l’esercito israeliano ha distrutto il territorio di Gaza, ha fatto saltare in aria case, ospedali, scuole e ha interrotto l’approvvigionamento di elettricità, acqua e cibo. Come se i nazisti avessero distrutto una città popolata come Roma, o come due Milano, mandando via la gente rimasta viva da un’altra parte, a piedi, solo coi vestiti che avevano addosso, e niente più. Ma Roma e Milano sono state più fortunate. I nazisti, che erano tedeschi, erano precisi, uccidevano dieci italiani per ogni tedesco morto, gli israeliani non hanno limiti.

E nessuno dice niente, l’Italia non fa niente?, chiede mio nipote.

Dal 1948, quando l’ONU ha “creato” Israele (e la Palestina), gli Usa, il paese più potente del mondo, ha permesso che Israele violasse tutte le risoluzioni dell’ONU che pretendevano il rispetto del diritto internazionale (e la nascita della Palestina) Israele riconoscono solo la Bibbia, come fondamento del (loro) diritto a fare quello che vogliono; tutta la terra dove vivono e dovrebbero vivere i palestinesi nel loro Stato, dice Israele, è tutta terra nostra, Dio ce l’ha data, e i palestinesi se ne devono andare.

Di tutti quelli che potrebbero fare qualcosa contro questa situazione, il blocco occidentale, di cui fa parte l’Italia, sostiene Israele moralmente, materialmente, politicamente, militarmente, schifosamente.

E spiegami la storia degli ostaggi, mi chiede.

I guerriglieri palestinesi hanno preso degli ostaggi, per quello gli Israeliani stanno facendo questo massacro e distruzione. Li rivogliono indietro, li riavranno in cambio di ostaggi palestinesi che stanno nelle galere israeliane, mai con un giusto processo, come lo intendiamo noi, per un commento sui social, per il lancio di una pietra, per resistere alla violenza dei coloni israeliani che occupano le terre palestinesi, espellendo i palestinesi dalle loro case, anche loro sono ostaggi, dicono i palestinesi.

Però, dice mio nipote, a sentire la tv gli israeliani sono santi e i palestinesi diavoli.

E tu non guardarla, gli ho risposto.

 

 

Video. Bambini israeliani che cantano: “Annienteremo tutti” a Gaza – Ali Abunimah

L’emittente nazionale israeliana Kan ha caricato su X (ex Twitter) questa canzone in cui i bambini israeliani cantano per celebrare e sostenere la campagna di sterminio di massa dell’esercito israeliano contro i palestinesi di Gaza.

I dolci volti dei bambini fanno da incongruo accompagnamento al testo genocida della cosiddetta Friendship Song 2023.

“La notte d’autunno scende sulla spiaggia di Gaza, gli aerei bombardano, distruzione, distruzione”, cantano i bambini con voci angeliche. “Entro un anno annienteremo tutti, e poi torneremo ad arare i nostri campi”.

Il testo è stato tradotto per The Electronic Intifada dallo scrittore e regista indipendente David Sheen e potete vedere il video sottotitolato della canzone qui sotto (3 min):

L’incitamento al genocidio è un crimine

Kan, l’emittente israeliana, ha pubblicato domenica il video completo della canzone sul suo account X, ma lo ha cancellato poco dopo in seguito alle proteste degli utenti israeliani e non solo.

Alcuni hanno espresso il timore che potesse favorire la “propaganda di Hamas”, mentre altri sono apparsi sinceramente disgustati dai messaggi violenti e genocidi del video.

Una copia archiviata del tweet di Kan, ora cancellato, è ancora disponibile online. Kan ha anche cancellato una pagina con la canzone dal suo sito web, ma anche questa è disponibile in archivi.

La pagina ora cancellata sul sito web di Kan era intitolata “Amore santificato dal sangue: I bambini registrano nuovamente la canzone dell’amicizia”.

Non è chiaro perché Kan abbia rimosso il video, ma è possibile che qualcuno si sia preoccupato che il suo contenuto potesse rendere il canale complice di genocidio.

Due decenni fa, i funzionari di Radio Télévision Libre des Mille Collines sono stati condannati da un tribunale internazionale per incitamento al genocidio per le trasmissioni che promuovevano lo sterminio dei Tutsi in Ruanda nove anni prima.

La canzone e il video sono stati originariamente creati da Ofer Rosenbaum, un cosiddetto “esperto di comunicazione di crisi” che dirige una società di pubbliche relazioni chiamata Rosenbaum Communication.

Società di pubbliche relazioni per la pulizia etnica

Il video è stato pubblicato da “The Civil Front“, un’organizzazione gestita da Ofer Rosenbaum che dice di voler mobilitare il fronte interno israeliano a sostegno della guerra contro Gaza.

Nel 2020, Rosenbaum è stato responsabile di una campagna di affissioni a Tel Aviv che raffigurava il leader dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas e il leader di Hamas Ismail Haniyeh inginocchiati a terra e bendati, con lo slogan “La pace si fa solo con i nemici sconfitti”.

Il committente di questa campagna è l’Israel Victory Project, una dipendenza del Middle East Forum, l’organizzazione gestita dal noto agitatore anti-musulmano Daniel Pipes.

L’Israeli Victory Project sta attualmente promuovendo la pulizia etnica della Striscia di Gaza.

Rosenbaum ha anche assunto come cliente Malka Leifer, ex preside di una scuola femminile ebraica di Melbourne che ha passato anni a cercare di evitare l’estradizione da Israele all’Australia per rispondere di accuse di abusi sessuali su minori.

Rosenbaum ha dichiarato di essersi poi pentito di questa decisione, anche se solo dopo che il tentativo di fermare l’estradizione di Leifer è fallito nel 2021.

In agosto, Leifer è stato condannato da un tribunale di Melbourne a 15 anni di carcere per aver stuprato e abusato sessualmente di due bambine.

Usare i bambini per promuovere un messaggio di genocidio è un’altra forma di abuso.

“La canzone dell’amicizia 2023”

Testo di Ofer Rosenbaum e Shulamit Stolero

Prima strofa:

La notte d’autunno scende sulla spiaggia di Gaza

Gli aerei bombardano, distruzione, distruzione

Guarda: l’IDF sta passando il confine

per annientare quelli con le svastiche

Tra un anno là non ci sarà più nulla

E noi torneremo in sicurezza alle nostre case

Entro un anno annienteremo tutti

E poi torneremo ad arare i nostri campi

Coro:

E ricorderemo tutti

quei belli e i puri

Non lasceremo mai che i nostri cuori

dimentichino un’amicizia come questa

Amore santificato con il sangue

Tornerai a fiorire tra noi

Seconda strofa:

Non abbiamo più parole

La nostra anima grida ancora

La nostra anima non solo canta

Oggi la nostra anima combatte anche

Un popolo

Il popolo del ‘per sempre’

Non smetteremo di proteggere le nostre case

Non saremo in silenzio

Mostreremo al mondo

come oggi distruggiamo il nostro nemico

Si ripete il coro.

Testo tradotto dall’ebraico per The Electronic Intifada da David Sheen.

https://electronicintifada.net/blogs/ali-abunimah/watch-israeli-children-sing-we-will-annihilate-everyone-gaza?utm_source=substack&utm_medium=email

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

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Le piogge su una Gaza distrutta potrebbero significare un disastro – Treq Hajjaj

Mentre la pioggia inizia a cadere su Gaza, un milione di palestinesi sfollati soffre il freddo e la mancanza di riparo, mentre pochi riescono a godere del sollievo parziale che  la pioggia fornisce in mezzo alla carenza d’acqua imposta dall’assedio genocida di Israele.

Per la prima volta a Gaza la pioggia è diventata una maledizione per i poveri e gli sfollati. La famiglia di Osama Hajjaj, composta dalla moglie e da otto figli, si era sistemata sotto  una tenda improvvisata che avevano eretto per ripararsi dal sole cocente, senza mai pensare che presto avrebbero dovuto affrontare forti piogge.

Per “tenda” non intendo una tenda ufficiale eretta dall’UNRWA che può ospitare un certo numero di persone in pochi metri quadrati. Piuttosto, la “tenda” è poco più di un mosaico di tende, coperte e asciugamani riutilizzati e legati insieme con una corda. La tenda della famiglia di Osama si trova nel cortile dell’Ospedale Europeo di Khan Younis.

La famiglia di Osama è fuggita a Khan Younis il 10 ottobre dal quartiere di Shuja’iyya, nella parte più settentrionale di Gaza. In quel periodo, Gaza sperimentava temperature insolitamente elevate, quindi la famiglia ha lasciato la casa indossando abiti leggeri adatti al caldo estivo. Nessuno poteva pensare che la fuga da casa sarebbe durata così a lungo, o che sarebbero entrati nella stagione invernale con poco più che i vestiti che indossavano.

“Siamo partiti con solo due cambi di vestiti a persona”, ha detto Osama in un’intervista a Mondoweiss. “Per tutto questo tempo, ne abbiamo indossato uno, lavato l’altro e aspettato che si asciugasse, per poi cambiarlo.”

“Non avevamo idea che tutto ciò sarebbe continuato durante l’inverno e che avremmo dovuto affrontare una serie di catastrofi umanitarie”, ha aggiunto. “I bombardamenti costanti, la fame e ora il freddo, mettono a rischio la vita dei nostri figli”.

Negli ultimi due giorni, su Gaza sono cadute forti piogge. Ciò ha notevolmente esacerbato le già deplorevoli condizioni in cui quasi un milione di rifugiati vivono nei rifugi, nei cortili degli ospedali, nelle scuole e nelle strade pubbliche.

Queste sono le stesse piogge che i palestinesi di Gaza hanno sempre visto come una benedizione, in quanto utili all’agricoltura e al rifornimento dei pozzi d’acqua sotterranea, soprattutto considerando che il 97% dell’acqua di Gaza era ritenuta imbevibile già prima della guerra. Ora, in condizioni così dure di sfollamento, le piogge portano disastri e rinnovata sofferenza.

Ben prima del 7 ottobre e della catastrofica distruzione provocata dalla rappresaglia genocida di Israele, Gaza soffriva già di un peggioramento della crisi infrastrutturale che aveva portato a inondazioni croniche nei quartieri poveri e nei campi profughi di Gaza. La crisi delle inondazioni è stata il risultato diretto della distruzione delle infrastrutture civili causata dalle precedenti guerre israeliane dal 2008 in poi. Dopo ogni guerra, i comuni impiegavano anni nel tentativo di riparare il danno, rallentati dalle restrizioni del blocco israeliano sull’ingresso di materiali e attrezzature da costruzione.

Ora, in seguito alla distruzione della guerra, la maggior parte delle infrastrutture civili di Gaza sono state rase al suolo…

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Bassem e Ahed Tamimi sono in una prigione israeliana perché difendono la libertà palestinese – Alison Avigayil Ramer

Conosco la famiglia Tamimi da 13 anni e ho visto come Israele prende di mira sistematicamente attivisti e movimenti non violenti. Ahed e Bassem Tamami sono attualmente detenuti perché difendono la libertà palestinese.

Sono un’ebrea israeliana americana e in Palestina mi chiamano Alison Tamimi, la sorella prescelta di Bassem Tamimi, la cui vera sorella fu uccisa da un traduttore israeliano che la spinse giù da una rampa di scale in un tribunale militare israeliano nel 1993, e zia di Ahed Tamimi, sua figlia e una delle giovani attiviste per i diritti umani palestinesi più famose a livello internazionale.  Conosco questa famiglia da 13 anni: più volte sono stati separati e tutti i membri della famiglia hanno trascorso del tempo in prigione a causa del loro attivismo non violento. All’inizio di novembre Bassem è stato arrestato ed è detenuto nel carcere di Ofer in detenzione amministrativa senza alcuna accusa. Due settimane fa, dopo una campagna online contro di lei che ha utilizzato falsi account di social media per pubblicare contenuti falsi, anche Ahed è stata arrestata ed è detenuta nella prigione di Damon. È apparsa due volte davanti al tribunale militare dopo il suo arresto ed è stata visibilmente picchiata. Non ha avuto accesso a un avvocato.

Sono cresciuta negli Stati Uniti in una comunità ebraica e sono immigrata in Israele dopo il college, a seguito  di un viaggio Birthright Israel. Dopo aver vissuto a Tel Aviv per diversi anni, volevo rendermi conto dell’occupazione israeliana in Cisgiordania. Andai a una protesta palestinese che era appena iniziata e che sarebbe andata avanti per un decennio. È lì che ho incontrato Bassem e Ahed Tamimi. Anche se molti israeliani mi avevano detto che sarei stata linciata perché ero ebrea e israeliana, la maggioranza dei palestinesi era irremovibile nell’inquadrare il problema come legato alle politiche e alle pratiche di Israele, non agli individui – non agli ebrei, o addirittura agli israeliani. Quando ci incontrammo, Bassem e la sua famiglia mi accolsero dicendomi che ero “la persona più importante venuta nel loro villaggio, perché ero venuta per rimuovere l’occupazione dalla mia mente”.

Per rimuovere l’occupazione dalla mia mente non ci è voluto molto tempo, una volta che mi sono trasferita in Cisgiordania su invito dei palestinesi. Ho visto in prima persona come l’esercito israeliano provoca la violenza. Una volta stavo prendendo un tè e ballando sul tetto di una casa palestinese con due bambine di cinque anni quando i soldati israeliani hanno invaso il villaggio. Ci hanno osservato ballare sul tetto per diversi minuti, prima di guardarmi dritto negli occhi e spararci gas lacrimogeni. Un’altra volta, ero con un gruppo di bambini che con il gesso disegnavano segni di pace sulla strada, quando una jeep dell’esercito si è avvicinata e ci ha lanciato contro granate assordanti. Mentre dormivo a casa di un amico, l’esercito israeliano è arrivato nel cuore della notte e ha distrutto l’intera casa. Hanno insistito per scattare foto dei bambini, cosa che, come  un soldato israeliano ha poi confessato su “This American Life”, non era fatta per raccogliere informazioni, ma come tattica per terrorizzare le persone nelle loro case. Migliaia di storie come queste sono da decenni raccontate al mondo da palestinesi, israeliani (compresi i soldati) e sostenitori internazionali.

Quando incontrai Ahed Tamimi per la prima volta, era concentrata su un cubo di Rubik con cui stava giocando in un campo durante una violenta incursione dell’esercito israeliano nel suo villaggio. Aveva otto anni. Pochi mesi dopo, si unì al corso di fotografia che avevo organizzato per bambini di 12-14 anni con l’organizzazione umanitaria internazionale World Vision. Nel corso delle sei settimane di lezione, ognuno degli studenti  fu rapito dall’esercito israeliano. La maggior parte di loro fu torturata. È raro trovare un bambino in Cisgiordania che non sia stato arrestato dall’esercito israeliano almeno una volta, se non più volte, durante la sua infanzia. Mentre le organizzazioni per i diritti umani documentano il numero di bambini detenuti in detenzione militare e amministrativa israeliana, il numero di bambini arrestati è troppo alto perché qualsiasi organizzazione per i diritti umani possa documentarlo.

Nel corso dei quindici anni in cui ho vissuto e lavorato con i palestinesi in Israele, Cisgiordania, Gerusalemme e Gaza, sono stata testimone di come Israele prenda di mira movimenti e attivisti non violenti e privi sistematicamente le persone della loro capacità di vivere una vita privata pacifica.  Nel 2018, durante la Grande Marcia del Ritorno, quando decine di migliaia di giovani di Gaza marciarono per rivendicare i loro diritti umani, vidi come Israele ne uccise 223, tra cui medici e giornalisti, e come ferì 29.000 persone. Tre settimane fa, Israele ha ucciso cinque membri della famiglia del poeta e scrittore palestinese Ahmed Abu Artema, a cui è ampiamente riconosciuto il merito di aver ispirato la Grande Marcia del Ritorno. Dal 7 ottobre migliaia di palestinesi sono detenuti da Israele, tra cui giornalisti, accademici, artisti e membri del consiglio legislativo palestinese. Quando persone che amavo sono state uccise e ferite dalla violenza militare israeliana, ho sentito la profondità del dolore che può trasformare l’amore per l’umanità in odio. Sono sicura che tutte le persone siano capaci di provare questo dolore e che Israele vuole che i palestinesi sentano il dolore che semina il seme dell’odio.

Se qualcuno si chiede dove siano i Gandhi palestinesi, la risposta è che vengono rapiti e portati in luoghi sconosciuti dove vengono torturati, tenuti in detenzione militare e amministrativa nelle carceri israeliane, uccisi a sangue freddo mentre tornano a casa da scuola, moribondi per le ferite incurabili negli ospedali distrutti, sepolti sotto le macerie della vendetta a Gaza. Nonostante ciò, ci sono molti che continueranno a crescere nella cultura della resistenza. Il fatto che la stragrande maggioranza del popolo palestinese sia rimasta salda così a lungo è un miracolo dello spirito umano. L’ampia propaganda anti-palestinese perpetuata da Israele e la copertura mediatica razzista che dura da decenni, non riusciranno a privare l’umanità della conoscenza di alcuni dei più grandi attivisti della storia moderna.

Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali”- Invictapalestina.org

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In Sardegna c’è una scuola – Ennio Cabiddu

In Sardegna c’è  una scuola

Dove si insegna una materia sola

Come dai “Caccia” saper bombardare

Senza rimorsi o coscienze da lavare

La scuola l’ha aperta la LEONARDO

Che ha scelto il nostro suolo sardo

A pochi km da una fabbrica di bombe

Che non vede l’ora di riempire altre tombe

 

 

QUI un video di Manlio Dinucci

 

 

Ebrei ultraortodossi. I “Neturei Karta”: quei rabbini filopalestinesi che accusano Israele di “genocidio” – Fabrizio D’Esposito

Ebrei ultraortodossi ma antisionisti e filopalestinesi. Proprio così. Il loro rabbino più noto si chiama Yisroel Dovid Weiss e vive negli Stati Uniti: il Chierico si è occupato di lui nell’ottobre del 2021, a proposito dei suoi rapporti con la teocrazia iraniana.

Sulla nuova guerra in corso a Gaza, Weiss è schierato decisamente dalla parte di Hamas. Il video di una sua intervista è stato rilanciato a metà ottobre anche dalla pagina Facebook di Moni Ovadia. Questo gruppo minoritario di haredim si chiama Neturei Karta che significa Guardiani della Città e si batte contro l’idea dello Stato di Israele sin dalla metà degli anni Trenta. Ecco la loro posizione sul conflitto scatenato dal premier Benjamin Netanyahu dopo il sanguinario pogrom di Hamas del 7 ottobre: “Ora i sionisti stanno distruggendo Gaza, lasciando i suoi tormentati abitanti senza le necessità umane di base: cibo, acqua, riparo, carburante ed elettricità. Il sistema sanitario è al collasso ed il numero di feriti e mutilati è spaventoso. Senza mezzi termini, i sionisti stanno commettendo un genocidio”.

E ancora: “L’esistenza dello Stato di Israele è criminale, fondata e, ancora oggi, gestita da terroristi. La sua continua occupazione e le sue azioni selvagge vanno contro anche i più elementari standard di umanità e sono una colossale violazione dell’ebraismo”. Per i Neturei Karta, la fondazione dello Stato israeliano è un “abominio”, contrario ai precetti del Talmud, uno dei testi sacri dell’ebraismo. In questo senso: l’edificazione di Israele deve avvenire non per mano dell’uomo ma per volontà divina, alla venuta del Messia. Nell’attesa, la soluzione è quindi la fine dell’occupazione sionista della Palestina, unico ostacolo alla pace tra i due popoli.

Non solo. Per il rabbino Weiss (madre polacca, padre ungherese e molti familiari sterminati nella Shoah), il sionismo ha strumentalizzato l’Olocausto per giustificare la fondazione dello Stato d’Israele. In questi lustri i Neturei Karta hanno mantenuto relazioni con i nemici di Israele. Un altro rabbino, Moshe Hirsch, fu consigliere per gli affari ebraici di Arafat. Suo figlio Meir, pure lui rabbino, vive a Gerusalemme, nel quartiere di Mea Shearim, laddove gli haredim cercano di non avere contatti con l’esterno: non votano, non fanno il militare, non pagano le tasse. In un’intervista di qualche anno fa Meir Hirsch spiegò la radice religiosa del suo antisionismo: “È scritto nel Talmud in Ketubot nel foglio 111: Dio fece giurare al popolo ebraico che durante la diaspora non avrebbero sovvertito l’ordine delle nazioni del mondo. In alcun modo avrebbero creato un nuovo stato. La vera Israele verrà ricostituita soltanto quando arriverà il Messia. Non si può in nessun modo accelerare la sua venuta. Per questo noi siamo contrari al sionismo, è la Torah stessa ad essere contraria. Il sionismo non viene per unire, ma per strappare il popolo ebraico dalle sue radici profonde e trasformarlo in un nuovo popolo diverso da quello originale”.

Neturei Karta ostentano i simboli palestinesi e indossano la kefiah. All’ingresso delle loro abitazioni sovente c’è un cartello. C’è scritto, in inglese: “Jews are not Zionists”. “Gli ebrei non sono sionisti”.

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Quello che gli israeliani non vogliono credere sui palestinesi liberati in cambio degli ostaggi – Orly Noy

La lista dei palestinesi destinati a essere scambiati con israeliani dovrebbe far riflettere sul ruolo degli arresti di massa nell’occupazione.

Stamattina Israele e Hamas hanno definito i dettagli di un accordo per sospendere le ostilità nella Striscia di Gaza a quasi sette settimane dall’inizio della guerra. L’accordo include un cessate il fuoco di quattro giorni e lo scambio di 50 ostaggi israeliani con 150 “prigionieri di sicurezza” palestinesi con la possibilità di altri scambi in un secondo tempo. Questi sono i termini che Hamas avrebbe offerto a Israele settimane fa nelle prime fasi della guerra, ma il primo ministro Benjamin Netanyahu ha preferito lanciarsi in una guerra totale contro la Striscia assediata, uccidendo oltre 14.000 palestinesi, anche a scapito della salvezza e del benessere degli ostaggi israeliani, prima di prendere in considerazione un accordo.

Israele ha pubblicato i nomi dei 300 prigionieri palestinesi che intende liberare come parte dell’accordo o in seguito alla liberazione di altri ostaggi israeliani, per permettere la presentazione di ricorsi nei tribunali israeliani contro il rilascio di specifici individui. Per il momento tutti gli ostaggi e i prigionieri da scambiare sono donne e minori. Tuttavia molti della destra israeliana e forse nell’opinione pubblica credono che il governo stia facendo una significativa concessione liberando pericolosi “terroristi” per il bene di pochi ostaggi.

Leggendo la lista dei prigionieri palestinesi scelti per il rilascio la prima cosa che colpisce è la loro età. La gran maggioranza, 287, ha 18 anni o meno, compresi cinque quattordicenni, cosa che solleva la domanda: come può un quattordicenne essere un “prigioniero di sicurezza?”

I nomi sulla lista includono persone che apparterrebbero a fazioni politiche palestinesi come Hamas, Fatah, Jihad Islamica e Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), e anche molti che non sono affiliati ad alcun gruppo. Nessuno è stato condannato per omicidio. Alcuni sono stati condannati per tentato omicidio mentre la maggioranza è stata accusata di reati minori, fra cui molti arrestati per il lancio di pietre. Uno di loro, un diciassettenne, è stato dietro le sbarre per due anni per aver gettato pietre contro un veicolo militare israeliano a Gerusalemme, la stessa città dove i coloni ebrei possono scatenare disordini contro i palestinesi che raramente finiscono con indagini, men che meno arresti.

Ma soprattutto la lista è una sorprendente testimonianza di come arresti e incarcerazioni siano centrali nell’occupazione e nel controllo israeliano sui palestinesi. Secondo i dati dell’organizzazione israeliana per i diritti umani HaMoked, nel novembre 2023 Israele detiene 6.809 “prigionieri di sicurezza.” Di questi 2.313 stanno scontando una pena, 2.321 non sono ancora stati condannati dal tribunale, 2.070 sono in detenzione amministrativa (incarcerazione indefinita senza prove o giusto processo) e 105 sono “combattenti illegali” arrestati durante gli attacchi di Hamas del 7 ottobre nel sud di Israele.

Quasi tutti i 300 palestinesi destinati al rilascio sono prigionieri relativamente recenti, arrestati negli ultimi due anni. Fanno eccezione 10 donne di Gerusalemme e Cisgiordania che sono in prigione dal 2015-17, in maggioranza con l’accusa di aver commesso o tentato di commettere attacchi all’arma bianca contro soldati israeliani, alcuni senza aver causato alcun danno, mentre altri hanno provocato lesioni da lievi a moderate.

Va ricordato che tutto ciò è supervisionato dallo stesso sistema giuridico che, fra innumerevoli altri esempi, ha deciso di chiudere il caso contro un colono israeliano che ha accoltellato a morte un giovane palestinese nel maggio 2022 perché “non è possibile escludere la versione [del sospettato] di aver agito per legittima difesa.” È lo stesso sistema che a luglio di quest’anno ha assolto un poliziotto israeliano che ha ucciso Iyad al-Hallaq, un palestinese affetto da autismo, nonostante chiare testimonianze e video che provavano che era disarmato e non rappresentava un pericolo di alcun genere.

Ciò va ad aggiungersi al fatto che i “prigionieri di sicurezza” sono giudicati da un sistema separato di tribunali militari che vanta un tasso di condanne tra il 95 e il 99%. Agli occhi del regime di apartheid israeliano la tolleranza è un diritto riservato solo agli ebrei.

Mentre gli ebrei che causano disordini, che attaccano e persino uccidono palestinesi godono dell’immunità, la lista dei prigionieri ci ricorda che i palestinesi possono essere arrestati in massa solo in base alle “intenzioni” di compiere un atto violento. Uno di quelli sulla lista, una donna di 45 anni di Gerusalemme, è stata in carcere per oltre due anni perché “è stata colta nella Città Vecchi con un coltello in mano,” e “ha detto che intendeva compiere un attacco.” Intanto il ministro kahanista [dell’estrema destra che si ispira al pensiero del rabbino Meir Kahane, ndt.] della Sicurezza Nazionale israeliana incita gli ebrei ad armarsi mentre distribuisce armi come caramelle e molti israeliani di destra stanno scrivendo innumerevoli messaggi, pubblici e privati, annunciando allegramente la loro intenzione di “ammazzare quanti più arabi possibile.”

Talvolta sul capo d’accusa non appare neanche “l’intenzione”. Un diciottenne di Gerusalemme è stato “arrestato con altri perché gridava ‘Allahu Akbar.” Una diciottenne della Cisgiordania è stata imprigionata per mesi per “incitamento su Instagram.” Fra gli israeliani, per contro, espliciti inviti al genocidio sono considerati un modo legittimo per sollevare il morale nazionale, mentre i palestinesi con cittadinanza israeliana possono essere arrestati per aver semplicemente postato la foto di una shakshuka [uova speziate, piatto magrebino poi introdotto in Israele e nord-Africa,] accanto a una bandiera palestinese.

Delle accuse elencate solo poche sono relative all’uso di armi e di aver sparato contro l’esercito israeliano (e persino in questi casi, non ci sono state vittime). La grande maggioranza degli episodi riguarda il lancio di pietre o molotov, lanciare fuochi di artificio e causare “disturbo alla quiete pubblica.” È valsa la pena di lasciar languire a Gaza gli ostaggi israeliani, donne e bambini, per alcune settimane per poter continuare a tenere in prigione un ragazzo che ha osato gridare “Dio è grande?”

Naturalmente questa lista è composta da prigionieri “deboli”, che non solleveranno molta opposizione pubblica, mentre i prigionieri palestinesi che sono stati accusati di reati ben più gravi e di omicidio restano nelle carceri israeliane. Ma i 300 nomi che Israele è riuscito a mettere insieme, quasi tutti giovani, arrestati negli ultimi due anni e imprigionati per qualche forma di resistenza popolare, dovrebbero indurre gli israeliani alla riflessione.

Dopo tutto, c’è un chiaro legame fra la mano pesante usata per reprimere ogni espressione di opposizione da parte palestinese e il rafforzarsi dei gruppi armati che vedono la violenza come l’unico modo di sfidare seriamente gli occupanti. Ma questo richiederebbe che l’opinione pubblica israeliana finalmente cogliesse il fatto fondamentale che se l’oppressione continua, inevitabilmente, continuerà anche la resistenza.

Orly Noy è una giornalista di Local Call, un’attivista politica e traduttrice di poesia e prosa in farsi. È presidente del consiglio di amministrazione di B’Tselem e attivista del partito politico Balad. I suoi scritti trattano delle linee che intersecano e definiscono la sua identità di mizrahi, donna di sinistra, donna, migrante temporanea che vive dentro un’immigrata permanente e il continuo dialogo fra loro.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)

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HAMAS STA VINCENDO LA BATTAGLIA DI GAZA – Scott Ritter

Il cessate il fuoco annunciato di recente è una benedizione sia per i palestinesi che per gli israeliani: un’occasione per lo scambio di prigionieri, per la distribuzione di aiuti umanitari e per raffreddare gli animi delle due parti conflitto.

Sebbene il cessate il fuoco, negoziato tra Israele e Hamas dal Qatar, sia stato concordato reciprocamente tra le due parti, non bisogna lasciarsi ingannare e pensare che non si tratti di una vittoria di Hamas. Israele aveva assunto una posizione molto aggressiva e, visto che il suo obiettivo dichiarato era quello di distruggere Hamas come organizzazione, non avrebbe accettato un cessate il fuoco a nessuna condizione.

Hamas, d’altra parte, quando aveva iniziato l’attuale serie di scontri con Israele aveva posto tra i suoi obiettivi primari il rilascio dei prigionieri palestinesi, in particolare donne e bambini, detenuti da Israele. In quest’ottica, il cessate il fuoco rappresenta un’importante vittoria per Hamas e un’umiliante sconfitta per Israele.

Uno dei motivi per cui Israele aveva sempre respinto un cessate il fuoco è che era sicuro che l’operazione offensiva lanciata nel nord di Gaza avrebbe neutralizzato Hamas come minaccia militare e che qualsiasi cessate il fuoco, indipendentemente dalla giustificazione umanitaria, avrebbe solo dato il tempo ad Hamas, un nemico ormai sconfitto, di riposare, rifornirsi e riorganizzarsi. Il fatto che Israele abbia accettato un cessate il fuoco è il segno più evidente che non tutto va bene nell’offensiva israeliana contro Hamas.

Questo risultato non avrebbe dovuto sorprendere nessuno. Quando Hamas aveva lanciato l’attacco del 7 ottobre contro Israele aveva dato il via ad un piano preparato da anni. L’attenzione meticolosa ai dettagli, evidente nell’operazione di Hamas, era la prova del fatto che Hamas aveva studiato l’intelligence e le forze militari israeliane schierate contro di lui, scoprendo punti deboli che erano stati successivamente sfruttati. L’azione di Hamas era stata qualcosa di più di una operazione tattica accuratamente pianificata, era stata un capolavoro di concettualizzazione strategica.

Uno dei motivi principali della sconfitta israeliana del 7 ottobre è dovuto al fatto che il governo israeliano era convinto che Hamas non avrebbe mai attaccato, indipendentemente da ciò che dicevano gli analisti dell’intelligence incaricati di sorvegliare le attività di Hamas a Gaza. Questo perchè Hamas aveva identificato gli obiettivi politici di Israele (l’annullamento di Hamas come organizzazione di resistenza tramite una politica che aveva cercato di “comprare” Hamas attraverso un programma ampliato di permessi di lavoro rilasciati da Israele ai palestinesi di Gaza). Utilizzando proprio il programma dei permessi di lavoro, Hamas aveva ingannato la leadership israeliana e questo aveva permesso che i preparativi di Hamas per l’attacco potessero essere eseguiti in piena vist

L’attacco del 7 ottobre da parte di Hamas non è stato un’operazione a sé stante, ma piuttosto parte di un piano strategico che aveva tre obiettivi principali: riportare la questione di uno Stato palestinese al centro del discorso internazionale, liberare le migliaia di prigionieri palestinesi detenuti da Israele e costringere Israele a rinunciare alla profanazione della Moschea di Al Aqsa, il terzo luogo più sacro dell’Islam…

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Trovare vestiti caldi, il calvario degli sfollati da Gaza

In ginocchio, Khouloud Jarboue fruga in una pila di vestiti. Quando questa donna di Gaza è fuggita da casa sotto le bombe, i suoi tre figli indossavano pantaloncini e maglietta. Oggi sopravvivono alla pioggia e al freddo pungente.

“Abbiamo lasciato Gaza City con 20 membri della mia famiglia più di un mese fa”, ha detto all’AFP questa donna palestinese di 29 anni. L’esercito israeliano, che bombarda incessantemente il piccolo territorio dal sanguinoso attacco di Hamas che ha provocato 1.200 morti in Israele il 7 ottobre, aveva ordinato ai residenti di fuggire verso sud, definito più sicuro.

“Non abbiamo portato vestiti con noi. Adesso che fa freddo devo comprare dei vestiti invernali”, continua la giovane. Nello stand di vestiti usati allestito davanti alla scuola dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (UNRWA), dove dorme con la famiglia sul pavimento, i vestiti vengono venduti per uno shekel al pezzo (25 centesimi di euro).

Già nel 2022, l’ONU stimava che il blocco imposto da Israele alla Striscia di Gaza dal 2007 avesse “svuotato l’economia di Gaza della sua sostanza, lasciando l’80% della popolazione dipendente dagli aiuti internazionali”. La disoccupazione raggiunge il 45% in questo piccolo territorio incastrato tra Israele, Egitto e Mediterraneo.

Niente doccia né bucato

Oggi, secondo l’ONU, tutti i 2,4 milioni di abitanti di Gaza soffrono la fame, 1,65 milioni di loro sono stati costretti a spostarsi e con quasi una casa su due distrutta o danneggiata, la povertà continuerà ad aumentare. “Questa è la prima volta nella mia vita che compro vestiti di seconda mano. Non siamo ricchi, ma di solito posso comprare vestiti per i miei figli per dieci shekel. Ma tossiscono per il freddo. Non ho scelta”, spiega Khouloud Jarboue. “Sono sicura che questi vestiti siano pieni di germi, ma non ho acqua per fare la doccia ai miei figli o per fare il bucato. Dovranno indossarli direttamente”.

Un po’ più lontano, su un viale fiancheggiato da decine di bancarelle, centinaia di palestinesi maneggiano vestiti, misurano taglie, confrontano tessuti. Le temperature si stanno abbassando e gli acquazzoni cadono regolarmente.

Walid Sbeh non ha uno shekel in tasca. Questo contadino, che ha dovuto lasciare la sua terra, ogni mattina lascia la scuola dell’Unrwa dove è accampato con la moglie e i 13 figli. “Non sopporto di vedere i miei figli affamati e con indosso abiti estivi leggeri quando so che non posso comprargli nulla”, dice. “Non è una vita, (gli israeliani) ci costringono a lasciare le nostre case, ci uccidono a sangue freddo e se non moriamo sotto i bombardamenti, moriremo di fame, sete, malattie e freddo”, aggiunge AFP. Secondo il Ministero della Sanità di Hamas, i bombardamenti israeliani, compiuti in rappresaglia ai massacri del 7 ottobre, hanno provocato  ad ora 11.500 morti, la maggior parte civili.

Collezione invernale

Mentre si dirigeva a sud dopo il bombardamento della sua casa, Walid Sbeh aveva portato con sé delle coperte. “Ma sulla strada, i soldati israeliani ci hanno detto di mollare tutto e di andare avanti con le mani alzate”. Alcune  persone che avevano vestiti pesanti ormai troppo piccoli per i propri figli, glie li hanno regalati

Adel Harzallah gestisce un negozio di abbigliamento. “In due giorni abbiamo venduto tutti i pigiami invernali”, ha detto all’AFP, sostenendo di avere ripropostogli articoli invenduti dell’anno scorso. “La guerra è iniziata mentre aspettavamo la collezione invernale. Doveva arrivare attraverso i posti di frontiera”, ma tutti sono stati sigillati dopo il 7 ottobre. Ora queste spedizioni sono “in attesa” nei  container. Come i generi alimentari, l’acqua potabile e il carburante, di cui ogni grammo o goccia viene scambiato a caro prezzo.

Un cliente se ne va deluso. «Settanta shekel per una giacca? Ho cinque bambini da vestire, impossibile! “, lei dice. Stessa delusione per Abdelnasser Abou Dia, 27 anni, che “non ha nemmeno i soldi per comprare il pane, figuriamoci i vestiti…”. Per quasi un mese ha indossato quelli che portava con sé durante la fuga. Con il freddo crescente, “qualcuno ha regalato a me e ai miei figli una giacca da jogging ciascuno”. Da una settimana «li indossiamo sempre».

Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” -Invictapalestina.org

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Caitlin Johnstone – Quello che la Casa Bianca teme con la tregua a Gaza

…la Casa Bianca teme che una breve pausa nel massacro israeliano di civili a Gaza permetta ai giornalisti di riportare la verità sul massacro israeliano di civili a Gaza, perché danneggerebbe gli interessi informativi di Stati Uniti e Israele. Temono che il pubblico diventi più consapevole dei fatti e della verità.

Inutile dire che se si sta dalla parte giusta della storia non ci si preoccupa del fatto che i giornalisti riportino fatti veri su eventi attuali, danneggiando così il sostegno pubblico ai propri programmi.

Ma questo non è il lato da cui gli Stati Uniti e Israele si sono sempre schierati, ed è per questo che l’impero statunitense sta attualmente imprigionando Julian Assange per aver fatto del buon giornalismo sui crimini di guerra degli Stati Uniti e perché Israele ha una storia decennale di minacce e attacchi ai giornalisti.

Durante la campagna di bombardamenti israeliana a Gaza nel 2021, l’IDF avrebbe preso di mira più di 20 istituzioni giornalistiche palestinesi nell’enclave, oltre alla torre che ospitava i media  internazionali AP e Al Jazeera.

Durante l’attuale attacco Israele ha ucciso decine di giornalisti palestinesi, a volte bombardando attivamente le loro case dove vivono con le loro famiglie. La campagna dell’IDF per eliminare i giornalisti scomodi ha fatto sì che il Committee to Protect Journalists definisse questo conflitto il più letale mai registrato per i giornalisti, ovunque.

Sia gli Stati Uniti che Israele hanno attaccato la stampa in questo modo perché i loro governi sanno che chi controlla la narrazione controlla il mondo.

Hanno capito che il potere è controllare ciò che accade, ma il potere ultimo è controllare ciò che la gente pensa di ciò che accade. La coscienza umana è dominata dalle narrazioni mentali, quindi se si riesce a controllare le narrazioni dominanti della società, si può controllare l’uomo.

Questo è il motivo per cui i potenti sono stati in grado di rimanere al potere nella nostra civiltà: perché lo capiscono, mentre noi, il pubblico, generalmente non lo capiamo.

È per questo che ci bombardano con la propaganda dei mass media senza sosta, è per questo che lavorano per censurare Internet, è per questo che Assange langue in prigione, è per questo che Israele uccide abitualmente i giornalisti ed è per questo che la Casa Bianca ha paura di ciò che accadrà se i giornalisti di tutto il mondo riusciranno a portare le loro telecamere a Gaza.

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IL TERRORE DI ESSERE UNA DONNA INCINTA A GAZA

5.500 donne a Gaza partoriranno in una corsa contro la nascita.

 CESAREO SENZA ANESTESIA

A causa della carenza di forniture mediche, le donne palestinesi incinte sono costrette a guardare il loro ventre aperto e a sentire ogni momento dell’intervento. Sentono e vedono ogni oggetto tagliente che taglia i loro corpi. Molte di queste operazioni vengono eseguite alla luce dei cellulari, mentre gli ospedali tremano a causa dei pesanti bombardamenti israeliani.
*Molte delle donne che partoriscono senza anestesia soffrono già per amputazioni di parti del corpo a causa dei bombardamenti e per molte altre orribili ferite che sono insopportabili. I medici possono fornire loro solo spessi panni da mordere, questo è l’unico metodo disponibile per alleviare il dolore. È difficile comprendere la tortura che stanno subendo.
*Molte delle donne incinte salvate da sotto le macerie riportano ferite mortali alla placenta, che causano la morte immediata del bambino o della madre e, in molti casi, di entrambi.

 NASCITA PREMATURA

Il parto non rappresenta la fine dell’emergenza. Molti bambini di Gaza, al momento, nascono prima che siano completate le 37 settimane di gravidanza, il che li rende urgentemente e costantemente bisognosi di incubatrici. A causa del blackout elettrico negli ospedali, molti di questi bambini corrono un imminente pericolo di morte.

 IL DOPO

Le donne che riescono a raggiungere un centro sanitario vengono rimandate a casa “tre ore dopo il parto” per fare spazio ad altre donne o ai feriti. Senza cibo, acqua pulita, elettricità o carburante per mantenere in funzione incubatrici e unità di terapia intensiva, e con un sistema sanitario “malconcio e sull’orlo del collasso. E non sono solo le donne in procinto di partorire a essere a rischio, molte donne incinte hanno avuto aborti a causa della situazione che divora.

Testo di @adnan.barq
Dipinto di Malak Mattar

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Il ministro minaccia di chiedere Haaretz, sussulti di fascismo – Remocontro

Il ministro israeliano delle comunicazioni minaccia Haaretz e suggerisce di penalizzare la sua copertura sulla guerra a Gaza, sino ad una ipotetica chiusura. Il ministro del Likud Shlomo Karhi ha proposto sanzioni finanziarie contro Haaretz per quella che ha definito «propaganda bugiarda e disfattista». Israele democratica. giornalisti e giornali da tutto il mondo criticano l’ultimo attacco del governo Netanyahu alla libertà di stampa in Israele e chiedono al governo di liberarsi di una figura ministeriale ‘indegna’.

Quasi un bis dell’atomica su Gaza

Il ministro israeliano delle Comunicazioni Shlomo Karhi ha presentato una proposta per agire contro il noto e prestigioso quotidiano Haaretz, bloccando da subito gli avvisi del governo su Haaretz. Karhi, membro del partito Likud del primo ministro Benjamin Netanyahu, ha detto che «il giornale stava sabotando Israele in tempo di guerra ed era un portavoce incendiario dei nemici di Israele». La proposta, che è stata presentata senza essere esaminata dal consulente legale del ministero, bloccherebbe immediatamente qualsiasi pagamento ad Haaretz da parte di qualsiasi entità statale di sua competenza.

‘Se Bibi ci vuole chiedere, allora leggeteci!’

L’editore di Haaretz Amos Schocken ha risposto alla proposta di Karhi dicendo: «Se il governo vuole chiudere Haaretz, è il momento di leggere Haaretz». La proposta di Karhi, che vieterebbe la pubblicazione di avvisi ufficiali del governo su Haaretz e annullerebbe tutti gli abbonamenti ad Haaretz dei dipendenti statali – compresi quelli delle forze armate, della polizia, del servizio carcerario, dei ministeri e delle società governative.

Avanguardisti alla Salò

La lettera inviata al segretario del ‘gabinetto di governo’ Yossi Fuchs ha un titolo chiaro: «Agire contro il giornale Haaretz per la diffusione di propaganda menzognera e disfattista». Ma il giovane ministro, molto vicino al premier, insiste molto oltre le critica politica «una linea offensiva che mina  obiettivi della guerra e denigra lo sforzo militare e la sua forza sociale». E siamo all’accusa di ‘Alto tradimento’, poco prima di Hamas: «È possibile che alcune delle pubblicazioni del giornale oltrepassino addirittura gli standard penali stabiliti in quelle lontane sezioni del codice penale riservate al tempo di guerra».

Ricatto come stile di governo

Karhi, non contento, insiste: «Lo Stato di Israele è uno dei clienti di Haaretz, e il governo ha il potere di decidere che non è interessato ad essere cliente di un giornale che sta sabotando Israele in tempo di guerra e minando lo spirito dei soldati e dei civili israeliani. di fronte al nemico». Alla fine, sapendo della vita breve del governo e del duo incarico, ha ricordato che sta ancora aspettando che il consulente legale del suo ministero offra un parere sulla sua proposta, «e non so quale sarà».

Giornalisti e ‘ministro fuori di testa’

Il sindacato israeliano dei giornalisti, con più moderazione del nostro titoletto, denuncia che «il ministro delle Comunicazioni si è smarrito». Ed il personaggio era già tristemente noto, sulla scia del suo premier. «Karhi, che ha trascorso gran parte del suo breve mandato nel tentativo fallito di chiudere l’emittente pubblica, ha deciso di domare un nuovo obiettivo. La sua nuova proposta di porre fine a tutti gli affari del governo con Haaretz è una proposta populistica priva di qualsiasi fattibilità o logica, e il suo unico scopo è quello di raccogliere simpatie tra la sua base politica a spese dei giornalisti dedicati che stanno lavorando giorno e notte in questo momento per coprire la situazione di guerra».

«Noi sosteniamo i giornalisti di Haaretz e siamo certi che continueranno a svolgere un lavoro importante a beneficio di Israele e non si lasceranno scoraggiare dalle stupide e vuote minacce del ministro Karhi».

Leggi liberticide al pettine

Nella sua lettera, Karhi ha citato le norme di emergenza recentemente approvate che consentono al governo di agire contro i media stranieri che danneggiano il Paese.Il gabinetto di sicurezza ha recentemente autorizzato Karhi ad agire contro Al Mayadeen, stazione televisiva libanese affiliata a Hezbollah che trasmette anche da Israele. Karhi ha poi chiesto all’esercito un ordine di chiusura per i suoi uffici in Cisgiordania. Tuttavia, il governo ha rifiutato di approvare la sua richiesta di chiudere l’emittente qatariota Al Jazeera, in parte a causa del coinvolgimento del Qatar nei negoziati per il rilascio degli ostaggi detenuti da Hamas nella Striscia di Gaza.

Critiche e sdegno da tutto il mondo

Eminenti giornalisti di tutto il mondo hanno denunciato le minacce di Karhi. Jake Tapper della CNN ha twittato : «Una spinta per indebolire la libertà di stampa da parte del governo Netanyahu». Jeet Heer di The Nation ha scritto : «Haaretz è un grande giornale, necessario ora più che mai». Yashar Ali, che scrive per l’Huffington Post e il New York Magazine, ha scritto in risposta : «Mi sono appena iscritto». E anche Remocontro, da sempre lettore attento di Haaretz, da oggi si abbona.

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Pulizia etnica a Gaza. 3 video che i TG italiani non vi mostrano

Io non esito a dire che il progetto di uno Stato ebraico in Palestina adottato dal Congresso sionista mondiale è criminogeno e genocidario dall’inizio. Questo progetto è andato avanti e siamo ormai arrivati all’ultima tappa che prevede l’annessione del residuale 17% della Palestina storica con l’espulsione del maggior numero possibile di palestinesi. Quelli che rimarranno saranno costretti all’apartheid.” Con queste parole, a l’AntiDiplomatico, la scrittrice Vera Pegna illustrava magistralmente quale sia l’obiettivo finale del regime di Tel Aviv e la vera ratio dietro la mattanza di Gaza.

Nel secondo giorno di tregua, che ha permesso il rilascio di decine di donne e bambini palestinesi (con i tg italiani che continuano a considerarli fantasmi così come quando venivano barbaramente incarcerati), Quds Network ha reso pubblici sui suoi canali social tre video che vogliamo riportare senza nessun commento ulteriore, ma semplicemente come le prove provate delle parole di Vera Pegna.

La banalità del male…

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Ecco come finisce a Gaza: i palestinesi all’asta – Alberto Negri

Israele non viene fermato né dagli Usa né tanto meno dagli europei non solo incapaci, come del resto gli arabi, di imporre sanzioni contro lo stato ebraico ma che continuano a fornire armi a Tel Aviv. Gaza verrà svuotata e i palestinesi andranno in campi profughi nel Sinai: è iniziata l’asta con il Cairo per stabilire il prezzo. Come incoraggiamento oggi la von der Leyen porta ad Al Sisi 9 miliardi di euro.

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Israele-Gaza tra tregua e pulizia etnica – Alberto Negri

Netanyahu vuole prolungare il conflitto, accettando il negoziato sugli ostaggi Israele ha soltanto frenato la logica di guerra. L’obiettivo non è solo sradicare Hamas ma imporre la pulizia etnica: questo è il punto chiave su cui si deve discutere, il resto sono chiacchiere.

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Gaza, siamo complici dei massacri “a nostra insaputa” – Alberto Negri

Rimbecilliti dalla propaganda, europei e italiani continuano a vendere armi a Israele e a non mettere sanzioni sugli insediamenti dei coloni, la vera ragione che da anni rende impossibile la pace. Gli Usa prima stanziano 14 miliardi di dollari di armi a Israele e poi “lavorano” per la pace: ma chi ci crede più? Siamo complici dei massacri degli israeliani e di Hamas, come Netanyahu, il Qatar e le inguardabili monarchie del Golfo che ci ricoprono di soldi per stare zitti.

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La guerra contro gli ospedali – Alberto Capece

Non bastava la strage, abbiamo dovuto anche assistere ai goffi tentativi dell’esercito israeliano di far credere che l’assalto agli ospedali fosse  giustificato dalla presenza di presunti centri di comando di Hamas. Abbiamo assistito a una penosa messa in scena per far pensare che sotto l’ospedale di Al  Shifa semidistrutto e sgomberato ci fosse un arsenale ed è probabile che dopo la breve tregua raggiunta, ci sarà l’assalto all’ospedale indonesiano di Beit Lahia già circondato di mezzi corazzati che hanno sparato diversi colpi  facendo 12 vittime. Il modus operandi è sempre lo stesso: Israele lancia volantini sopra un ospedale dicendo alla gente di andarsene perché l’ospedale è una base per “attività terroristiche di Hamas”. Carri armati e proiettili di artiglieria strappano parti delle mura dell’ospedale. Le ambulanze vengono fatte saltare in aria dai missili israeliani. L’elettricità e l’acqua vengono interrotte. Le forniture mediche sono bloccate. Non ci sono antidolorifici, antibiotici e ossigeno. I bambini più vulnerabili, prematuri nelle incubatrici e quelli gravemente malati, muoiono. I soldati israeliani fanno irruzione nell’ospedale e costringono tutti a uscire sotto la minaccia delle armi.

Questo è quello che è successo all’ospedale Al Shifa,  all’ospedale pediatrico Al Rantisi, a quello  psichiatrico di Gaza all’ospedale Nasser ed  quello che è successo negli altri ospedali che Israele ha distrutto e quando accadrà nei pochi rimasti. Israele ha chiuso 21 dei 35 ospedali di Gaza, compreso l’unico ospedale oncologico. E non basta veicoli blindati hanno circondato almeno quattro ospedali della Cisgiordania . L’ospedale Ibn Sina è stato fatto irruzione dai soldati israeliani insieme all’ospedale di Gerusalemme Est .Questo forse risponde a una  pulsione sadica del sionismo che parla dei palestinesi come di una massa disumanizzata. Non ci sono madri, padri, figli, insegnanti, medici, avvocati, cuochi, poeti, tassisti o negozianti. I palestinesi, nel lessico israeliano, rappresentano un  contagio che deve essere debellato. Ma risponde a un disegno preciso: con il sostegno dell’amministrazione Biden, continuerà a spegnere tutti i sistemi che sostengono la vita a Gaza: ospedali, scuole,  centrali elettriche, impianti di trattamento dell’acqua, fabbriche, fattorie, case. Allora Israele farà finta, che tutto ciò non sia mai accaduto, ma in tal modo renderanno impossibile sopravvivere nella Striscia che è poi l’obiettivo finale  senza doversi battere con Hamas anche perché quando lo fanno le prendono, nonostante un’immensa superiorità.

E tuttavia le bugie usate da Israele per assolversi dalle proprie responsabilità divoreranno la società israeliana. Ne corroderanno la vita morale, religiosa, civica, intellettuale e politica. Le bugie eleveranno i criminali di guerra allo status eroico e demonizzeranno coloro che hanno una coscienza. Ma la stessa cosa accadrà ai complici che vedono, aiutano e tacciono, cioè a quell’occidente che si compiace delle regole, mentre egli stesso viola quelle fondamentali, per esempio armando Israele che viola ogni giorno, ogni momento,  la convenzione di Ginevra. Si tratta di società ormai marce che finiranno entro qualche anno per crollare sotto il peso della loro stessa insensatezza. E nel frattempo come assurde calamite attiriamo odio e rabbia: si siamo odiati perché non abbiamo valori, siamo odiati perché le regole valgono solo per gli altri e non per noi. Siamo odiati perché ci siamo arrogati il ​​diritto di compiere massacri indiscriminati. Siamo odiati perché siamo crudeli e indifferenti, siamo odiati perché siamo ipocriti, parliamo di protezione dei civili, dello stato di diritto e di umanitarismo mentre estinguiamo la vita di centinaia di persone a Gaza ogni giorno e stiamo sterminando gli ucraini per non ammettere la sconfitta. Che alla fine ci sarà comunque e sarà molto dolorosa.

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Cessate il fuoco subito, due stati poi: Xi e i Brics dicono ciò che il G7 non osa – Lorenzo Lamperti

Cessate il fuoco e rilascio degli ostaggi civili, aiuti umanitari e Palestina indipendente. Xi Jinping entra con decisione sul conflitto tra Israele e Hamas, dismettendo cautela e ambiguità di altre circostanze. E lo fa durante il summit virtuale dei Brics, la piattaforma multilaterale su cui più di tutte la Cina spinge per proporre la sua visione di mondo.
La ricetta al conflitto è la stessa proposta a più riprese dalla diplomazia cinese dopo gli attacchi del 7 ottobre, ma il discorso di Xi è ancora più chiaro e articolato. «La priorità assoluta è che tutte le parti cessino immediatamente il fuoco e i combattimenti, pongano fine a ogni violenza e attacco contro i civili». Il pensiero va subito a Gaza, dopo che il giorno prima la portavoce del ministero degli esteri Mao Ning si era detta scioccata «dagli attacchi contro i civili e i bambini» della Striscia.

Xi chiede anche di «rilasciare i civili in ostaggio», un’aggiunta rilevante che sembra tenere in considerazione le lamentele di Israele, che lunedì aveva polemizzato col governo cinese chiedendo una presa di posizione sugli ostaggi di Hamas piuttosto che sul cessate il fuoco. Xi chiede entrambe le cose, per poi esporre l’esigenza di «garantire il flusso sicuro e regolare dei canali di soccorso umanitario» e di «fermare i trasferimenti forzati, i tagli all’acqua e all’elettricità e altre punizioni collettive contro la popolazione di Gaza». Riecheggiano le parole del ministro degli esteri Wang Yi, che più volte ha accusato Israele di essere «andata oltre il diritto all’autodifesa». Non è tutto: «La comunità internazionale deve adottare misure concrete per evitare che il conflitto si espanda», dice Xi, a cui la scorsa settimana Joe Biden ha chiesto di esercitare la sua influenza sull’Iran proprio per scongiurare il rischio.

Poi arriva la parte più politica della posizione di Xi, secondo cui la «ragione fondamentale» dei problemi tra Palestina e Israele è che «i diritti del popolo palestinese alla statualità e alla sopravvivenza sono stati a lungo ignorati». Per poi ribadire la necessità di attuare la soluzione dei due stati per «ripristinare i diritti legittimi della nazione palestinese». Senza questo passo, dice Xi, «non ci sarà pace e stabilità duratura in Medio Oriente».

Il presidente cinese chiede infine la convocazione di una conferenza internazionale di pace, che si candida implicitamente a ospitare dopo che una delegazione di paesi a maggioranza musulmana ha cominciato un tour diplomatico proprio da Pechino, che a novembre detiene la presidenza di turno del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Per molti un messaggio implicito agli Stati uniti sull’accresciuto ascendente cinese nella regione.

I ministri di Arabia Saudita, Egitto, Giordania, Indonesia e Palestina (col segretario generale dell’Organizzazione della cooperazione islamica) hanno incontrato Wang, il quale ha definito la Cina «un buon amico e un fratelli dei paesi arabi e islamici». Dopo aver officiato il riavvio delle relazioni tra Arabia saudita e Iran lo scorso marzo, la Cina dice di sostenere l’unità e il coordinamento dei paesi musulmani sulla questione palestinese.

A differenza di quanto accaduto sulla guerra in Ucraina, Pechino non ha utilizzato gli appuntamenti multilaterali per rivolgere critiche esplicite a Washington, ma Xi ha comunque sottolineato il ruolo della piattaforma Brics. «Abbiamo coordinato le nostre posizioni sulla questione israelo-palestinese, dando un buon inizio alla grande cooperazione dopo l’espansione», ha detto, alludendo all’imminente ingresso di sei nuovi membri (anche se la vittoria di Javier Milei mette in bilico l’Argentina) e alla possibilità di istituire un’agenda comune più precisa.

Oggi, invece, Xi non sarà al G20 virtuale organizzato dall’India dove è stato invitato anche Vladimir Putin. Al suo posto il premier Li Qiang, come al summit di Nuova Delhi di settembre.

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Gaza ecco chi fornisce armi per la strage – Alberto Capece

Giunta al suo secondo mese, la guerra di Israele contro Gaza ha lasciato la parte settentrionale della Striscia nel caos e ha ucciso oltre  14.000 palestinesi , la maggior parte dei quali donne e bambini. E mentre Israele lancia gli attacchi indiscriminati sulla popolazione civili contro Gaza, i Paesi occidentali sono coinvolti dietro le quinte in questi feroci assalti esportando armi e in qualche caso uomini verso Israele. Si comincia dall’Australia un Paese che sta in mezzo a due oceani  ma che da un secolo con smette di rompere le palle nel Mediterraneo anche se le ha prese di santa ragione in ossequio ai suoi padroni britannici prima e americani poi. Le esportazioni di armi dell’Australia  sono avvolte nel segreto e sono state sottoposte a ulteriore esame dopo che un’udienza del Senato in ottobre ha rilevato che 52 permessi di difesa sono stati concessi al governo israeliano. In ogni caso c’è già uno  spiegamento di aerei australiani ufficialmente per supportare  l’assistenza e il supporto ai cittadini australiani che abitano nella regione. Ma siamo solo alla periferia del sostengo al sionismo.

Bloomberg  ha reso noto un documento del Dipartimento della Difesa americano intitolato Richieste “Israel Senior Leader”, risalente alla fine di ottobre, che elenca le armi che Israele sta cercando per la guerra in corso contro Gaza. Secondo Bloomberg l’arsenale di armi è già in fase di spedizione e esse sono elencate qui di  seguito

  • 000 missili Hellfire per elicotteri d’attacco Apache prodotti dalla società statunitense Lockheed Martin
  • Munizioni per mitragliatrici a catena da 30 mm per elicotteri d’attacco Apache prodotte dalla società statunitense General Dynamics
  • 000 proiettili da 155 mm per cannoni d’artiglieria
  • 400 mortai da 120 mm
  • Monocoli per la visione notturna PVS-14 del produttore statunitense Night Vision Devices
  • Spacca-bunker M141 a spalla
  • 75 veicoli tattici leggeri congiunti, prodotti dalla società statunitense Oshkosh Defense
  • Più di 300 intercettori Tamir per il sistema israeliano Iron Dome e realizzati dal produttore di armi statunitense Raytheon

Come documentato dalle foto che armi di fabbricazione statunitense contenenti  fosforo bianco  vengono utilizzate nell’assalto israeliano a Gaza: questi proiettili di artiglieria sono stati realizzati da  Pine Bluff Arsenal , una struttura militare con sede in Arkansas. Del resto gli  Stati Uniti hanno già inviato  diverse spedizioni di armi  dall’inizio della guerra in ottobre, come  mostrato  sulle  piattaforme di social media del Ministero della Difesa israeliano .

Inoltre velivoli dell’ aeronautica ceca  sono atterrati  alla  base aerea israeliana di Hatzerim  il 22 ottobre. Altri aerei militari provenienti da Stati Uniti e Italia sono giunti i alla  base aerea israeliana di Netavim  il mese scorso. E un aereo dell’aeronautica americana è arrivato alla  base aerea israeliana di Tel Nof  il 16 novembre. Diversi aerei dell’aeronautica britannica hanno viaggiato a Tel Aviv dalla  base militare britannica di Akrotiri  a Cipro nell’ultima settimana. Recentemente è arrivato alla base aerea anche un aereo appartenente al produttore di armi BAE Systems.

Anche se non è chiaro il tipo esatto e la quantità di attrezzature che i governi occidentali stanno inviando a Israele in questo periodo, è chiaro che non può essere negata l’ complicità nella strage di Gaza visto che vengono forniti i mezzi per realizzarla. Oltre a ciò praticamente tutti gli arsenali di Israele sono di origine occidentale;

Il lanciarazzi MLRS M270 di Lockheed Martin, utilizzato all’interno di Gaza per la prima volta dal 2006, è stato  costruito in Europa  da un consorzio internazionale di aziende provenienti da Francia, Germania, Italia e Regno Unito.  Lo Stockholm International Peace Research Institute ha fornito a EuroNews dati sulle vendite di armi dall’Europa a Israele tra il 2013 e il 2022  , dimostrando che Italia e Germania hanno fornito all’esercito israeliano armi ora utilizzate sul terreno a Gaza. Ha anche affermato che la Germania ha inviato più di 1.000 motori per carri armati in Israele. Al 2 novembre,  il governo tedesco  ha esportato armi in Israele per 323 milioni di dollari, quasi 10 volte di più di quanto ha inviato a Israele l’anno scorso.

E non basta: i resoconti dei media hanno suggerito che soldati stranieri stiano  aiutando nelle operazioni di guerra l’esercito israeliano che con 550 mila effettivi cerca aiuto per snidare più o meno 5000 uomini di Hamas. Il quotidiano spagnolo El Mundo ha rivelato che un mercenario spagnolo sta aiutando le forze israeliane a Gaza. Pedro Diaz Flores è stato fotografato lì con le forze di occupazione israeliane. In precedenza aveva combattuto in Ucraina, nella Brigata neonazista Azov. “Pagano molto bene, offrono una buona attrezzatura e il lavoro è tranquillo. Sono 3.900 euro a settimana, missioni complementari a parte”, ha detto Flores.

Nel mese di ottobre, il quotidiano britannico  Socialist Worker  – insieme ad altre pubblicazioni – ha ricevuto un “avviso dal Comitato consultivo per i media per la difesa e la sicurezza” di non pubblicare informazioni relative alle forze speciali britanniche che operano in Medio Oriente perché In alcune pubblicazioni hanno iniziato ad apparire rapporti che affermavano che le forze speciali del Regno Unito si sono schierate in aree sensibili del Medio Oriente e quindi collegavano tale dispiegamento alle operazioni di salvataggio/evacuazione di ostaggi. Questo per non parlare di americani che sono stati avvistati in numerosissimi casi: pare che la Delta Force sia nel pieno delle operazioni in appoggio agli israeliani , anche se con scarso successo. Questo infatti non è un film.

Così, mentre le popolazioni occidentali continuano a inondare le strade in favore della Palestina, i loro governi sostengono attivamente  l’aggressore e sono pienamente corresponsabili di un tentativo di genocidio in atto.

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Una peste chiamata Israele – Patrizia Cecconi

Tra le foto e i video strazianti inviati in diretta social – non trasmessi dai media televisivi perché mostrerebbero inequivocabilmente la mostruosa faccia sanguinaria di Israele – tra quelle immagini, in cui si vedono i corpi lacerati di adulti e di bambini estratti dalle macerie, o le penose lunghe file di sudari bianchi poggiati a terra negli spazi liberati dalle travi che li hanno uccisi, una m’ha toccato particolarmente, pur non essendo peggiore delle altre, né accompagnata dal pianto disperato di un bimbo terrorizzato e ferito o da corpi smembrati: la foto di un ragazzo che come tanti altri sopravvissuti aiutava, portando in braccio un corpicino coperto da un telo bianco.

Nei suoi occhi, nell’espressione del suo viso, e soprattutto nel modo in cui portava quel corpo c’era più che disperazione, direi più che sofferenza. Qualcosa che a me è sembrata un’offerta dolorosa e insieme un’angosciante attesa. Forse la stessa attesa che ho letto in tanti messaggi arrivati da Gaza in risposta alla mia richiesta di notizie: “sono ancora vivo ma so che domani forse raggiungerò i miei fratelli” oppure “per ora sono viva ma credo che raggiungerò presto mio padre e la mia bambina”, o ancora “il mio amico migliore non c’è più, io aspetto il mio turno”….

Tutti civili inermi, colpiti da inaccettabile ferocia mascherata da “diritto alla difesa” di uno Stato canaglia che porta avanti da decenni il suo progetto di annessione totale della Palestina, utilizzando questa volta l’azione cruenta della resistenza palestinese del 7 ottobre come ottima scusa per completare il suo disegno. Disegno sostenuto dai suoi fedeli alleati, tra i quali vanno annoverati anche i nostri mass media che brillano per servile abilità nel veicolare la menzogna di un’Israele sempre vittima, appoggiandosi alla disgustosa strumentalizzazione della reale tragedia della Shoah…

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7 ottobre, Haaretz: elicottero militare israeliano “ha colpito alcuni dei convenuti al rave” – Davide Malacaria

“L’indagine della polizia ha scoperto che […] un elicottero militare che ha sparato contro i terroristi a quanto pare ha colpito anche alcuni dei convenuti” al rave. Questa rivelazione di Haaretz, basata su un’indiscrezione anonima proveniente dalla polizia, ha fatto il giro del mondo.

Le domande sul 7 ottobre: elicottero e missili Hellfire

L’indiscrezione conferma in parte quanto rivelato da Max Blumenthal su Grayzone, in un articolo nel quale riferiva altri episodi simili accaduti il 7 ottobre.

Tovel Escapa, della squadra di sicurezza del kibbutz Be’eri, ha raccontato ad Haaretz che le forze israeliane non sapevano come contrastare il nemico, così “i comandanti sul campo hanno preso decisioni difficili – compresa quella di bombardare le case con tutti i loro occupanti per eliminare i terroristi insieme agli ostaggi”.

Qualcosa di simile si è verificato al valico di Erez, via di accesso dalla Striscia verso Israele, dove Hamas aveva attaccato i presidi militari e l’amministrazione civile preposta al controllo di Gaza.

Sotto l’incalzare dell’attacco, annotava Haaretz: “il generale Rosenfeld si trincerò nella sala di guerra sotterranea della divisione insieme a un pugno di soldati e donne, cercando disperatamente di salvare e organizzare il settore sotto attacco. Molti soldati, la maggior parte dei quali non combattenti, sono stati uccisi o feriti all’esterno. La divisione è stata costretta a richiedere un attacco aereo contro la loro stessa base per respingere i terroristi”.

Sempre su quanto avvenuto al kibbutz Be’eri, la testimonianza, sempre ad Haaretz, del sergente maggiore Erez, intervenuto con la sua unità di carri armati: “All’interno del kibbutz si combatteva casa per casa con i carri armati, non c’era scelta”.

Altro particolare: alcuni dei corpi carbonizzati rinvenuti su alcuni veicoli, che Israele ha annoverato tra le fila dei suoi concittadini vittime di Hamas, secondo Grayzone sarebbero uomini di Hamas colpiti dai missili Helfire, dal momento che la combustione riscontrata è davvero eccessiva perché sia stata causata da un rogo. E i missili Helfire sono in dotazione all’esercito israeliano.

Si noti che Israele ha detto pubblicamente di aver fatto tale errore di calcolo, cumulando cioè alle vittime israeliane quelle di alcuni miliziani di Hamas. Ma l’ipotesi avanzata da Grayzone è più incisiva e non priva di suggestioni: quelle automobili carbonizzate potevano ospitare anche degli ostaggi…

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El exrepresentante de España en Palestina, García-Valdecasas: “Los espías del servicio secreto israelí debían conocer los preparativos” – Alberto Galone

Tras los ataques que las fuerzas de Hamás y la Yihad Islámica Palestina lanzaron contra Israel el pasado sábado, 7 de octubre, desde la Franja de Gaza, la situación se ha recrudecido en la zona. Elcierredigital.com ha conversado con el que fue cónsul general y embajador oficioso ante la Autoridad Nacional Palestina (ANP) entre los años 2019 y 2021, Ignacio García-Valdecasas Fernández, sobre la situación y los antecedentes del conflicto palestino-israelí.

El diplomático español Ignacio García-Valdecasas Fernández, que ocupó el puesto de cónsul general de España en Jerusalén –cargo del que fue cesado por la ministra de Asuntos Exteriores, Arancha González Laya, por motivos que  no han trascendido y en plena escalada de violencia en la ciudad– y fue representante de España en Palestina entre los años 2019 y 2021, ha charlado con elcierredigital.com sobre la perspectiva histórica, religiosa y social del conflicto palestino-israelí, sus hipótesis sobre el presente y el futuro de la contienda y su experiencia personal en Palestina e Israel, así como en la Franja de Gaza.

Lo primero que García-Valdecasas destaca en la charla con elcierredigital.com  ha sido su sorpresa ante los ataques de grupos como Hamás en suelo israelí: “Si me hubieran dicho que esto iba a ocurrir yo hubiera dicho que era imposible, absolutamente imposible. Si me hubieran propuesto apuestas las hubiera aceptado todas y, efectivamente, las habría perdido”, expresó el embajador.

“Yo he estado en Gaza, varias veces. He cruzado de Israel a Gaza y puedo decir que es una frontera o un punto de control muy estricto. Tardas horas en pasar el punto israelí para luego pasar el control palestino y finalmente el de Hamás”, relata el exrepresentante de España, que también ha sido testigo de los operativos de seguridad israelíes sobre la Franja de Gaza. “Son 60 km de muro de alambre en una llanura muy fácil de vigilar, continuamente patrullada por el ejército israelí. Además, cuenta con torres de vigilancia y con medios electrónicos. Ya incluso en aquel momento (2019) se podía apreciar el uso de drones, aunque su uso no se había extendido tanto como ahora”, relata García-Valdecasas a este medio.

El que fuera cónsul general de España en Jerusalén y representante de España en Palestina ha explicado que las fuerzas israelíes ejercen un control casi total sobre las actividades y la población palestina en Gaza, tanto en tierra como en agua y aire: “Los pescadores palestinos no pueden pescar más allá de las tres millas o de las 15 millas, según los momentos y los días”.

Ante la estricta seguridad israelí y la capacidad internacional de sus servicios de inteligencia, para el diplomático resulta “incomprensible que ese día no hubiera patrullas del ejército israelí en los alrededores de la Franja de Gaza. Me cuesta mucho trabajo creer que los operativos de los servicios especiales de Israel no tuvieran conocimiento de todo lo que se estaba preparando”, afirma García-Valdecasas…

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Il genocidio termine tabù: chi ama Israele non taccia – Tomaso Montanari

La caccia alle streghe permanente che opprime il discorso pubblico italiano rende pressoché impossibile articolare ragionamenti aperti e problematici intorno a questioni cruciali. Si può usare (a ragione) la parola “genocidio” per descrivere le intenzioni del pogrom di Hamas, ma farlo per lo sterminio in corso a Gaza suscita (a torto) violente censure, e provoca la strumentale accusa di antisemitismo. Una reazione comprensibile in Israele, non qua. Qua è solo uno dei sintomi della nostra incapacità di usare la distanza dalla guerra per elaborare pensieri e parole utili a combatterla, la guerra. Una simile elaborazione spingerebbe l’opinione pubblica a fare pressioni sui governi occidentali, determinati a correre il rischio di un conflitto atomico perseguendo una “vittoria” sulla Russia di Putin, ma decisi a sopportare in silenzio il massacro del popolo palestinese e il rischio concreto dell’esplosione di un conflitto regionale dagli esiti difficilmente controllabili. La sola ipotesi che ciò che Israele sta compiendo a Gaza possa essere un genocidio fa capire che la reazione occidentale è del tutto inadeguata: ed è esattamente per questo che la parola è diventata tabù.

Provare processualmente il genocidio passa per la difficoltà di documentare oltre ogni ragionevole dubbio l’intenzione di un governo. Secondo la definizione originaria del termine (messa a punto nel 1948 dall’ebreo Rafael Lemkin a proposito dello sterminio degli armeni e della Shoah) si tratta dell’intenzione di annichilire un gruppo (etnico, nazionale, religioso…) attraverso una distruzione materiale e culturale. Giovedì scorso l’ambasciatore palestinese all’Onu Ibrahim Khraishi ha formalmente detto che è ciò che sta accadendo a Gaza. Alcuni giorni prima, Craig Mokhiber, responsabile dell’ufficio di New York dell’Alto commissariato per i diritti umani delle Nazioni Unite si era dimesso protestando contro le mancate reazioni verso quello che ha definito “un caso da manuale di genocidio”. Davvero il governo di Netanyahu vuole cancellare i palestinesi? Alcuni indizi non portano a una risposta rassicurante: il 14 ottobre il presidente di Israele, Isaac Herzog, ha detto che “è un’intera nazione là fuori che è responsabile. Questa retorica sui civili non consapevoli, non coinvolti, non è assolutamente vera”.

Poco prima, il ministro della Difesa Yoav Gallant aveva giustificato la decisione di tagliare acqua, cibo, elettricità e benzina affermando che “stiamo combattendo con animali umani, e agiamo di conseguenza”. Dichiarazioni come queste, rese in pubblico dai vertici dello Stato di Israele, potrebbero configurare un’intenzione di genocidio. Come spiega Rosario Aitala, giudice della Corte penale internazionale, la riduzione retorica del nemico a “non umano” è la premessa classica dei genocidi: “La mala pianta del genocidio germoglia dal seme immondo del razzismo. ‘Non tutto ciò che ha sembianze umane è umano’: è lo slogan che ricorre nel discorso nazista per escludere dall’umanità non solo chi non appartiene alla razza ‘buona’ ma anche chi dentro quest’ultima è difettoso come un prodotto mal riuscito, dunque ‘indegno di vivere’”. Le ultime immagini da Gaza, quelle della distruzione del Parlamento e dell’abbattimento di un monumento ad Arafat sembrano dimostrare un odio non contro Hamas, ma contro i palestinesi come tali: singoli fatti che trovano una chiave interpretativa nel progressivo abbandono, da parte di Israele, di una identità multietnica e pluriconfessionale a favore di una configurazione da stato etnico-religioso con minoranze private di diritti e tutele. L’ex ambasciatore francese in Israele e Stati Uniti Gerard Araud ha detto che a Gaza è in corso “una pulizia etnica”, e alcune voci autorevoli del mondo culturale ebraico hanno il coraggio di pronunciare la parola indicibile.

La filosofa ebrea americana Judith Butler ha, per esempio, dichiarato: “In questo momento, la nostra attenzione deve rivolgersi alle orribili sofferenze del popolo palestinese, perché sicuramente sta avendo luogo un genocidio … Come intellettuali, abbiamo l’obbligo di fare chiare distinzioni, di comprendere la storia della sofferenza e della resistenza palestinese sotto la repressione coloniale: esproprio forzato, furto di terre, detenzione arbitraria e tortura nelle carceri, bombardamenti, molestie e omicidi”.

È naturalmente legittimo avversare con veemenza simili posizioni, non lo è accusare di antisemitismo chi le sostiene. È ormai a tutti evidente che sarà la giustizia penale internazionale ad avere l’ultima parola (e se anche questa volta il potere imperiale americano dovesse impedirlo, i sarebbero conseguenze devastanti): nel frattempo si deve poter dire che ciò che sta facendo Israele potrebbe essere giudicato genocidio. Dovrebbe bastare anche solo la possibilità che ciò avvenga a spingere tutti coloro che amano Israele a fermare la folle azione di un governo che, accecato come Sansone, sembra deciso a distruggere un altro popolo, e a devastare la reputazione del proprio.

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La guerra d’Israele mina l’Occidente – Giuseppe Imperatore

…Nonostante l’attività in apologia della guerra portata avanti dagli organi di stampa, che sono arrivati perfino a negare la gravità della situazione dei civili a Gaza davanti ad immagini atroci che tutti abbiamo avuto, nostro malgrado, la possibilità di vedere, nonostante la particolare posizione assunta da partiti politici che mai hanno preso realmente le distanze dagli orrori perpetrati dai nazifascisti e che oggi divengono paladini della questione sionista in nome di un’islamofobia non tanto differente dall’antisemitismo di un secolo fa, le voci di dissenso sono state molto più numerose che in altre occasioni, non solo singoli individui o pochi intellettuali, ma manifestazioni di massa, a cui si sono addizionate le aspre critiche mosse dalla stampa israeliana stessa e dal popolo ebraico sparso sul pianeta, le chiare posizioni espresse dai capi di Stato di molti Paesi, si pensi a titolo esemplificativo alla Repubblica d’Irlanda e al Brasile, le denunce di reiterate violazioni dei diritti umani da parte di agenzie e organizzazioni internazionali e, da ultimo, le dichiarazioni condivisibili del Segretario Generale delle Nazioni Unite Guterres.

Tuttavia la soluzione non è a portata di mano e troppo tardiva ed evanescente appare il propagandistico motto, mai avallato prima, di “due popoli, due nazioni”, soprattutto perchè, se non si interviene in fretta, uno dei due popoli scomparirà dalla terra. E parimenti improbabile apparirebbe una conviviale convivenza tra arabi e israeliani, a meno che la nuova situazione di fatto non si fondi su un reciproco timore di non rimanere impuniti davanti alla comunità internazionale non più silente, e non solo a chiacchiere, in cui chi sgarra rischia di rimanere definitivamente fuori dal circuito internazionale.

In realtà, poi, la Palestina non ha mai fatto parte di questo circuito, dunque perché oggi considerarlo Stato sovrano davanti alle sue responsabilità e alla debolezza del governo di Abu Mazen, quando gli è stato sempre negato questo status?

E poi sarebbe opportuno che entrambe le parti rimanessero consapevoli che l’eventuale sostegno dell’oggi non vale necessariamente per il domani, questo la storia ci insegna, e i cambiamenti possono essere molto repentini.

Anche se Israele non è l’Ucraina, il tempo dell’incondizionato appoggio potrebbe finire, allo stesso modo anche dalla parte palestinese, i Paesi arabi, così diversi ed in costante conflitto tra di loro, potrebbero optare per soluzioni opportunistiche che nuocerebbero alla causa di quel martoriato popolo.

Infine si rammenti che il diritto internazionale sa come mostrare il suo volto mostruoso, conosce la guerra non solo come extrema ratio, ma anche come prima ratio, fa della guerra il massimo strumento di manifestazione dell’esistenza sovrana, legittima la vendetta come difesa, avalla atrocità sul piano normativo, però è anche dialogo, cooperazione, relazione multilaterale, diplomazia e oggi non si può che passare da questa seconda via o almeno tentare di percorrerla, onde evitare una reazione a catena che provochi il momentaneo, o forse definitivo, tramonto di quell’assetto mondiale che abbiamo conosciuto dopo i conflitti bellici, caldi o freddi che siano, del secolo breve.

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Gli ostaggi e l’occidente razzista – Alessandro Orsini (post Facebook 21 nov 23)

E gli ostaggi? Vi spiego una cosa che i media italiani, essendo completamente corrotti, non spiegano.

Siccome l’Occidente è una civiltà violentemente razzista, convinta che esistano razze superiori e razze inferiori, la Casa bianca e l’Unione europea si battono per una tregua che duri il tempo necessario a liberare gli ostaggi occidentali, la razza superiore, però si oppongono alla tregua per salvare i palestinesi, che la Casa bianca e l’Unione europea considerano una razza inferiore e, quindi, meritevole di essere sterminata. Non a caso, Biden, mosso dal razzismo disumano tipicamente occidentale, ha posto il veto alla tregua per salvare i palestinesi nel consiglio di sicurezza però vuole la tregua di cinque giorni per salvare gli ostaggi occidentali per poi ripartire con il massacro dei palestinesi.

Questo accade perché la Casa Bianca e l’Unione europea sono due organizzazioni ferocemente razziste come tutto l’Occidente. Non sentirete queste cose sui media italiani perché sono pieni di razzisti e di corrotti che lavorano per creare consensi intorno alle politiche del criminale di guerra Netanyahu attraverso l’uso strategico di diplomatici israeliani piangi-piangi in prima serata.

Nel frattempo, i bambini masscrati dall’alleanza Unione europea, Casa Bianca e Israele sono circa 5000.

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Col fiato sospeso e senza parole – Gianfranco Pagliarulo

Calvino ha scritto: “l’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui”. Si chiama Gaza, credo. È il luogo del dolore

Col fiato sospeso e senza parole. Pensiamo: oggi è il massacro. Forse domani sarà peggio. Perché nessuno sa se questa guerra (ma è una guerra o una ininterrotta macelleria?) si espanderà. L’Iran ha minacciato: è stata superata la linea rossa. C’è una soglia oltre cui interverrà militarmente? E come si comporteranno nel lungo conflitto – perché Netanyahu ha detto che sarà lungo – Hezbollah e la Siria? E le petromonarchie del Golfo? E l’Egitto, la Tunisia, la Libia (quello che ne rimane), l’Algeria, il Marocco, cioè tutto il nord Africa? E in particolare la Turchia? Per non parlare, ovviamente, degli Stati Uniti.

Proviamo a raccogliere le idee, per quanto sia difficile mentre si stanno massacrando migliaia di persone, colpevoli di essere palestinesi. È una retrodatazione dell’idea stessa di giustizia, un colpo al cuore alla civiltà umana, perché è il ritorno rabbiosamente dichiarato alla pratica arcaica della vendetta, con qualche ispirazione religiosa. Analoga ispirazione, per altro, dell’eccidio di più di mille ragazzi, in quanto ebrei, da parte di Hamas. Scompare la responsabilità personale e trionfa un concetto ancestrale, la colpa di essere popolo.

E così, mentre si combatte casa per casa, sotterraneo per sotterraneo, il Segretario generale delle Nazioni Unite viene platealmente sfiduciato dalle autorità israeliane in ragione di una sua dichiarazione equilibrata, in cui alla condanna inappellabile del terrore di Hamas ha fatto seguito la denuncia delle responsabilità israeliane; né più né meno della fotografia delle decine di risoluzioni ONU mai rispettate dal Paese della stella di Davide. Doppio risultato: da un lato Israele ha negato alle Nazioni Unite il ruolo di autorità mondiale che presiede alla composizione pacifica delle controversie internazionali; dall’altro Israele si è trovata isolata all’atto delle presentazioni della conseguente Risoluzione. E l’Unione Europea? Francia, Spagna, Irlanda, Lussemburgo, Malta, Portogallo hanno votato a favore. Austria, Ungheria, Repubblica Ceca, Croazia hanno votato contro. Germania, Olanda, Svezia, Polonia, Bulgaria, Romania, Slovacchia e – ahimè! – Italia si sono astenute. In altre parole: l’Unione Europea si è dissolta. In sintesi: 120 Paesi a favore su 193, con 45 astenuti e 14 contrari.

Ma il fuoco dei massacri non divora solo le vite. Divora anche le coscienze. C’è il rischio di un’ondata di antisemitismo. Non nascondiamocelo dietro il paravento del sacrosanto diritto dei palestinesi ad avere uno Stato. E non confondiamo la giusta, doverosissima critica alla politica israeliana con l’antisemitismo, come spesso si fa per buttare tutto in caciara. I pogrom sono nati nell’800. Contro gli ebrei a Odessa nel 1821, ancora in Ucraina e nelle terre viciniori nel 1881, e ancora quarant’anni dopo in Bielorussia e in Galizia (oggi Ucraina). Per non parlare dei mostruosi eccidi negli anni 40 da parte dei nazisti e dei collaborazionisti, in particolare ucraini, nei confronti degli ebrei. Insomma, è una roba europea. Dell’est e dell’ovest.

E c’è il rischio dell’islamofobia, ove si confonde l’Islam con Hamas, e il tutto con i palestinesi e magari con gli arabi. E si vaneggia su di un’Europa fortezza, da difendere contro i nuovi barbari. Non è stato forse Josep Borrell, capo della diplomazia europea, a definire il vecchio continente come “un giardino” abitato da “persone privilegiate”, ma circondato dalla “giungla”? Dalla tragedia alla farsa: Salvini promuove per il 4 novembre a Milano una manifestazione nazionale “a difesa dell’Occidente”.

Intanto, mentre continua il massacro a Gaza, dal 7 ottobre secondo l’organizzazione israeliana per i diritti Yesh Din sono avvenuti centinaia di episodi di violenza da parte dei coloni contro i palestinesi in almeno 62 comunità palestinesi in Cisgiordania…

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Anwar El Ghazi, in piedi tra le macerie – Andrea Antonioli

Difendere le proprie idee, a costo di tutto.

E così infine il Mainz ha risolto il contratto di Anwar El Ghazi, già sospeso per due settimane a causa di un post pro-palestina il 17 ottobre e poi reintegrato, ma solo formalmente, fino all’epilogo delle ultime ore: «L’FSV Mainz 05 pone fine al rapporto contrattuale con Anwar El Ghazi e venerdì (3 novembre, ndr) ha licenziato il giocatore con effetto immediato. Il club sta adottando questa misura in risposta alle dichiarazioni e ai post del giocatore sui social media». Questa la nota ufficiale del club. Ma cosa aveva detto El Ghazi, e perché dopo la sospesione è stato poi licenziato?

Tutto è iniziato il 17 ottobre, quando il giocatore olandese ha condiviso il seguente post: «Questa non è guerra. Quando una delle due parti taglia acqua, cibo ed elettricità all’altra non è guerra. Quando una delle due parti ha armi nucleari non è guerra. Quando una delle due parti è finanziata con miliardi di dollari non è guerra. Quando una delle due parti utilizza immagini generate dall’Intelligenza Artificiale per diffondere disinformazione sull’altra non è guerra. Quando i social censurano i contenuti di una parte e non dell’altra non è guerra»…

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Caitlin Johnstone – Il problema di Israele non è TikTok

Nessuno inizia come il tipo di persona che sosterrebbe una campagna di bombardamento genocida che uccide bambini a migliaia. È qualcosa a cui si arriva gradualmente nel corso degli anni, un compromesso morale alla volta.

Più e più volte nel corso della vita, a un sostenitore di Israele viene data la possibilità di scegliere se uccidere una parte della propria coscienza o abbandonare il proprio sostegno a Israele.

Questa scelta gli viene presentata ogni volta che vede i palestinesi trattati in un modo che non vorrebbe mai fosse riservato a se stessi o ai propri cari – che si tratti di bombe, di manifestanti colpiti da cecchini, di persone cacciate dalle loro case, di organizzazioni per i diritti umani che dichiarano una dopo l’altra che Israele è uno Stato di apartheid, di racconti del razzismo e degli abusi subiti dai palestinesi in Cisgiordania, o di testimonianze su quanto sia stata orribile la vita a Gaza per le persone che vi abitano, molto prima che iniziasse quest’ultima serie di uccisioni.

Queste informazioni sono inevitabili nei tempi moderni. Si può distogliere lo sguardo, si può cercare di isolarsi da essa in una camera d’eco ideologica, ma inevitabilmente, di tanto in tanto, essa entrerà nel nostro campo di percezione.

E ogni volta che ci si trova di fronte ad esso, si deve scegliere se compromettere il proprio senso morale personale un po’ più di quanto non fosse già compromesso, o abbandonare il proprio sostegno a Israele.

Si tagliano pezzi della propria moralità uno alla volta, soprattutto per evitare il disagio psicologico noto come dissonanza cognitiva che si accompagna necessariamente a qualsiasi drastico cambiamento di visione del mondo. Poi, prima che ve ne rendiate conto, vi trovate a opporvi a un cessate il fuoco per un attacco omicida che ha ucciso migliaia di bambini.

Nel profondo sapete di essere sulla strada sbagliata. Sapete che non è così che avete iniziato, che non è così che dovreste vivere la vostra vita. Ma annegate quella piccola voce dentro di voi con le voci molto più forti della vita in una moderna società industrializzata, molte delle quali sono pagate milioni di dollari all’anno per dirvi che la vostra visione del mondo è quella corretta.

Questo è il motivo per cui c’è un divario generazionale così grande sulla questione israelo-palestinese; i giovani non hanno trascorso molto tempo a erodere gradualmente la loro bussola morale in un gingillo senza valore, e non consumano abbastanza mass media da essere convinti che farlo sarebbe utile.

Non sono stati sufficientemente indottrinati alla depravata indifferenza verso la sofferenza altrui.

In una recente dichiarazione, che respinge le affermazioni della destra secondo cui i suoi algoritmi sono impastati per favorire la Palestina e promuovere il sentimento anti-israeliano, TikTok afferma che il vero motivo per cui i sentimenti pro-Palestina sono così popolari sulla piattaforma è che i giovani sono statisticamente molto più contrari a Israele rispetto alle vecchie generazioni…

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Doppia faccia turca: critica Israele ma il business non si tocca –  MURAT CINAR

In Turchia, mentre il governo centrale intraprende la sua battaglia contro il governo israeliano, sia all’interno che all’esterno, e si schiera con Hamas, il grande capitale turco continua a fare affari con Israele, nel totale silenzio politico.
Dall’inizio dell’attacco ancora in corso a Gaza, la posizione di Ankara è diventata sempre più severa nei confronti del governo israeliano. Netanyahu è stato definito un «criminale di guerra» dal presidente turco Erdogan, che ha affermato che Hamas è un’organizzazione di «patrioti e mujaheddin che difende il proprio territorio e il proprio popolo». Mentre alleati e membri della coalizione di governo in Turchia organizzavano manifestazioni molto aggressive contro Israele, le formazioni giovanili del partito al governo, l’Akp, e i suoi parlamentari hanno lanciato una serie di campagne di boicottaggio commerciale. Addirittura, il parlamento aveva deciso di non usare più i prodotti di Nestlé e Coca-Cola nelle sue mense. Tuttavia, sia per il grande capitale legato al fondamentalismo che per quello con collegamenti diretti o indiretti con il governo, sembra che il commercio continui a esistere quasi esattamente come prima.
IL GIORNALISTA turco in esilio in Germania, Metin Cihan, il 12 novembre ha deciso di condividere i risultati delle sue ricerche sul social media X (ex Twitter). Cihan ha reso pubblici i dati reperiti sui siti di monitoraggio (Marinetraffic, Vesselfinder, Flightradar24) relativi ai movimenti delle navi commerciali e degli aeromobili che viaggiano da una nazione all’altra. «Dal 7 ottobre a oggi oltre 278 navi sono partite dai porti turchi e hanno raggiunto quelli israeliani. Alcune di queste navi, contrassegnate con la bandiera turca, sono di proprietà di aziende turche o si riforniscono di merci in Turchia da destinare ai porti israeliani come Haifa», ha denunciato Cihan evidenziando che il commercio tra Turchia e Israele non è stato interrotto durante tutto questo periodo.
«Naturalmente, solo le dogane possono confermare il carico effettivo di queste navi; tuttavia, possiamo identificare il tipo di nave, ad esempio quelle che possono trasportare petrolio o prodotti chimici – ha chiarito Cihan – È importante notare anche che in alcuni porti è possibile caricare solo determinati tipi di merci sulle navi. Analizzando attentamente i porti attraversati da queste navi, comprendiamo che in alcuni casi trasportano, ad esempio, cemento o materiali metallici necessari per la costruzione».
CIHAN HA POI scoperto che alcune navi appartengono a personaggi di rilievo. «Ibrahim Guler è membro del partito di governo, Akp, nonché ex candidato sindaco nel 2019 per la città di Hatay con lo stesso partito. La sua nave, chiamata Hatay Ro Ro, continua a fare affari con Israele. Secondo Guler, la nave è stata venduta lo scorso maggio a un’altra azienda, ma non è in grado di fornire i documenti necessari per dimostrarlo in modo adeguato e pare che la gestione della nave sia ancora nelle sue mani». Guler, sin dall’inizio della guerra a Gaza, lancia una serie di messaggi molto forti sui social media, come augurarsi la distruzione dello Stato d’Israele.
Eren Holding è un’altra realtà emersa dalla ricerca, avendo inaugurato diverse fabbriche negli ultimi anni con la partecipazione di Erdogan, di vari ministri e membri dei partiti della coalizione governativa. Il coinvolgimento di tali autorità è stato pubblicamente ringraziato dall’azienda con annunci sui giornali. Secondo quanto emerso dall’inchiesta di Cihan, le navi di Eren Holding continuano a partire dal porto aziendale situato a Mersin, dirette verso Israele. Anche la nave commerciale più grande della Turchia, ossia Kaptan Arif Bayraktar, inaugurata nel 2010 dall’attuale presidente. Secondo i dati resi pubblici da Cihan, la nave in questi giorni naviga nelle acque dell’Egeo verso il porto di Haifa. Il giornale online Kisa Dalga riporta che le esportazioni della Turchia verso Israele raggiungono i sei miliardi di dollari, principalmente grazie alle vendite di acciaio.
L’ASSEMBLEA degli Esportatori turchi indica la Turchia come il terzo paese che più esporta verso Israele. In media, dati dell’Istituto di Statistica turco (Tüik), mostrano che ogni mese Israele acquista beni turchi per 450 milioni di dollari.
«In Turchia, c’è un boicottaggio popolare verso aziende accusate di essere legate a Israele. Anche se sostenuto dal governo e dall’opposizione, il grande capitale non sembra assecondare questo boicottaggio e questo non pare che sia un problema per la politica», spiega Metin Cihan, evidenziando l’ipocrisia che lo ha spinto a intraprendere questo lavoro giornalistico.

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