«Birdie» di Agrupación Señor Serrano

di Susanna Sinigaglia

 

Ho visto il primo spettacolo di Alex Serrano – The House in Asia – l’anno scorso alla Triennale e ne sono rimasta entusiasta; mi aveva divertito moltissimo con la sua inventiva e modo di affrontare certi eventi (nello specifico la pianificazione della cattura, e la cattura stessa, di Osama Bin Laden) mostrandone il lato tragicomico.

L’impianto degli spettacoli di Serrano è consolidato. La scena si costruisce dal vivo, sul palco, su una pavimentazione ad hoc che risponde alle esigenze dell’ambientazione che si vuole riprodurre. Vi vengono collocati pupazzetti in miniatura, piccoli oggetti poi proiettati su grande schermo, in diretta, dal regista e i suoi collaboratori; costituiscono le comparse della scenografia che si dipana davanti agli occhi degli spettatori. L’effetto documentario così creato è impressionante, anche perché questo tipo di immagini si alternano sullo schermo ad altre reali, fotografie o spezzoni di film che il regista sceglie in funzione del tema trattato. Nel nostro caso, è quello drammatico e ormai ineludibile della migrazione umana, mostrata però da un lato nella sua natura di fenomeno presente in tutte le epoche e le specie, come in quella degli uccelli per esempio e in particolare dei rondoni, e dall’altro in quanto evento minaccioso e straniante che rimanda alla vicenda narrata nel film di Hitchcock, Gli uccelli, di cui si alternano sullo schermo alcune sequenze chiave.

“Birdie” (*) parte dal racconto, proveniente da una voce di donna fuori campo, della giornata di un fotoreporter – José Palazón – che si reca quotidianamente su una collina perché da lì può scorgere un tratto della barriera che circonda l’enclave spagnola di Melilla in Marocco. Un giorno, esattamente il 15 ottobre 2014, riesce a ritrarre un gruppo di migranti appollaiati in cima alla barriera prospiciente un verdissimo campo da golf su cui stanno disputando una partita due giocatori, una donna e un uomo, naturalmente bianchi europei. È un fermo immagine che nel corso della performance viene ripetutamente affiancato a quello del film di Hitchcock, che mostra uno stormo di corvi appollaiati su una struttura di metallo vicina alla scuola dove si trova la protagonista che a un certo punto urlerà terrorizzata “arrivano”, scatenando la fuga precipitosa degli scolari e dei loro insegnanti per mettersi al riparo dalla minaccia incombente.

I migranti, a Melilla, si lanciano quotidianamente sulla barriera di metallo cercando di scavalcarla. Sono famosi i loro tentativi di massa coronati in parte, a volte, da successo che si sono succeduti negli anni. La barriera separa due mondi vicinissimi eppure nello stesso tempo incommensurabilmente lontani: basta guardare il verde del prato del campo da golf e confrontarlo con la strada polverosa che circonda la barriera sul lato opposto, pattugliata da esercito e polizia, che si apre su un nulla deserto. Basta confrontare il nulla deserto con i negozi pieni di merci all’interno della città, con le insegne che pubblicizzano marchi famosi in tutto il mondo ricco. È una barriera come ormai tante altre sorte un po’ ovunque e sempre allo scopo di tenere separate popolazioni diverse o impedire ai migranti di varcare le frontiere: fra Israele e Territori palestinesi, fra Messico e Stati Uniti, nei paesi dell’Est europeo. Sono state erette – di nuovo! – barriere persino all’interno di città, vedi Padova, per nascondere la visione di quartieri, e quindi di gruppi umani, indesiderati.

Scorrono sullo schermo a ridosso del palco vecchie fotografie di altre migrazioni, quelle d’inizio Novecento, poi di animali, dai dinosauri ai pinguini in giù; frotte di animali che insieme a piccoli umani dilagano in accampamenti di tende e ovunque. La migrazione è inarrestabile, c’è sempre stata e sempre ci sarà finché esisteranno specie sulla terra.

 

 

La voce che accompagna il racconto scandisce le parole – che appaiono in sovrimpressione – in un inglese molto chiaro e comprensibile mentre sottolinea i passaggi, i capitoli, da una fase all’altra della performance. Lo spettacolo non ha il tono sarcastico e irriverente di The House in Asia. Qui è riflessivo, pacato, dolente; il regista sembra a volte sorpreso dalle stesse immagini che ha scelto di mostrare, da quegli uomini appesi in cima alla barriera, aggrappati a una speranza, che osservano dall’alto il gioco sul campo da golf. È una fotografia molto più straniante di qualsiasi sequenza del film di Hitchcock, che rivela tutta l’assurdità della situazione cui fa eco l’assurdità di una battuta cui il regista non sa rinunciare: su alcune note musicali, appare in sovrimpressione la scritta: “State ascoltando l’ouverture dell’Aida di Giuseppe Birdie”.

Nel capitolo finale della performance intitolato “È la fine del mondo?”, a una specie di buco nero (buca del campo da golf?) che compare sullo schermo e risucchia tutti gli esseri e gli oggetti fanno da contrappunto tre enormi ventilatori sul palco che investono gli spettatori con il loro soffio purificatore e liberatorio. E sugli applausi del pubblico, scopriamo anche di chi è la voce fuori campo. Seduta sulla console, era rimasta di spalle – per tutta la durata dello spettacolo – una figura in giacca a vento rossa col cappuccio in testa come i migranti, immobile, tanto da suggerire d’essere un manichino, una sembianza. E invece è una giovane performer dell’Agrupación Señor Serrano.

http://www.triennale.org/teatro/agrupacion-senor-serrano-birdie/

(*) Birdie: “uccelino” ma nel golf è il punteggio ottenuto mandando la palla in buca con un colpo in meno del previsto.

 

Susanna Sinigaglia
Non mi piace molto parlare in prima persona; dire “io sono”, “io faccio” questo e quello ecc. ma per accontentare gli amici-compagni della Bottega, mi piego.
Quindi , sono nata ad Ancona e amo il mare ma sto a Milano da tutta una vita e non so se abiterei da qualsiasi altra parte. M’impegno su vari fronti (la questione Israele-Palestina con tutte le sue ricadute, ma anche per la difesa dell’ambiente); lavoro da anni a un progetto di scrittura e a uno artistico con successi alterni. È la passione per la ricerca che ha nutrito i miei progetti.

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