Colombia: Nasa e comunità resistenti

di David Lifodi

Lo scorso 14 maggio i passeggeri della chiva che da Santander de Quilichao conduce a Toribío sono piombati nell’incubo. Sulla chiva (il tipico autobus dell’America andina, mezzo di trasporto assai utilizzato nonostante viaggi senza sportelli) sono saliti militanti delle Farc (le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia, il più longevo gruppo guerrigliero del Sudamerica) e, dopo aver tenuto in ostaggio i passeggeri, hanno ucciso una giovane donna di 27 anni, madre di due figli. Siamo nella valle del Cauca, territorio degli indigeni Nasa, ed episodi come questo rappresentano, purtroppo, la norma. Per la verità, nella gran parte dei casi sono i paramilitari o i nuclei di contro-guerriglia dell’esercito regolare a compiere azioni efferate, o anche peggiori, dello stesso tenore. Nel mezzo i civili, gli indigeni Nasa: per lo Stato e i paras sono fiancheggiatori degli insurgentes, secondo i guerriglieri invece il loro compito dovrebbe essere quello di fornire copertura a prescindere alle formazioni rivoluzionarie.

In una situazione complessa come quella colombiana il terrore rappresenta la principale strategia messa in atto dal capitale: gli ultimi cinque ambasciatori Usa a Bogotà sono stati successivamente inviati in Afghanistan, il territorio è controllato dal narcotraffico e alle elezioni si votano i candidati imposti dai paramilitari, con cui gli alti apparati dello Stato vanno a braccetto. La Colombiaè una sorta di buco nero della democrazia, dove nei soli primi tre mesi del 2011 sono stati assassinati 9 attivisti per i diritti umani, 68 hanno subìto minacce di morte e 4 risultano desaparecidos. I dati risalenti agli ultimi cinque anni mettono i brividi: quasi duecentomila omicidi e ben 35 mila sparizioni, in buona parte sindacalisti, campesinos, militanti di sinistra, indigeni. Proprio gli indigeni Nasa, nel Cauca, stanno cercando di (soprav)vivere in un conflitto assai lontano dal concludersi. Hanno scelto, coraggiosamente, di dichiararsi comunità di pace in resistenza, neutrali in una lotta senza quartiere dove la loro vita è messa quotidianamente in pericolo dagli squadroni della morte, dall’esercito e talvolta, purtroppo, anche dalle stesse Farc. Sul municipio indigeno di Toribío, la “capitale” dei Nasa, incombe la presenza di alcune colonne guerrigliere, ma anche dei paras, di una base militare Usa e, per non farsi mancare proprio niente, il Cauca è entrato nel mirino delle multinazionali: per questo è divenuto teatro di operazioni dell’esercito. Ufficialmente, la penetrazione dei militari inviati nel Cauca da Bogotà è motivata con la scusa di voler debellare guerriglieri e narcotraffico, in realtà per difendere gli interessi delle imprese stranieri e permettere loro di sfruttare i territori da secoli abitati dalle comunità indigene. Monocoltura della canna da zucchero, sfruttamento minerario selvaggio e militarizzazione del territorio rappresentano i problemi principali per questa regione del sud-est colombiano. La monocoltura è riuscita a smantellare la diversità di coltivazioni (riso, fagioli e mais) impoverendo i piccoli agricoltori e facendo salire i prezzi alle stelle per la disperazione di un popolo già di per sé povero, l’esercito colombiano difende gli interessi del capitale straniero favorendo la sempre nuova apertura di miniere a cielo aperto e la guerriglia, per certi versi, finisce per essere funzionale alle strategie di spoliazione di Palacio Nariño(il palazzo presidenziale di Bogotà) per la militarizzazione del territorio. Eppure i Nasa resistono. Non smette di ripeterlo Manuel Rozental, che ha conosciuto sulla sua pelle l’amarezza dell’esilio in Canada per sfuggire alle minacce dei paramilitari. Analista politico dotato di una invidiabile lucidità, animatore di una delle più grandi marce indigene contro l’allora governo Uribe, lottatore a fianco delle comunità minacciate ed animatore del Tejido de Comunicación y de relaciones externas para la verdad y la vida, il bollettino informativo elettronico settimanale dei Nasa, non ha mai smesso di sottolineare come una delle esperienze più interessanti di mobilitazione e processo sociale provenga proprio dagli indigeni del Cauca. La vita per gli indigeni è sacra e la loro cultura sta nella condivisione, il compartir, un concetto difficile da comprendere per uno stato che ha imposto loro il seguente diktat: “O con noi o con la guerriglia”. Portatori della sabiduria e del buen vivir, i Nasa sono riusciti a sopravvivere durante il periodo della Conquista spagnola per poi recuperare i loro territori e proporre una fase di rottura con l’esistente fondata sull’armonia e l’equilibrio tra indigeni e la madre terra. Al piano di morte dei governi apertamente fascisti susseguitisi in Colombia soprattutto con le ultime presidenze (quelle di Uribe dal 2002 al 2010 e l’attuale di Santos), i Nasa hanno risposto con un progetto di indigenismo del territorio, fondato sul Plan de la Vida, che fa della resistenza pacifica e del tejido de autonomias il cardine per l’armonizzazione dei popoli con la storia e con la natura, la sfida maggiore e più urgente per l’umanità, secondo loro. Non meno coraggiosa di quella dei Nasa è la lotta delle Comunità di Pace del Chocó ed Urabá, in particolare merita alcune righe San José de Apartadó, fondata nel 1997. Il suo leader Luis Eduardo Guerra, fu massacrato dall’esercito con il machete insieme alla sua famiglia il 21 Febbraio 2005: la sua colpa, al pari della comunità, era quella di aver lottato per veder riconosciuto il diritto della popolazione civile alla neutralità. Fin dalla sua fondazione ai giorni nostri la  Comunità di Pace di San José de Apartadó ha pianto numerosi suoi concittadini, vittime principalmente di militari e paras, che spesso hanno cercato di far passare i massacri ai danni delle comunità di pace come operazioni necessarie di controguerriglia in cui gli uccisi venivano spacciati come miliziani delle Farc, fatto che comunque non giustifica l’efferatezza di tali operazioni. In questo gioco sporco si è distinto da sempre Manuel Santos, ministro della Difesa di Uribe e adesso presidente del paese. E’ lui il principale responsabile dell’operazione “falsos positivos”. Negli ultimi anni oltre duemila giovani sono stati uccisi dall’esercito colombiano e poi travestiti con abbigliamento da guerriglieri e armi appoggiate vicino ai loro corpi in un indecente tentativo di depistaggio. E’ superfluo dire che nessuno dei giovani uccisi aveva legami con la guerriglia (contro la quale, peraltro, vengono utilizzati metodi poco leciti e ancor meno legali), ma tutto ciò è servito per aiutare Santos nella figura di presidente dalla mano dura, che in questo modo fingeva di combattere il narcotraffico (e le Farc), mentre distoglieva l’opinione pubblica dal saccheggio delle risorse naturali del paese grazie al trattato di libero commercio. E’ in questo contesto che poco più di due settimane fala Rete Italiana di Solidarietà Colombia Vive! ha inviato una lettera al presidente colombiano Santos per denunciare la situazione di guerra quotidiana in cui si trova coinvolta la popolazione civile. In Colombia dovrebbe intervenirela Corte Penale Internazionale, ha ribadito il Tribunal Internacional sobrela Infanzia afectada porla Guerra yla Pobreza, sottolineando come l’impunità regni sovrana e che la popolazione civile finisca per essere obbligata a schierarsi con gli attori armati in gioco. Un esempio: Uribe aveva finto di smobilitare i circa trentamila paramilitari delle Auc (Autodefensas Unidas), ma alcuni sono riusciti ad infestare la politica colombiana ai più alti livelli (il cosiddetto scandalo della parapolitica) ed hanno continuato a seminare il terrore riorganizzandosi sotto altri nomi.

Sarebbe lungo descrivere la storia della Colombia ed il suo quotidiano susseguirsi di violenze che, nel corso degli anni, ha decimato la sinistra politica colombiana, vedi il sanguinoso sterminio del partito Unión Patriotica, antecedente dell’attuale, e non meno perseguitato, Polo Democratico Alternativo, oppure le quotidiane minacce di morte agli operai della Coca Cola iscritti al Sinaltrainal, il combattivo sindacato nazionale dei lavoratori dell’industria alimentare che in più circostanze ha dovuto leggere sui muri la scritta “morte ai sindacalisti”. Il percorso di questo martoriato paese si può leggere in “Colombia, il paese dell’eccesso”, libro uscito ormai diversi anni fa e curato da Guido Piccoli, uno tra i giornalisti italiani più esperti e grande conoscitore delle vicende del paese andino. A me interessava parlare di un’esperienza coraggiosa d’alternativa, quella indigena e della società civile, che resiste e propone vie d’uscita in un groviglio come quello colombiano in cui è sempre più difficile districarsi.

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