1 – l’appello di “Non una di meno” per il 22 e il 25 novembre
2 – introduzione al pensiero di Silvia Federici;
3 – estratto da uno scritto di Umberto Franchi;
4 – dal tavolo sulla Violenza di Genere di NUDM
5- Irene Moro intervista Brigitte Vasallo
Il 22 novembre inondiamo le strade di Roma! il 25 novembre cortei, azioni e iniziative in tutte le città
In un paese che si prepara al riarmo approfondendo disuguaglianze e discriminazioni, la violenza patriarcale diventa programma di governo ed è normalizzata dalla produzione ossessiva di misure e leggi misogine e transfobiche.
I dati dell’Osservatorio di Non Una di Meno registrano, tra gli altri dati, 78 femminicidi, 3 suicidi indotti di donne, 2 suicidi indotti di due ragazzi trans, 1 suicidio indotto di una persona non binaria, 1 suicidio indotto di un ragazzo ma, come sappiamo, questi numeri, di per sé eloquenti, non danno la misura di quel quotidiano sommerso e strutturale della violenza. L’approccio punitivista scelto dal Governo è pura propaganda da cui non farsi incantare: mentre mostra il pugno di ferro con l’ergastolo per i colpevoli di femminicidio, attacca i centri antiviolenza, la loro storia politica femminista, le pratiche e le metodologie per la fuoriuscita e la prevenzione della violenza di genere.
Mentre i media rilanciavano la notizia dell’ennesimo femminicidio, la Commissione Cultura della Camera votava un disegno di legge che vietava l’educazione sessuale anche alle scuole medie e la subordina al consenso dei genitori negli istituti medi superiori, svuotando la scuola pubblica di un ruolo educativo insostituibile nella diffusione della cultura del consenso e delle differenze. Questa la fotografia del momento, al di là di ogni ipocrisia propagandistica o di piccoli dietrofront. Violenze, abusi e umiliazioni fanno parte dell’educazione sentimentale dei maschi italici da tempo – come testimoniano il gruppo facebook “Mia moglie” e i siti Fika.net e Social Media Girls – eppure le indicazioni nazionali di Valditara vanno proprio nella direzione di sdoganare la violenza, del disciplinamento di studenti e docenti, della militarizzazione dei saperi e della formazione, di un approccio alla cultura bigotto e autoritario. Si accompagnano alla stretta sui percorsi di affermazione di genere con la Legge Disforia nella crociata ideologica antigender che colpisce in particolare infanzia e adolescenza. Da donne, persone trans*, precarie, migranti paghiamo doppiamente il prezzo della militarizzazione delle relazioni, della vita, della società, dell’economia.
Siamo noi a pagare il riarmo con i salari da fame, il part time imposto e il taglio del welfare. La manovra finanziaria propaganda il sostegno alle famiglie ma si tratta di mance una tantum come il Bonus Mamme e di incentivi a tornare a casa per curare figli e parenti senza alcun sostegno economico. Quando Meloni parla di famiglia e di natalità, in realtà scarica altro lavoro gratuito sulle donne per compensare i tagli alla sanità e ai servizi sociali.
In Italia sono più di 2 milioni le famiglie in povertà assoluta (con più di 1 milione di minori), si è povere anche se si ha un lavoro, i salari sono i più bassi d’Europa, non esistono tutele dal ricatto economico, molestie sul lavoro e stress mentale. In un Paese in cui cresce l’intensità del disagio economico, si sta configurando una legge di bilancio “austera” e piuttosto “debole” in termini di risorse, che libera soldi per il riarmo, la difesa e la produzione di armamenti all’interno della necessità di risanamento dei bilanci pubblici voluta dall’Europa.
Viviamo in un momento storico in cui la guerra è diventata la regola dei rapporti sociali. Nazionalismo e suprematismo sono le parole chiave della destra al potere che si riorganizza intorno a Trump. Si materializzano nella loro forma più brutale in Palestina, mentre la guerra globale si accende in decine di focolai nel mondo dettando le condizioni di un potere economico predatorio e senza argini.
Abbiamo abitato, a partire dal posizionamento transfemminista, con rabbia e desiderio le mobilitazioni contro il genocidio e il disegno neo-coloniale che si sta dispiegando ancora oggi in Palestina, nonostante la finta “tregua”.
Nelle scorse settimane siamo state marea, esondazione di corpi che si sono riappropriati dello strumento dello sciopero generalizzato, che hanno praticato blocchi diffusi, che hanno espresso ostilità contro governi complici attraverso discorso e pratiche radicali. Dalla giornata del TDOR del 20 allo sciopero del 28 sarà di nuovo agitazione permanente. Occupiamo le piazze per bloccare tutto e unire le lotte!
In uno scenario in cui paradigma genocidario e guerra stanno cambiando il volto dell’economia, del welfare e della produzione, pensiamo sia sempre più urgente ribadire che la Palestina ci riguarda, che lottare per l’autodeterminazione dei popoli significhi lottare per l’autodeterminazione dei nostri corpi e delle nostre vite, a partire dalle soggettività specifiche che ne sono maggiormente colpite, donne, giovani, migranti, precarie, persone trans*, queer, non binarie, lavoratrici.
Il 22 novembre inondiamo le strade di Roma! il 25 novembre cortei, azioni e iniziative in tutte le città.
Per un’antiviolenza femminista e transfemminista, finanziata e libera dall’ideologia punitivista e confessionale.
Per una scuola libera da condizionamenti e diktat, per la libertà di ricerca e di insegnamento, per l’educazione sessuo-affettiva dalla scuola dell’infanzia all’università.
Contro la manovra finanziaria. Noi la guerra non la paghiamo! Né complici né vittime della conversione bellica.
Per il diritto all’autodeterminazione dei corpi e dei popoli.
“Il corpo delle donne è la frontiera ultima del capitalismo.”
Il pensiero di Silvia Federici (*) ci ricorda che il lavoro invisibile delle donne — la cura, l’educazione, l’ascolto, il sostegno emotivo — è la base nascosta su cui si fonda l’intero sistema economico e sociale. Un lavoro che non si vede, che non viene retribuito, ma senza il quale nessuna società potrebbe reggere.
Questo non è solo un tema culturale, ma una questione politica. Significa mettere in discussione un sistema che sfrutta i corpi e il tempo delle donne, che costruisce ricchezza sulla loro fatica silenziosa, che trasforma la violenza in strumento di disciplinamento.
Dal Medioevo alle cacce alle streghe, fino alla precarietà contemporanea, le strategie del potere sono cambiate ma il bersaglio resta lo stesso: controllare e svalutare la riproduzione sociale.
Federici ci ricorda che non può esserci giustizia sociale senza giustizia di genere.
Riconoscere il valore della cura significa rivendicare salari, servizi pubblici, redistribuzione, comunità. Significa smontare l’idea che la vita valga meno del profitto.
Oggi più che mai, pensare e praticare la cura è un gesto politico e rivoluzionario.
Perché solo trasformando il modo in cui immaginiamo il valore, possiamo costruire un futuro diverso.”
(*) Federici, Silvia. – Filosofa e attivista italiana per la parità di genere (n. Parma 1942). Esponente tra le più significative del pensiero femminista contemporaneo, ha condotto una profonda revisione delle sue teorie strutturali alla luce dei paradigmi marxisti, rielaborati attraverso una profonda revisione del divario tra lavoro produttivo (maschile) e lavoro non produttivo (domestico, femminile) da essi teorizzato. Scardinando gli assunti marxiani sull’organizzazione del lavoro, e interpretando l’attività riproduttiva femminile come elemento indispensabile a produrre forza-lavoro per il mercato, Federici postula che le discriminazioni di genere e il ruolo subalterno assegnato alle donne, con i processi di espropriazione economica e sociale che ne conseguono, sono strettamente funzionali alla riproduzione dei sistemi capitalistici.
IL PATRIARCATO IN ITALIA: LE ORIGINI DEI FEMMINICIDI.
DALLA CULTURA DEL 68 AL FEMMINISMO E ALLA REALTA’ ODIERNA.
di Umberto Franchi (*)
Ogni anno, il 25 novembre si celebra la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne.
Ma qual è la realtà del patriarcato in Italia ?
Secondo l’osservatorio nazionale di “Non Una di Meno” , i casi di femminicidi monitorati dal 1 gennaio al 30 settembre 2025 sono stati 82; inoltre ci sono altri 62 tentativi di femminicidio.
I femminicidi non si fermano ma aumentano … con 22 uomini che dopo avere ucciso una donna si sono suicidati. Quasi tutti dicono che l’hanno ammazzata perché aveva un altro ed erano gelosi, oppure che l’amavano e che senza di lei non potevano vivere.
Il 68% dei delitti avviene dentro le mura domestiche.
Come è noto il patriarcato si manifesta in molteplici modi tra cui la discriminazione di genere, la violenza, e l’oppressione che limita le opportunità per donne e “persone non conformi” agli standard di genere imposti dal sistema vigente.
Non dobbiamo mai dimenticare che in Italia oltre ai femminicidi, ci sono molte altre violenze sulle donne e sulle persone diversamente abili.
Fatti eclatanti di violenza contro le donne, come quelli avvenuti ad esempio a Caivano, dove quindici ragazzi di età inferiori ai 18 anni per molti mesi hanno stuprato due bambine di 10 e 12 anni… Oppure i fatti avvenuti a Palermo, dove una ragazza di 19 anni è stata stuprata da un branco di coetanei, i quali si vantavano dello stupro divulgandolo sui social. E ancora il bullismo con sequestro per 16 ore e sevizie contro un ragazzo di 15 anni disabile, commesso a Torino da tre suoi coetanei avvenuto il 31 ottobre 2025.
Molti casi di stupro e violenze non vengono denunciati per paura e per vergogna.
I dati Istat ci dicono che negli ultimi anni sono in notevole aumento i casi di violenza sulle donne. In Italia 1522 donne – dal 1 gennaio al 30 settembre 2025 – hanno chiamato “un telefono amico” denunciando abusi, violenza fisica e psicologica. Dati che mettono in evidenza un crescendo di problemi esistenti , nella famiglia, nella scuola, nella società.
Quali sono i motivi dell’imbarbarimento della società ? Credo che per capire occorra storicizzare la realtà odierna.
Nella storia d’Italia c’è stato un periodo chiamato «il ’68» – che è durato in realtà circa 15 anni – in cui il movimento studentesco e quello operaio, il movimento femminista, la sinistra sociale, sindacale e politica… hanno svolto grandi battaglie in materia di sicurezza sociale, lavoro, diritti di parità, con una grande crescita sociale, civile, politica e culturale .
Il ’68 fu un grande movimento di rivolta soprattutto giovanile, di lotte sociali, ma anche di crescita partecipativa e culturale… nei sindacati, nelle associazioni, nei movimenti, nei partiti di sinistra parlamentare ed extraparlamentare. Lotte che portarono all’affermazione di profonde riforme sociali, con lo statuto dei diritti dei lavoratori, con la riforma della sanità, la riforma delle pensioni, la riforma della scuola, della maternità, la riduzione degli orari di lavoro, con ingenti incrementi salariali, con il meccanismo automatico di rivalutazione dei salari e pensioni e con altre riforme riguardanti i diritti civili, il divorzio, l’aborto eccetera.
Le lotte e il progetto di cambiamento
Con le lotte sociali si sviluppava anche un cambiamento culturale profondo nel rapporto uomo/donna e nella società, che passava attraverso la partecipazione alle scelte da fare, per mutare e fare evolvere la realtà… nonché la nascita di nuove relazioni interpersonali e collettive. Con l’esplosione del movimento femminista, veniva meno non solo la concezione patriarcale,ma anche ogni possibilità di essere gelosi della propria/o partner.
Il Movimento femminista degli anni 70 ha dato un formidabile contributo all’analisi della composizione di classe, intrecciandola con quella dell’oppressione di genere.
All’epoca erano molto rari casi di femminicidi, il bullismo, le violenze sessuali. Per i giovani di allora non esisteva lo “spazio/tempo”, tutto era subordinato alla centralità del progetto di cambiamento… non esisteva più la priorità della famiglia e tantomeno dell’individuo. Erano le fabbriche, le scuole, i costumi, le famiglie, l’intero Stato che andava cambiato collettivamente.
Gli anni 70 non sono stati solo anni di piombo.
La maggioranza dei giovani degli anni 70, avevano un desiderio profondo e una passione viscerale finalizzata a sviluppare la lotta con il conflitto permanente finalizzato cambiare la società… ed ogni conquista del movimento operaio/studentesco/femminista era solo un nuovo punto di partenza per fare ulteriori conquiste fino a voler governare anche politicamente l’Italia.
Per molti giovani della mia generazione, gli strumenti di partecipazione ed i diritti dei cittadini, conquistati soprattutto negli anni 70, accrescevano anche la cultura individuale e collettiva di tutti i soggetti subordinati, i quali si sentivano impegnati a compiere una missione: quella di dover cambiare la società, superando il capitalismo eliminando la mercificazione “dell’operaio massa”, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e solo così si sarebbe abolito anche il patriarcato.
Le origini del riflusso.
Purtroppo la battaglia per il cambiamento della società, negli anni successivi è fallita perché si è scontrata con i poteri forti economici e speculativi, con le forze della reazione USA che hanno utilizzato tutti i mezzi per sconfiggere il movimento di lotta, con la strategia di Stato detta “della tensione” fatta di bombe, attentati, connubio con mafia, Servizi segreti, CIA, P2 …
Successivamente i processi mediatici sviluppati soprattutto nel ventennio berlusconiano, l’uso del web, della spettacolarizzazione , la personalizzazione della politica hanno svuotato il senso tradizionale dei meccanismi di rappresentanza collettiva.
Con la nascita del partito azienda “Forza Italia,” è iniziato un grande martellamento ideologico che attraverso varie strategie manipolatrici, per oltre 30 anni hanno utilizzato a “man bassa”, la stampa TV, economisti ben pagati, politici di destra (ed anche quelli che si consideravano di centrosinistra) hanno iniziato a dire: i sindacati hanno troppo potere, i lavoratori con contratti a tempo indeterminato sono dei privilegiati, i pensionati rubano il futuro ai giovani andando in pensione troppo presto, la sanità pubblica è insostenibile costa troppo allo stato; gli ammortizzatori sociali alimentano il parassitismo dei disoccupati (oggi il reddito di cittadinanza) crea furbetti che preferiscono non lavorare, lo stato non deve gestire le imprese e le aziende pubbliche e i beni pubblici vanno privatizzati eccetera.
Questo continuo lungo martellamento ideologico è servito per svendere aziende pubbliche e pezzi di Stato, fare delle “riforme” che in realtà erano controriforme , come quelle sulle pensioni, sanità, scuola, mercato del lavoro, salari, ecc… mettendo al centro la validità del “libero mercato” nella globalizzazione mondiale . Questo – assieme ai processi di ristrutturazione e delocalizzazione delle aziende – è servito per svendere indebolire il movimento operaio a favore del padronato e a fare nascere la cultura dell’egoismo che ha agevolato la divisione e conflitto dei poveri contro i poverissimi a vantaggio delle classi borghesi straricche.
Il regime liberista, patriarcato ed i femminicidi :
Così a partire dalla fine degli anni 80 è finita la mediazione tra capitale e lavoro, ed è stato messo al centro dei “valori” della società, la validità del massimo profitto nel “libero mercato” nella globalizzazione mondiale , fino a costruire un regime fondato sul liberismo . Per arrivare poi a mandare al governo del Paese gli eredi del fascismo di Almirante e Mussolini, i quali stanno affossando la democrazia rappresentativa con la “schiforma della giustizia” e il “premierato forte”.
Inoltre, progressivamente anche lo Stato Nazione ha perso la sua sovranità delegandola ad organismi transazionali privi di legittimazione democratica, quali la banca mondiale, la BCE, il FMI, la NATO , con il mercato globale che è sfuggito ad ogni controllo politico ed ha imposto lo smantellamento dello stato sociale.
Oggi la violenza, i femminicidi, il bullismo sono in gran parte figli del “riflusso” , di ciò che è avvento nel nostro Paese a partire dalla metà degli anni 80 , come sopra illustrato . Di fatto è stato applicato lo slogan della Thatcher “ non esiste la società, esiste solo l’individuo”.
Oggi chi detiene il potere di governo ed economico , concepisce la libertà come quella del comando dei più forti contro i più deboli a tutti i livelli della società.
In questo quadro i femminicidi come gli stupri, le violenze, il bullismo, aumentano.
Il femminismo odierno
E’ evidente che oggi anche il femminismo ha perso la sua forza di attrazione e cambiamento. Il patriarcato, più che mai, è in relazione al potere delle classi dominanti su quelle subordinate.
Occorre quindi riconoscere che le radici patriarcali del sistema capitalista vigente anche prima degli anni 70 non sono mai state recise del tutto, anzi i capitalisti, hanno integrato migliaia di donne nei processi produttivi, riproduttivi, comunicativi, assistenziali, sempre mantenendo bassi i salari inferiori a quelli dei maschi e spesso peggiorando la loro vita.
Anche i processi che le donne (soprattutto di destra) definiscono di emancipazione – con una minoranza di donne cooptata ai livelli superiori delle gerarchie economiche e politiche – si rivelano più formali che reali.
Credo che oggi esista una stretta relazione tra la violenza di chi è pronto ad ammazzare l’oggetto dei suoi desideri se sfugge… e l’altra violenza che avviene all’interno dei luoghi di lavoro, dove spesso gli imprenditori tolgono le protezioni sui macchinari al fine di produrre di più; come è avvenuto anche con Luana, una ragazza di 22 anni, in un fabbrica vicino Prato, risucchiata da un orditoio al quale avevano tolto i dispositivi di protezione per produrre di più.
Se è vero come è vero che il Patriarcato è in relazione al potere delle classi dominanti su quelle subordinate, a mio parere anche il femminismo odierno deve attrezzarsi alla nuova realtà sapendo che oggi più di ieri bisogna fare i conti con la violenza di Stato.
Anche se il movimento femminista continua ad esistere con “Non Una di Meno” o “donne in rete contro la Violenza” penso che un più vasto movimento contro la violenza sulle donne possa svilupparsi solo se assieme ad altri movimenti e soggetti politici si pone l’obbiettivo di rilanciare una battaglia per una alternativa radicale al sistema capitalista oggi governato dalle destre , su un preciso progetto economico, sociale, civile, politico, culturale … perché non può esservi una lotta contro il patriarcato, se contemporaneamente non c’è una forte lotta di classe.
La violenza è nel sistema e scelte di classe
Nella realtà odierna il patriarcato cresce assieme alla violenza di classe, Per affrontare questa nuova realtà non basta (anche se è utile) fare qualche sciopero generale episodico… Serve una discontinuità storica di tutta la sinistra politica e sociale, capace di dare seguito alle manifestazioni per la pace andando a ricostruire le battaglie nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nei territori e generale su un progetto rivendicativo e politico alternativo al capitalismo devastante in atto, con un conflitto di lunga durata fino alla riconquista di tutti i diritti sociali persi compresa la scala mobile .
Solo allora chi è deluso può ritornare a fare politica attiva e anche tornare a votare. Dobbiamo ricostruire rapporti di forza necessari a tutti i livelli finalizzati per ottenere una trasformazione del sistema vigente , l’uguaglianza economica, sociale, sessuale ed etica, con la fine dei femminicidi .
(*) Umberto Franchi è un ex dirigente sindacale CGIL. La “bottega” ha ripreso ampli stralci di un suo lungo scritto del 12 novembre 2025.
Dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin e di troppe altre*, siamo ancora qui a ripetere le stesse parole, a scendere in strada arrabbiate*, a trovare con noi a manifestare migliaia di giovani che anche autonomamente occupano le scuole, scioperano perché la violenza attraversa i loro spazi, le scuole, le famiglie e ora hanno le parole per protestare: femminismo/transfemminismo, patriarcato, maschilità tossica.
Se pensavamo che qualcosa cambiasse, è cambiata in peggio sul piano legislativo e della politica istituzionale: la legge sul femminicidio altro non è che un dispositivo inutile per aggravare le pene e il sistema di repressione; di nuovo abbiamo sentito discorsi razzisti sulla “sensibilità diversa sulle donne” riferita ad alcune etnie (certo non quella italica) e sulla lettura manipolata dei dati riferiti alle violenze sessuali volta a criminalizzare i migranti; dopo la reazione pubblica di sgomento a seguito di femminicidi perpetrati da giovanissimi è intervenuta la garante per l’infanzia, a colpevolizzare le donne e a svalutare il ruolo dell’educazione sessuo affettiva nelle scuole; una insegnante è stata sospesa per avere messo foto su onlyfans ed è subito partito il codice etico per disciplinare i comportamenti di chi lavora nella scuola e nel pubblico impiego.
Questo piano di ragionamenti punitivi, repressivi e di controllo, che da decenni accompagna il dibattito politico sui media e nei palazzi, non solo serve a evitare di affrontare il tema della violenza di genere alla sua radice sistemica e culturale, ma ha anche preparato il clima per introdurre tramite decreto legge una serie di misure repressive che hanno lo scopo di criminalizzare il dissenso, la protesta, lo sciopero, i picchetti e le azioni non violente della contestazione e del boicottaggio.
Come reagiamo alla strumentalizzazione in chiave razzista, securitaria e repressiva della violenza patriarcale? Come ci opponiamo al tentativo di portare avanti politiche razziste e nazionalista in nostro nome e sui nostri corpi?
Decidere per sé, per il proprio corpo è considerato un fattore di rischio. E ancora si continua a colpevolizzare le* supersititi e le vittime e il femminismo e le donne che hanno ridotto gli spazi di potere maschile, minato le sicurezze degli uomini, creato le condizioni della crisi della virilità e del conseguente disagio psicologico che poi dà sfogo alla violenza.
Come costruiamo narrazioni che riconoscano la natura strutturale della violenza patriarcale? Come costruiamo pratiche collettive per rispondere alla violenza? Cosa ci insegnano le mobilitazioni partecipate e spontanee in risposta agli ultimi femminicidi?
Abbiamo detto che una caratteristica del governo Meloni è la rivalsa, la voglia di fare tabula rasa della cultura cosiddetta di sinistra, a partire dall’azzeramento delle conquiste del movimento LGBTQIA+ e del movimento delle donne*. In questo quadro si collocano gli attacchi al diritto di aborto e i milioni di euro dati a pioggia a Provita e famiglia, gli attacchi a* giovani gender non conforming e alle famiglie arcobaleno, spazi e finanziamenti dati a realtà neocattoliche e/o espressamente legate alla destra per ricoprire ruoli un tempo considerati estranei a quei soggetti, in particolare consultori, centri antiviolenza, formazione sull’educazione affettiva e sessuale. Non basta chiedere l’apertura di sportelli di ascolto a scuola, se poi vengono appaltati ad associazioni ed esperti alla Vannacci o alla Amadori.
Gli sportelli rientrano tra le nostre istanze? Quante volte abbiamo scaricato sui cav funzioni e responsabilità anche al di fuori dei loro limiti di intervento? A scuola si chiedo lo/la psicologa, che spazio c’è per la peer education? A che ordine di idee appartengono queste diverse soluzioni?
Oltre alle domande precedenti, proponiamo alla discussione due temi: uno ‘potenzialmente emergenziale’ sui cui occorre valutare pericolosità e possibili risposte; l’altro che interessa i nostri spazi e gli approcci con cui proviamo ad arginare le dinamiche patriarcali violente.
1. L’associazione Padri Separati sta raccogliendo le firme per una proposta di legge che è peggiorativa del DDL Pillon che siamo riuscite a non far passare. Vengono riproposti alcuni aspetti già presenti nel DDL Pillon ma a questi si aggiungono gli articoli 9/11 che rappresentano la fine dei percorsi di uscita dalla violenza familiare per le donne con figlie*.
Oltre al danno la beffa: i Padri Separati nel sostenere il diritto paterno di essere pari all’altro genitore sottolineano la co-responsabilità parentale quale “essenziale contributo al fine di liberarsi dagli stereotipi di genere che riguardano i ruoli socialmente assegnati alla donna e all’uomo che riverberano la ripartizione di compiti in seno alla famiglia, ancorati a logiche patriarcali” (sic).
I primi articoli riguardano:
Ø Il piano genitoriale.
Ø La possibilità di assegnare la casa, ma solo alle* figlie* stesse*, determinandovi così l’alternanza dei genitori nei periodi di accudimento delle* figlie* secondo il piano genitoriale.
Ø Il limite del mantenimento ai 19 anni a meno di frequenza proficua di studi universitari o simili, ma non oltre i 26 anni.
Ø I limiti entro cui ha validità una Consulenza tecnica d’ufficio (CTU)
L’Articolo 9 e l’Articolo 10 fronteggiano le cosiddette false accuse, definite “pratica diffusissima e comunemente usata per pressioni sull’altra componente genitoriale, per vantaggi prettamente economici e di godimento di beni”. Gli articoli recitano:
Art 9. Il giudice dichiara la decadenza dalla responsabilità genitoriale del genitore che abbia allegato in giudizio fatti costituenti abusi familiari o condotte di violenza domestica o di genere ovvero altri reati ai danni dell’altro genitore o del figlio che, anche all’esito di una sommaria istruttoria, siano risultati insussistenti.
Art 11. 1. Chiunque, abusando dell’affidamento di un minorenne, indebitamente limita, impedisce o nega al genitore non affidatario il suo diritto di frequentarlo, istruirlo ed educarlo è punito con la reclusione fino ad un anno. La pena è della reclusione da 2 a 4 anni nel caso in cui l’autore interrompa senza giustificato motivo per un periodo superiore ai tre mesi la continuità della relazione del genitore non affidatario col figlio minore. In caso di gravi e ripetute violazioni delle disposizioni di cui ai commi precedenti, il giudice può applicare la pena accessoria della decadenza dalla responsabilità genitoriale.
Si tratta di mera rivalsa e gravissima minaccia che limiterà la libertà delle donne di denunciare le violenze: un freno alla fuga e un ostacolo enorme per le attività dei CAV.
Focus: attacco alla libertà delle donne; attacco all’attuabilità delle azioni dei CAV; impunità per la violenza maschile.
Output: serve un’azione di massa e in anticipo, prima che sia in discussione in parlamento, come fu per il DDL Pillon.
Criticità: quali tempi scegliere per sollevare questa lotta. Paura di arrivare tardi e paura di iniziare presto.
2. La nostra critica al carcere, alle politiche punitive e repressive è critica radicale. Come si applica per la violenza di genere? Iniziano a emergere metodologie ed esperienze di giustizia trasformativa, applicata in particolare nelle comunità che abitiamo. Ne abbiamo esperienza o conoscenza? Come si pone questa metodologia rispetto agli sportelli che spesso vengono richiesti in particolare nelle scuole e università? È un argomento che può fare da argine alle politiche mainstream che individuano nell’aumento delle pene le sole soluzioni per la violenza di genere e maschile?
Focus: andare oltre le soluzioni di allontanamento dei responsabili delle violenze nei nostri spazi, avere uno sguardo che supera il binarismo vittima/colpevole.
Output: avere nuovi approcci per la cura, per la gestione dei conflitti e per la presa di coscienza in caso di violenza di genere.
Criticità: ci sono resistenze anche nella rete DiRe, da approfondire. Richiede tempi e risorse che poche realtà hanno.
Nel suo saggio “Per una rivoluzione degli affetti”, la scrittrice e attivista spagnola riflette su come il capitalismo abbia trasformato non solo il modo in cui produciamo, ma anche quello in cui amiamo. Dalle terre comuni alle relazioni, l’autrice cerca uno spazio in cui liberarci dalle imposizioni.
Qualche tempo fa mi è capitato tra le mani un libro sulla rivoluzione. Tra le tante rivoluzioni possibili, questa riguardava le relazioni umane. Mi era stato consigliato, e così ho fatto io a mia volta. Ho inviato alcuni paragrafi ad amici e amiche, ho recuperato le pagine a cui avevo fatto le orecchie perché sapevo già che avrei avuto bisogno di rileggerle. Ne ho parlato a lungo con i miei coinquilini, seduti al tavolo dopo cena, tra una partita di burraco e l’altra. C’erano sempre dei punti che rimanevano sospesi, e molte volte ho immaginato quanto sarebbe stato prezioso avere l’autrice a quel tavolo con noi, offrirle una birra e ragionare insieme.
Con Per una rivoluzione degli affetti. Pensiero monogamo e terrore poliamoroso, pubblicato in Italia da effequ e tradotto da Andrea Gatti e Cristina Velázquez Delgado, ho scoperto per la prima volta la voce di Brigitte Vasallo.
Mentre mi avvio all’hotel di Milano dove l’autrice mi sta aspettando, non posso ancora sapere che l’intervista avrà lo stesso sapore di quelle serate. Entra nella hall dal cortile interno e mi saluta in italiano: “Ciao, scusami, arrivo subito”. E scompare, per ritornare poco dopo. Mentre mi parla si sporge in avanti sul tavolino stretto, eliminando qualsiasi residuo di formalità. Potremmo essere lì o sul mio terrazzo di casa. Mi sorride, chiacchieriamo per un po’ in italiano prima di passare allo spagnolo. Nella sua vita, tra uno spostamento e l’altro, ha vissuto anche a Roma, per studiare all’Accademia di Spagna. Ricercatrice, scrittrice e titolare della cattedra di Studi Catalani presso l’Università di New York (CUNY), il lavoro di Vasallo si articola tra il tentativo di comprendere come razzismo e misoginia si sovrappongono e si alimentano a vicenda, in particolare rispetto alle donne musulmane (da cui il romanzo Pornoburka, tradotto nel 2020 da Claudio Marrucci) — grazie anche a una lunga esperienza di vita in Marocco — e l’apertura a forme relazionali altre rispetto alla monogamia, ponendo una particolare attenzione alla necessità di non ricadere nelle logiche di possesso e di competizione dettate dal capitalismo.
Hai più volte parlato delle tue origini, del tuo essere xarnega e della tua appartenenza a una famiglia che ha “poca genealogia”, che ha dimenticato il proprio racconto, la propria provenienza. Secondo il dizionario della Real Academia Española, xarnego è colui che è “immigrato da una regione spagnola di lingua non catalana”. Il concetto, in realtà, ha un senso più profondo: tra il 1950 e il 1970, nel mezzo della dittatura franchista, il termine “xarnego” viene utilizzato per riferirsi in modo dispregiativo ai migranti economici, coloro che provengono dalle zone contadine e che non avevano entrambi i cognomi catalani. La tua famiglia è originaria della Galizia, del paesino di Chandrexa de Queixa, una comunità di contadini costretti a lasciare la loro terra e a emigrare prima in Francia e poi in Catalogna. In che modo credi che tutto questo abbia influito con il tuo modo di rapportarti al mondo e con la tua volontà di ridiscuterne le categorie?
Sì, è vero, non so tracciare la mia genealogia. O forse, mi chiedo, il luogo da cui provengo ne ha semplicemente una diversa. Al Metropolitan Museum di New York ho fotografato una lunghissima pergamena che rappresenta la genealogia dei re d’Inghilterra. Quando guardo quella foto non posso fare a meno di pensare che io non faccio parte di quelle persone. Allora, forse, questo modo di raccontare chi sei, di definirti sulla base della tua genealogia, non appartiene al mio popolo. Non importa sapere chi erano i miei bisnonni, potrebbero essere chiunque. La consapevolezza di venire da luoghi diversi, e di abitare luoghi diversi — sia a livello di origine, che di genere, che di classe — è alla base di tutto il mio lavoro.
Non appartengo ai circuiti accademici perché non ho potuto permettermi di intraprendere quel tipo di carriera, ma questo fa sì che il mio lavoro di ricerca avvenga in contesti molto più aperti. Ora che ho costruito una carriera internazionale, posso guardare indietro e accorgermi che i luoghi da cui provengo sono stati per me strumenti comunque utili.
Quando parli dell’esistenza xarnega, la descrivi spesso come un’esistenza queer. In che senso?
Per me sono la stessa cosa. Questa associazione genera spesso scandalo, ma la connessione per me è evidente. L’identità xarnega è molto simile al concetto di “terrone” in Italia. Non definisce solo chi proviene dal Sud, si riferisce piuttosto a una provenienza contadina. Nemmeno il concetto di xarnego è esclusivamente geografico. Questo significa che gli strumenti di analisi del mondo sono manchevoli, perché non riescono a spiegare chi viene da un luogo diverso da quelli già schematizzati.
Lo stesso avviene con il concetto di queer: è diventato, ormai, una categoria, che ti impone di essere questo o quello, di scegliere un’identità sola, un solo schema relazionale. Ma il concetto di queer non riesce a spiegare chi sei, non racchiude la tua esperienza, perché la tua esperienza sta altrove, in un posto che non è nemmeno dentro a quel sistema, anche se è completamente dominato e influenzato da esso. Non è che tu stia in un luogo fantastico dove questa struttura non esiste. Esiste, certo, ma non riesce a esaurirti fino in fondo.
Un tema di cui ti stai occupando molto in questo periodo, e di cui parlerai anche questa sera nel tuo intervento al festival 2084 organizzato dalla Scuola di Scrittura Belleville, è la trasformazione del mondo contadino e rurale causata dall’avvento del capitalismo e del cosiddetto “miracolo economico”. In Per una rivoluzione degli affetti parti dalle origini, dal momento in cui nel XVII secolo si iniziarono a recintare i terreni comunitari. La recinzione delle terre è divenuta, poi, una recinzione degli affetti? In che modo l’ordinamento della produzione porta anche a una classificazione della sessualità?
Quando ho riletto Per una rivoluzione degli affetti sono rimasta colpita di ritrovare la questione delle terre comuni, non ricordavo di averne già parlato. Ora è al centro del mio lavoro, perché nel villaggio da cui proviene la mia famiglia — lo stesso da cui me ne sono andata e dove sono tornata per la prima volta dopo trent’anni — ci sono ancora dei terreni comunitari, e io non lo sapevo!
Avviene tutto nello stesso periodo storico: in Inghilterra, ma poi anche in Spagna, con l’arrivo del capitalismo nell’Ottocento le terre vengono recintate, per sfruttarle in maniere aliene alla vita comunitaria. I contadini che vivono in quella terra sono costretti così ad andarsene nelle città.
Parallelamente, il sistema amoroso in cui viviamo, come tutti i sistemi in cui viviamo, è orientato dal pensiero che si produce nelle città. La civiltà urbana è anche la civiltà monogama e la civiltà coloniale. Dirigendosi verso le città, ci si dirige anche verso quella nuova forma amorosa. È tutto intrecciato, tutto converge verso un preciso momento storico in Europa: l’inizio del capitalismo. Il taglio non è netto, perché le comunità contadine hanno resistito attraverso i secoli, e continuano, incredibilmente, a resistere, anche se in nuclei sempre più piccoli e sempre meno “puri”. Quella ricerca della purezza è anch’essa una forma di oggettivazione: dimostra che vedi l’altro come un oggetto, non come un soggetto. Ma ci sono ancora moltissime pratiche e forme di vita diverse da tutte le altre, in luoghi sempre meno popolati. Con uno sguardo attento, si vede che stanno conservando delle forme di esistenza che indicano un altrove, qualcosa che non ha a che vedere con ciò che esiste nelle città. È incredibile. Conservano anche altri modelli relazionali, in molti sensi. Non ci si può aspettare di trovare reti poliamorose o persone che si identificano come trans, questo no.
Per esempio, nel mio villaggio sono rimaste due persone. Se sommiamo tutte le persone che orbitano intorno a quel luogo, me compresa, siamo in nove, completamente diversi l’uno dall’altro. Nel mio paese, quando nasceva una persona intersessuale, gli davano un nome neutro. E, una volta diventata adulta, poteva decidere la sua identità, così come poteva decidere dove andare a vivere, come chiamarsi. Non era qualcosa di eccezionale, era la normalità. E veniva raccontato così, semplicemente. “Guarda, quella persona è nata uomo e donna. E si chiama così perché questo è il suo nome. E ora, da adulta, è una donna”.
Nel mio paese, la donna dà il cognome. Gli uomini vengono chiamati in riferimento alla loro moglie. Quindi: “Juan de la Flora” oppure “Paco de la Sinda”. La donna, invece, è nominata in riferimento al paese dove vive, anche se non è il suo paese d’origine. Quindi di nuovo: non si tratta di dire che modello è migliore, ma di riconoscere che esiste un’alternativa. Esiste qualcosa di diverso, qualcosa che non riusciamo ad analizzare o a vedere, perché siamo condizionati da determinati modelli sociali. E allora bisogna mettere da parte quei modelli per capire che cosa ci può raccontare questa realtà, e come possiamo costruire la nostra genealogia senza lasciarla colonizzare dalle forme urbane.
Nei diversi temi da te trattati (la lingua inclusiva, il poliamore, il mondo rurale) ritorna spesso il contrasto tra ciò che è visibile e ciò che, invece, resta invisibile. Restano invisibili le forme relazionali che non sono monogamia, quasi come se non fossero legittime, resta invisibile tutto ciò che non viene nominato o incluso in un linguaggio. A un primo sguardo, il tuo pensiero sembra evidenziare una necessità di visibilità. Eppure, più volte hai sottolineato la tua volontà di rivendicare l’invisibilità, l’indifferenza degli altri di fronte al tuo essere xarnega o al tuo essere lesbica, per esempio. Perché? Qual è, quindi, il tuo obiettivo?
Credo che sia importante chiedersi: visibile a chi? A me interessa molto di più ciò che è invisibile. Per esempio, di fronte a un contenuto Instagram mi chiedo: quale storia nasconde la foto che sto guardando? Quale linguaggio c’è dietro? Quello che conta, secondo me, è la capacità di vedere l’invisibile. Anche perché la sfera pubblica, per me, non è davvero il visibile. Ciò che mi preoccupa è che non siamo capaci di vedere tutto ciò che avviene attraverso altri canali e che, forse, nasconde strumenti di comprensione.
Mi hanno intervistato in questi giorni sul tema delle radici e la giornalista concepiva le radici come qualcosa che sta dietro, nel passato. E io le dicevo: “No, non ci stiamo capendo, per me le radici non stanno dietro, stanno sotto”. Quindi a me interessa questo: l’invisibile nel senso dell’architettura che ci sostiene. Quando capisci com’è fatta questa architettura, anche quello che sostiene, ciò che si vede, cambia. Riesci a cogliere nuove sfumature, e questo è fondamentale in un momento in cui c’è una sola faccia possibile delle cose, e la molteplicità è considerata sospetta.
” Il sistema amoroso in cui viviamo, come tutti i sistemi in cui viviamo, è orientato dal pensiero che si produce nelle città. La civiltà urbana è anche la civiltà monogama e la civiltà coloniale”.
Un elemento che torna varie volte, sia in Per una rivoluzione degli affetti che in Linguaggio inclusivo ed esclusione di classe è la logica del bello: dovremmo desiderare, tanto sessualmente quanto a livello linguistico, solo ciò che è canonicamente bello. Un bel corpo, un discorso che utilizzi un linguaggio accademico, sono considerati eticamente buoni, sono legittimati. Allo stesso tempo, un corpo canonicamente brutto, un linguaggio dialettale, vengono considerati illegittimi, moralmente cattivi. Puoi spiegare cosa intendi quando affermi che “Le forme di resistenza nascono lì dove non arriva il capitale, ovvero da ciò che il capitale ha schifato, ha ritenuto brutto, ha tagliato fuori”?
Sul bello hanno lavorato tutti, non è certo una novità. L’associazione tra bello e buono è una grandissima trappola, soprattutto sapendo che il nostro modo di intendere il bello è condizionato dal nostro contesto sociale. Eppure quando esploriamo la nostra storia, quando raccontiamo tutte quelle storie subalterne che non hanno potuto essere narrate, emerge sempre il bisogno di difenderle in quanto buone. Ma cosa, di noi esseri umani, è davvero buono? Siamo un disastro. Bisogna imparare a guardare ciò che ci caratterizza, a definirlo come luce o come ombra, senza il bisogno di difenderlo da un punto di vista morale.
Tornando alla frase che citi, io credo non esista nulla al di fuori del capitale, o almeno niente che io conosca, niente nel mio contesto, niente qui in Europa, se vogliamo dare un riferimento geografico. Però esistono gli spazi che il capitalismo disprezza. E lì accade altro. Perché non sei fuori dal mandato, ma nemmeno ne ricevi la ricompensa. Quindi devi trovarti un altro modo di vivere. Ed è lì che si vedono le crepe. È uno spazio rivelatore. Prendiamo, per esempio, il lesbofemminismo. Lo sguardo più interessante è quello della periferia, di chi è emarginato. Quando hai addosso il riflettore del centro del sistema, non vedi nulla e non puoi davvero capire la tua posizione. Bisogna chiedersi: come ci guarda chi è razzializzato? E quello sguardo, quindi, diventa complementare alla tua identità.
Oggi sembra che nessun confronto possa essere complementare, che ogni sguardo su una realtà possa solo negarla o annullarla. Ci ritroviamo dentro a una battaglia, alla logica di George Bush: o sei con me, o contro di me. Ma io credo, invece, che tutti quegli sguardi che non sono vólti al centro del sistema diano informazioni interessanti proprio sul sistema stesso.
Nei tuoi libri porti spesso l’attenzione sul rischio che le relazioni, tanto poliamorose quanto monogame, riproducano le logiche capitaliste, basandosi su gerarchie relazionali. Dovremmo, dunque, liberarci dalla competizione in tutti gli ambiti della nostra vita. Come possiamo riuscirci?
Credo che stiamo sbagliando il modo di vedere i sistemi in cui viviamo, come se potessimo uscirne. Stiamo peccando di individualismo. Quando diciamo, per esempio, “Io non ho genere”. Se tu non hai genere, sottintendi, quindi, che io ho un genere perché lo voglio? Io non voglio nessun genere. Però cosa posso fare? Sono in questo sistema, è qualcosa che va oltre la mia individualità. Dobbiamo tenere a mente le conseguenze di un’affermazione simile, perché non siamo sole nel mondo. Anche il modo in cui io mi percepisco ha conseguenze comunitarie, a prescindere che io voglia far parte di una comunità o meno. La comunicazione comporta la presenza dell’altro, della comunità, quindi ha delle conseguenze sul piano comunitario. Pensare che all’interno di questo sistema monogamo possiamo inventare qualcosa che non ha a che fare con il sistema stesso, significa fingere che il sistema non sia reale, fingere che ci sia una possibilità di scelta. Dunque quello che dobbiamo fare è partire da quella struttura, in cui cresciamo e in cui proviamo a decostruire e a costruire altro. Ma dobbiamo capire qual è il sostrato con cui stiamo costruendo.
Come facciamo a non competere nel sistema in cui siamo? È molto difficile, non ho la formula per non competere. Ma esiste una forma di resistenza, che è la consapevolezza e l’impegno politico a preferire la strada della cooperazione a quella della competizione.
Nella vita quotidiana ci sono moltissime occasioni in cui possiamo scegliere di non competere, eppure optiamo sempre per la competizione, perché, in fin dei conti, ci piace: c’è una ricompensa. Eppure è proprio per questo che è necessario impegnarsi politicamente a preferire la cooperazione, anche nelle cose di ogni giorno.
In Polisicure, Jessica Fern sostiene che per costruire relazioni non monogame sane serva lavorare profondamente sul proprio attaccamento e sui traumi affettivi, a livello individuale e relazionale. Tu invece, in Per una rivoluzione degli affetti, metti in discussione le strutture sociali e culturali che rendono la monogamia una norma ideologica e politica e dai molto più spessore a tutto ciò che è comunitario. Credi che un lavoro interiore possa davvero produrre cambiamento sistemico, o rischia di individualizzare problemi che sono soprattutto strutturali?
Sono sempre un po’ scettica quando entra in gioco il ritorno alla sfera personale. Soprattutto quando si lavora sui traumi quasi come un’accusa. I traumi sono collettivi, quindi anche la soluzione dev’essere collettiva. Dobbiamo essere in grado di accompagnarci nella fragilità. Questo non significa sopportare abusi, ovviamente, ma vuol dire che ogni persona deve poter andare avanti, anche con la propria fragilità. A questo serve la comunità, no? Cerchiamo di costruire un luogo in cui poterci spezzare, in cui poterci rompere senza però rompere gli altri.
Quindi ciò che io mi chiedo è: a livello politico, come si traduce il fatto che ognuno lavori sul proprio trauma? Ognuno deve lavorare sul proprio capitalismo? Come si fa? Perché quello che mi interessa non è un insieme di singole persone non monogame, ma un mondo non monogamo. Un mondo in cui posso dire cioè: “A Gaza c’è un genocidio in corso”, e allo stesso tempo posso non essere antisemita. Le due cose devono convivere. Riconosco il trauma del popolo ebraico, riconosco la Shoah, ma riconosco anche quello che sta accadendo ora in Palestina.
Per me la non monogamia riguarda anche questo, la possibilità di riconoscere e affrontare delle cose che spesso è più comodo vedere come polarizzate.
Quindi, qual è per te la cosa più urgente per te da rivoluzionare nei nostri affetti?
La cosa più urgente è fermare il genocidio a Gaza. Questo ha a che fare con i nostri affetti. A volte mi si chiede: “Come facciamo ad avere relazioni sane?”. Come possiamo avere relazioni sane se ci sono genocidi in corso? Dobbiamo risanare le nostre relazioni rendendoci conto dei nostri dolori, quali sono, da dove vengono, come li rendiamo comunitari, chiedendoci come possiamo smettere di competere, eccetera. E questo significa anche fermare il genocidio a Gaza, perché è il risultato di secoli in cui non ci siamo posti queste domande. Lo stesso vale per le morti nel Mediterraneo. La resistenza a tutto questo dipende da noi, così come la resistenza a schemi relazionali violenti.
Audre Lorde diceva: “Perché sono donna, perché sono Nera, perché sono lesbica, perché sono me stessa, una donna Nera guerriera poetessa che fa il suo lavoro, che è venuta a chiedervi: state facendo il vostro?”. Quindi, ricordiamoci questo: noi dobbiamo fare il nostro, e non arrenderci prima. Perché è questa l’epoca che ci è toccata.
C’è qualcosa dell’amore romantico, dell’amore “Disney”, che per te vale ancora la pena salvare?
Ah, sì, tutto! Io sono super romantica! Voglio tutto dell’amore “Disney”, ma solo come una fantasia. Lo voglio come voglio un viaggio quando prendo droghe o quando mi sbronzo. Ci sono una serie di cose che usiamo come evasione, ma sappiamo di doverle circoscrivere e ne riconosciamo le conseguenze, non solo personali. E ben consapevoli di tutto questo, con tutte le informazioni a nostra disposizione, decidiamo, a volte, di concederci quello spazio. Dà molto piacere, ma dobbiamo ricordarci che non è reale, è un’evasione che ci stiamo concedendo.
Possiamo giocarci, ma dobbiamo stare attenti a non perderci, così come succede con altre sostanze. E allo stesso tempo, dobbiamo ricordare che l’amore romantico non coincide con la cura. L’amore romantico è una narrazione invasiva dell’amore che, portata agli estremi, ci impedisce di vedere ciò che sta realmente succedendo, e non ci permette di tornare indietro quando le cose si fanno complicate. Ci intrappola, lasciandoci in un bosco in fiamme senza però un viale tagliafuoco.
Devi sapere che i miei coinquilini sono tuoi grandi lettori, sono felicissimi che io sia qui a intervistarti. Quando ho chiesto a uno di loro, Samuele, cosa ti avrebbe chiesto se avesse avuto la possibilità di intervistarti, mi ha detto: chiedile che ci consoli. Spieghi molto bene cosa significa costruire relazioni sane, non competitive, distanti dalle logiche capitaliste. Eppure chi ci prova si trova ingarbugliato nella pratica, inabile e inadeguato rispetto alla teoria. Consola Samuele, se puoi.
Credo di aver scritto un libro intero sul fallimento. Innanzitutto, perché quel fallimento non ci appartiene, ma ha a che fare con il fatto che siamo impigliati in strutture che non riusciamo a capire. Il lavoro di chi, come me, si dedica alla teoria critica è proprio questo: cerchiamo di spiegare questa architettura, cerchiamo di comprendere quali strade sono percorribili e quali no. Quindi il fallimento è una fonte di comprensione, se questo può consolare il tuo amico. Altrimenti avrei scritto un libro sui miei successi amorosi, no? Se Samuele si sente solo nei suoi fallimenti, mi guardi: ci siamo tutte impantanate. La cosa buona è che non ci stiamo arrendendo. Come possiamo uscirne? Partendo dalla comunità e dal ricordarci che siamo piccoli. Che non siamo più piccoli di quanto crediamo, ma nemmeno più grandi di quanto possiamo essere. Quindi non arrendiamoci, ricordiamoci cosa non vogliamo essere e cerchiamo di essere qualcos’altro. Il cambiamento ci sembra sempre minimo, ma non ci arrenderemo.
Irene Moro
Irene Moro ha studiato Editoria e scrittura all’Università La Sapienza di Roma ed è project manager di Lucy.
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