Capitalismo, sorveglianza e data-center: elaboriamo un’altra ipotesi di futuro!

TRA I TANTI FUTURI CHE NON VOGLIAMO, ESISTE UN FUTURO CHE VOGLIAMO?

Dal capitalismo della sorveglianza ai data-center per l’Intelligenza Artificiale.

di Enrico Semprini

Negli ultimi anni sembra che la sinistra trovi la sua sintesi nel ruolo di “coscienza critica dell’esistente e dei progetti delle politiche dei governi”.

Siamo in grado di focalizzare la nostra attenzione su tutti i difetti ed i disastri che combinano gli altri, ma non siamo in grado di discutere di cosa vogliamo noi.

Mentre le destre, dal PD a Forza Nuova, macinano ipotesi di governo l’una peggio dell’altra, noi ci identifichiamo nel ruolo dei critici che stanno dalla parte delle classi subalterne. Ed è un bene, ma è sufficiente?

Ci siamo dimenticati di poter essere protagonisti del cambiamento: un tempo l’area della sinistra si identificava nel mito del progresso, del sol dell’avvenire e come si doveva realizzare? Eravamo d’accordo su una visione internazionalista che vedeva come fine ultimo l’abolizione della divisione del mondo in stati a favore di una collaborazione per la gestione condivisa delle risorse; tuttavia ci dividemmo tra coloro che immaginavano una ipotesi a tappe, con il settore comunista che era per la nazionalizzazione dei mezzi di produzione e per un uso sociale e strumentale degli stati che dovevano comunque andare verso l’estinzione, mentre il settore anarchico vedeva come impossibile l’uso dello stato in termini di progresso sociale.

Potremmo dire che le previsioni della critica anarchica, sono state confermate dagli esiti storici del socialismo statalista, ma questa critica resta però antesignana della situazione della sinistra attuale: ottime critiche in assenza di progetto.

Se vogliamo il nostro fallimento progettuale è arrivato allo zenith nel momento di confrontarci con il progetto di unione europea: ci siamo ritrovati unitariamente contro l’Europa dei padroni, ma per quale alternativa? I più anziani tra noi ricordano perfettamente le dotte disquisizioni sui limiti del trattato di Shengen per la libera circolazione tra gli stati europei: non lo volevamo perché non ci bastava, ma non avevamo chiaro cosa volere.

In questa fase storica ci troviamo all’interno di un percorso di trasformazione internazionale che si basa sull’uso di tecnologie informatiche i cui orizzonti ricadono completamente oltre le barriere nazionali degli stati: come ci relazioniamo con questo problema?

Noi utilizziamo abitualmente degli strumenti che sono prodotti da multinazionali e ci immergiamo allegramente nell’ambiente creato dal “capitalismo della sorveglianza”. Dobbiamo ringraziare Shoshana Zuboff che con il libro che porta come titolo la precedente frase virgolettata, ci ha messo in condizione di capire di cosa si tratta.

Nel 1969 mentre si assiste allo spettacolo mondiale dei passi compiuti da astronauti sul suolo lunare, quattro computer vengono collegati tra quattro università negli Stati Uniti. Dopo due anni Arpanet, antesignana di internet, ne collega 23. Si devono attendere altri 13 anni per arrivare ai 1000 computer del 1984. Ma ne bastano cinque per arrivare a 100.000 ed in quegli anni tra il 1989 ed il 1990 Arpanet va in pensione a favore di Internet e a Ginevra si dichiara la nascita del World Wide Web. Si devono attendere però ancora cinque anni per un uso commerciale di questa rete e già nel 1996 i computer connessi sono 10 milioni. Dopo tre anni sono 200 milioni e ne occorrono dieci, 2009, per arrivare ad un miliardo. Ad oggi le persone connesse ad internet sono stimate in oltre 5,6 miliardi.

Attraverso il nostro cellulare acquistiamo ogni giorno prodotti provenienti da tutto il mondo, senza sapere né domandarci quali sono le condizioni delle persone che li producono. Il criterio è: sono belli, funzionano, costano poco e tanto basta.

DIVERTIRCI DA MORIRE.

Da una parte Marx e dall’altra Federici ci hanno insegnato che i due pilastri del capitalismo sono da ricercare nei fenomeni riguardanti la produzione economica basata sullo sfruttamento e la riproduzione sociale sottoposta a sfruttamento attraverso il tallone di ferro del patriarcato.

Il connubio tra la rete di comunicazione globale ed il patriarcato lo vediamo in questi giorni descritto sui mass media: lo smembramento dei corpi in tette e culi da offrire al pubblico ludibrio ne è testimonianza. Semplice da capire come difficile da contrastare.

L’impatto della rete di comunicazione globale sul funzionamento della economia e, conseguentemente sulla politica, è altrettanto sotto gli occhi, ma meno intuitivo da comprendere.

Perché ci viene offerto tutto così gratuitamente? Tra le mani con un telefonino non troviamo più un semplice strumento per metterci in contatto con una persona precisa in un momento preciso: in mano abbiamo un assistente che ci aiuta a soddisfare bisogni e desideri.

Quanto è bello poter parlare con la persona che amiamo del desiderio di fare un viaggio e trovare sull’apparato che usiamo dei suggerimenti: non li abbiamo chiesti, però è bello avere delle opportunità che ci fanno sentire più liberi, più padroni di tante opportunità per le quali non abbiamo neppure dovuto perdere tempo a cercare. Così come è bello vedere tanti modelli di scarpe che non si potrebbero neppure immaginare in un negozio e sapere quale è la farmacia aperta nel momento in cui ci serve un farmaco contro il mal di testa!

Potrebbe essere meno bello sapere che di farmacie aperte quel giorno magari ce ne sono più di una, ma che la prima a comparire sarà quella che magari ha speso un poco di soldi per pubblicizzarsi su Google.

Se ci pensiamo, però, diventa tutto un po’ strano perché allora ciò che mi viene mostrato non è esattamente asettico, ma segue uno schema.

Lo possiamo vedere molto bene facendo una semplice ricerca su Google, digitando la parola “tabaccherie” seguite dal nome della città che ci interessa. Vedremo comparire uno schema fisso: una cartina con 5 grossi bolli rossi e tanti altri piccoli; sotto di essa un elenco di tre tabaccherie tra le cinque con indirizzo, numero di telefono ed avviso degli orari di apertura. Se schiacciamo su “altri luoghi” troveremo altre rivendite, ma vedremo che non sono in ordine di gradimento dei clienti, per esempio.

Se poi digitiamo con un telefonino portatile “tabaccherie vicino a me” spesso al primo posto ne compare una anche molto lontana con la dicitura “sponsorizzato” e successivamente c’è effettivamente un ordine in base alla distanza da dove ci troviamo. Tuttavia, se magari lo facciamo da casa nostra, ci renderemo conto che quella che conosciamo come la più vicina magari non comparirà tra le risposte.

Dunque la visione del mondo di Google, non corrisponde esattamente a quella che ci è più utile se vogliamo andare a piedi: ci potrebbero essere soluzioni migliori, ma attraverso quello strumento non sono in grado di saperlo. Tramite Google non ottengo una risposta disprezzabile, perché magari quello che mi fa vedere è ad un km di distanza; io so per esperienza diretta che ne posso trovare un’altra a 500 metri da casa, ma dobbiamo dire che anche il risultato ottenuto è comunque accessibile se non si hanno particolari problemi di mobilità.

Tuttavia questo esperimento ci permette di comprendere che la lente attraverso la quale guardo il mondo con questo strumento, non è una rappresentazione del mondo esatta, ma una rappresentazione del mondo confacente alle esigenze…di Google.

Questa esperienza è utile perché ci permette di capire che tra noi e le macchine che ci rispondono c’è una differenza di interessi o meglio che esiste una differenza tra quelli che sono i miei interessi e quelli che mi vengono rappresentati. Se, al di là della risposta del sistema magari chiedo ad un passante che abita nel luogo in cui mi trovo, certamente mi verrà data una risposta più adeguata.

D’altronde, come potrebbe essere diversamente?

Per quanto Google ed altri concorrenti, cerchino costantemente di mappare e digitalizzare il mondo, quella che ci ritorna è pur sempre una approssimazione per difetto della realtà che ci circonda: qualcosa ancora manca.

Capiamo dunque che i servizi “gratuiti” che ci offrono Google e le altre aziende, come Amazon, Meta e Microsoft per restare sul piano dei servizi non materiali, ma anche Apple, IBM dal lato dei fornitori di parti materiali, da qualcuno vengono pagati.

E’ così che si mantiene Google: fornendo un vantaggio commerciale a coloro che pagano per essere visibili. Fin qui, niente di nuovo: sempre nel capitalismo siamo e ci troviamo.

Eppure all’inizio si è parlato di “capitalismo della sorveglianza”: dunque parliamo di una forma specifica di capitalismo, all’interno del medesimo contesto che è sempre quello: se investo 10 all’inizio dell’anno, alla fine dell’anno devo avere almeno 11 o di più. Nel caso di questa forma di capitalismo, molto di più.

CHI E’ CHE CI SORVEGLIA E PERCHE’.

Quando pensiamo al concetto di sorveglianza, inevitabilmente pensiamo ai servizi segreti, agli stati, alla polizia, per cui la risposta istintiva è: <<Ma dai, cosa vuoi che interessi alla polizia quello che faccio io!>>

Il fatto è che la risposta è giusta: alla polizia non interessa nulla di sapere esattamente cosa fanno molti di noi o perlomeno non sono loro che si sono interessati di sviluppare questa forma di capitalismo. Per capirci: l’idea della possibilità di controllarci non nasce all’interno della mente perversa di qualche statista malvagio. Su questo chi è scettico è proprio nel giusto.

E se vogliamo essere precisi l’idea dalla quale nasce la possibilità del controllo dei nostri comportamenti ha trovato linfa nella possibilità che si è intravista di poterci condurre verso determinate forme di consumo: nasce e si sviluppa per una esigenza commerciale.

Per restare nell’esempio di Google, che verrà utilizzato per la centralità del prodotto e per la intuitività con la quale si possono fare esempi, dobbiamo capire che l’approccio iniziale dei fondatori di questo motore di ricerca era completamente estraneo a desideri malevoli e da quanto si capisce non erano mossi neppure dalla foga di diventare multimiliardari. Però dovevano sostenere una azienda che avevano fondato nel 1998 con il motto: <<organizzare tutta l’informazione del mondo e renderla universalmente accessibile e utile.>>

Fondarono l’azienda in un periodo di euforia per le nuove idee in ambito informatico e non c’erano necessità di guadagno immediato ma solo che gli investitori ritenessero credibile un progetto. Gestire la mole di dati proveniente dalla digitalizzazione progressiva di documenti da parte delle università, documenti istituzionali, siti di aziende, ecc. si rivelava una impresa difficile a fronte di richieste di informazioni che ormai arrivavano da 200 milioni di utenti differenti.

I dati c’erano, ma se sbagliavi a digitare una sola lettera nella domanda relativa al documento che dovevi cercare, semplicemente non lo trovavi. Le aziende si chiedevano: perché devo costruire un sito internet per consegnare l’indirizzo a cui trovarmi solo a clienti che sono collegati e solo se scrivono esattamente il nome del mio sito? Al momento si trattava quasi esclusivamente di un problema di prestigio che dava alla azienda che lo facevano una impressione di modernità, di essere al passo con i tempi. I vantaggi commerciali erano ancora modesti.

Accedere alle informazioni era piuttosto complicato e solo con l’avvento di motori di ricerca come Netscape (oggi inesistente) e Yahoo si comincia a poter fare ricerca libera su dati pubblici: i motori di ricerca precedenti erano di solito interni a servizi aziendali o istituzionali.

Google nasce all’interno di un mercato in cui i motori di ricerca affermati sono già molto importanti ma riesce a farsi largo, perché si basa su di un presupposto di calcolo che apprende dal successo delle ricerche precedenti. Le persone che cercavano qualcosa, lasciavano delle tracce secondarie alla azienda, come da dove cercavano, quale era il computer da cui era stata generata la domanda, a che ora la domanda veniva effettuata e molti altri dati; dall’altra parte ottenevano un elenco di risposte compatibili con la domanda, secondo dei criteri preimpostati nella macchina.

Dal punto di vista utente, Google si presentava in modo davvero originale:

1 – come una stringa bianca senza inserzioni pubblicitarie che raccoglieva una richiesta;

2 – mostrava lo strabiliante tempo di risposta in secondi, decimi, centesimi e millesimi;

3 – i risultati erano più vicini a quello che si stava cercando e spesso nei primi posti si trovava qualcosa di utile rispetto a quanto richiesto o comunque molto correlato alla domanda.

Si deve pensare che il problema non era semplice: se si cerca una risposta ad una domanda sulla “moltiplicazione dei topi”, le risposte devono tenere conto di tutte e tre le parole, perché in caso contrario otterrò un elenco che mescola documenti di tipo matematico, con altri che si riferiscono alle religioni ed alla mitologia ed altri ancora di zoologia. Ed era effettivamente questo che capitava nelle prime fasi e una risposta abbastanza corretta era magari alla seconda o terza pagina dell’elenco.

Dunque il metodo di elaborazione delle risposte si rivelò il migliore: Google è la prima azienda che si è occupata non solo di fornire delle risposte, ma si è chiesta come vengono poste le domande, quante volte una domanda viene posta, quante volte è scritta in modo errato e quali sono gli errori di digitazione più frequenti, raccoglie la punteggiatura di una domanda, il tempo di elaborazione e il luogo da cui proviene. Sono tutti dati che l’azienda utilizzava ed utilizza per migliorare progressivamente la qualità delle risposte e, grazie a questo fatto, è riuscita a farsi strada in un mercato apparentemente già saturo di offerta.

Dal punto di vista tecnico, tutto funzionava a meraviglia: e dal punto di vista finanziario?

Come fa a guadagnarci Google se i suoi proprietari rifiutano l’idea di far comparire messaggi pubblicitari sulla pagina di ricerca e non intendono far pagare gli utenti?

Il problema diventa pressante molto presto, perché tra il 2000 ed il 2001 il mondo delle imprese digitali subisce un tracollo in borsa e gli investitori non sono più disponibili a finanziare senza vedere introiti immediati.

La pressione degli investitori costrinse i titolari della azienda ad accettare il fatto che la pubblicità era, ed è, necessaria, ma pur accettando la necessità continuarono a dare indicazione al gruppo che in azienda si occupava di incrementare gli introiti pubblicitari, di rimanere orientati verso l’interesse del cliente, cioè di fornire suggerimenti pubblicitari in linea con gli interessi del cliente. Non era nè semplice, nè banale.

Sembra che la lampadina definitiva si sia accesa nel 2002, quando in azienda ci si rese conto di una ricerca legata all’età di una diva del passato che procurò 5 picchi di richieste in 5 differenti orari. Era incomprensibile come poteva essere successo e si resero conto che in un programma a quiz che andava in onda per televisione in cinque diversi momenti per rispettare le variazioni di fuso orario dei diversi luoghi in cui veniva visto, la domanda sull’età della attrice faceva registrare dei picchi di domande con il relativo flusso di risposte.

Fu questo flusso di dati concentrati che permise alla azienda di rendersi conto di una cosa: l’azienda non sapeva quali sarebbero state le domande prevalenti in una certo momento e non possedeva le risposte alle domande che venivano rivolte. Il loro servizio era di mettere in connessione chi faceva le domande con chi aveva le risposte. Google non faceva domande né offriva risposte, ma era in grado di osservare e di sapere chi faceva le domande e chi possedeva le risposte e di mettere in contatto queste due esigenze.

Se sostituiamo le domande sull’età di una attrice con le ricerche di un prodotto e sostituiamo una libreria in cui trova quella risposta con la azienda che può fornire quel prodotto, capiamo il fenomeno completamente nuovo cui erano in grado di dare vita.

Se i dati che per altre aziende erano considerati “di scarto”, un inutile surplus elettronico da buttare, venivano conservati ed osservati, Google diventava la prima azienda al mondo in grado di sapere quante erano le persone che avevano fatto domande su di un certo prodotto negli ultimi minuti o negli ultimi giorni esattamente nel momento in cui una azienda aveva la necessità di pubblicizzarlo. In altri termini erano in grado di recapitare la pubblicità di un certo prodotto a qualcuno che ne era certamente interessato, apparentemente non deludendo le aspettative dell’utente, ma offrendo una risposta che stava in qualche modo cercando.

Si è aperto improvvisamente un nuovo orizzonte apparentemente senza limiti: quante sono le cose che desideriamo e che vogliamo comprare? Ci occorrono oggetti di consumo, prodotti per la salute e prodotti da mangiare per tutta la vita, ma in che modo è possibile conoscere la costante evoluzione dei nostri desideri per fare in modo che noi li soddisfiamo comprando dagli sponsor di Google?

Nasce e si sviluppa lì la necessità di raccogliere informazioni su ogni utente, per poter trasformare ogni necessità e fantasia in un prodotto che gli verrà proposto nel momento giusto ovunque si trovi: per farlo era necessario travolgere ogni concetto di “dati privati”. Le leggi sulla privacy vengono criticate come progetti obsoleti di persone contrarie “allo sviluppo” e tutta la nostra vita diviene oggetto di esproprio.

Per ottenere questo risultato la politica deve diventare complice.

DAL COMMERCIALE AL POLITICO.

E’ da una necessità commerciale che nasce il capitalismo del controllo, non da una esigenza politica. Del resto dal nostro punto di vista non siamo interessati ad essere controllati né ad essere considerati unicamente dei consumatori all’interno di un ciclo economico; d’altro canto i politici non si pongono mai il problema di fare qualcosa che parta dalle esigenze nostre, neppure come consumatori. Se lo fanno quasi sempre è perché non possono fare diversamente ed è ovvio che se ci sono nuove aziende che in pochi anni hanno accumulato ricchezze inimmaginabili e sono disponibili a finanziare campagne elettorali, allora la disponibilità ad essere malleabili e “comprensivi” con chi infrange le leggi che proteggono i dati che riguardano noi subalterni, diventa molto ampia.

Tra le altre cose queste aziende sono in grado di fare arrivare il messaggio giusto al momento giusto alle persone suddivise in gruppi ristretti di utilizzatori con determinate caratteristiche di età, orientamento sessuale, possibilità di spesa, luogo di residenza ecc. anche per un politico possono essere osservate con molto interesse. Averle dalla propria parte può costituire un grande vantaggio competitivo, soprattutto se le idee di quel politico vengono presentate sotto forma del parere di un “esperto” che sembra non dire cose politicamente orientate, ma ci suggerisce come pensarla su determinate cose ancora una volta senza scopo, così, gratuitamente, per il “nostro bene e benessere”.

Allo stesso modo i cosiddetti “influencer” ci propongono “liberamente” il loro stile di vita che possono sostenere grazie ai soldi di diversi sponsor, dei quali indossano determinati abiti, determinati prodotti per il trucco, prendono posizione su temi di attualità e “ci aiutano a vivere meglio” magari dicendo che anche noi potremo fare le stesse cose che fanno loro.

DAL VIRTUALE AL CONCRETO.

Tuttavia esiste un problema: un conto è osservare dei flussi di dati, altro conto è catalogarli ed accumularli. I dati che noi possiamo fornire con il nostro comportamento e che possono diventare rilevanti dal punto di vista dei consumi futuri, sono una quantità in costante aumento che devono comunque essere accumulati ed ammassati da qualche parte.

Oltretutto come è possibile leggere queste moli di dati e porle in connessione con strutture produttive che le possano valorizzare?

Il lavoro sui dati realizzato da determinati algoritmi, cioè da una serie di istruzioni ripetitive, offre potenzialità limitate per le ambizioni di coloro che vedono in ogni attimo della nostra vita una potenziale forma di guadagno; non è un caso che siano proprio le grandi aziende informatiche del mondo come Google, Amazon, Facebook cioè Meta, Microsoft, Apple ed Ibm a sviluppare l’AI ossia l’Intelligenza Artificiale allo scopo di gestire questa mole esponenziale di dati raccolti che nessun gruppo di ingegneri potrebbe mai utilizzare con successo.

E’ interessante sentir dire che l’Intelligenza Artificiale per svilupparsi necessita di grandi moli di dati ed è per non “fermare il progresso” che bisogna poterli accumulare: la verità è esattamente opposta. Questo filone di sviluppo del capitalismo per poter estendere il suo potere necessita di accumulare sempre più dati che non potrebbero essere gestiti se non da un sistema automatizzato: per questo motivo nasce e viene sviluppata l’Intelligenza Artificiale e le ricadute marginali per il grande pubblico sono solo le briciole che cadono dal banchetto dei potenti.

SOLO CHE…

…per poter accumulare dati occorrono i centri di raccolta dei dati, i DATA CENTER.

In altri termini occorre che il mondo fisico si conformi alle esigenze di macchine subordinate al potere di soggetti particolari, certamente non vincolati al benessere sociale.

E’ abbastanza cinico vedere come le meraviglie della robotica, della informatica avanzata siano sempre pubblicizzate da medici che si occupano di aiutare persone che vivono in condizioni di grandi sofferenze che vengono alleviate da queste mirabolanti scoperte. E le scoperte sono davvero mirabolanti, ma…ogni giorno facciamo esperienza di uomini donne e bambini maciullati in guerra con prodotti testati in quei contesti da queste aziende, viviamo nella esperienza concreta di una sanità che cade a pezzi, eppure riescono a farci credere che stanno lottando per “il progresso” della lotta contro le malattie, ad esempio. Le straordinarie parole “IL PROGRESSO” svolgono una funzione ipnotica, alla quale tutti ci inchiniamo: chi potrebbe essere contro IL PROGRESSO? Si potrebbe anche non essere contro il progresso se coincidesse con un avanzamento del benessere sociale, ma contro QUESTO PROGRESSO possiamo schierarci senza la necessità di vergognarci.

Questo progresso è la idea di accumulo di potere in mani ristrette a cui si deve opporre una idea di progresso ai fini del benessere sociale; sono idee opposte ed incompatibili che devono dare risultati opposti ed incompatibili.

Cerchiamo di farci una idea di cosa sta succedendo, perché se ne parla solo nei “salotti buoni”: i datacenter stanno mangiando l’energia elettrica della terra.

E’ una affermazione ardita?

No,  è una intenzione disastrosa che viene presentata come se fosse un destino inevitabile, una specie di calamità naturale con la quale fare i conti.

Per capirci, riportiamo una dichiarazione di Erich Schmidt, ex amministratore delegato di Google:

<<Durante una recente audizione al Congresso degli Stati Uniti sul futuro dell’AI e la competitività americana, Schmidt ha lanciato un allarme: le infrastrutture di calcolo stanno diventando talmente energivore da superare i limiti della produzione elettrica terrestre. Secondo i suoi calcoli, solo negli Stati Uniti i data center potrebbero richiedere fino a 29 gigawatt aggiuntivi nei prossimi anni e arrivare a 67 gigawatt entro il 2030. Per confronto, una centrale nucleare media ne produce circa uno. “Stiamo parlando di una scala industriale mai vista prima,” ha dichiarato l’ex dirigente.>>

Tuttavia non è una persona che sviluppa ipotesi che vadano verso la cautela: al contrario ha dichiarato che dobbiamo investire tutta l’energia disponibile e in fretta, perché sarà proprio la intelligenza artificiale a risolvere il problema.1

Non è una previsione scientifica, ma una posizione di fede: sostiene che si sta costruendo un intelligenza aliena che sarà in grado di risolvere tutti i problemi.

D’altronde chi dovrà costruire questi data center?

Amazon AWS ha annunciato un investimento di 9,5 miliardi di euro per nuovi data center nel Regno Unito.

Microsoft ha destinato 4 miliardi di euro a data center e formazione AI in Francia.

Amazon investirà 15,7 miliardi di euro per ampliare le infrastrutture nella regione spagnola di Aragona.2

Barbara Carfagna, giornalista che conduce un programma di approfondimento su RAI1 intitolato “Codice – la vita è digitale di eccellente qualità, suggerisce un quesito che riprendiamo:

<<(dopo Starlink) perché non vengono sollevati gli stessi argomenti sulla questione Datacenter di proprietà delle Big Tech che stiamo costruendo in Italia e che (unici ad avere quella potenza di calcolo e quindi ad offrire quelle opportunità) conterranno e processeranno i dati delle aziende italiane e non solo?

Ricordo a tutti che con il Cloud Act3 il governo americano può entrare all’occorrenza in tutti i Datacenter USA del mondo. Aspettiamo di nuovo che il cancello sia chiuso per abbaiare o stiamo accettando l’evidenza che è troppo tardi e che l’opportunità è maggiore del rischio che va corso?>>

Ad una domanda diretta della giornalista ad uno dei manager di un gigante informatico di questo tenore:

<<oggi costruite Data Center ed offrite condizioni di noleggio vantaggiose agli stati Europei per l’utilizzo delle vostre infrastrutture. Ma quando avrete il monopolio dell’accesso ai nostri dati, chi vi impedirà di cambiare i prezzi?>>

La risposta sorniona di uno dei responsabili di IBM Europa è stata:

<<Agli stati europei non conviene costruire i data center autonomamente, perché non avete esperienza. L’esperienza la abbiamo noi e la mettiamo a disposizione e dovete stare tranquilli perché … i contratti vanno rispettati.>>

Ma quante volte abbiamo sentito dire che l’unico interesse di una multinazionale è garantire il profitto dei suoi investitori? Dovremo rendercene conto solamente quando le nostre tasse dovranno aumentare per pagare gli affitti di data center in cui sono stipati…i nostri dati?

Dunque ci dobbiamo opporre a ciò che intendono fare queste multinazionali.

Come?

Se proprio vogliamo andare verso lo sviluppo di questo tipo di strumento, una prima ipotesi potrebbe essere quella della intelligenza artificiale specializzata4 per risolvere specifici problemi? Significherebbe pensare ad un modello funzionale ad ampliare le potenzialità umane, un modello a servizio delle esigenze delle specie viventi e degli ecosistemi, perché in questo caso le esigenze di utilizzo di elettricità sono di ordini di grandezza inferiori.

E’ questa l’ipotesi giusta?

Cominciamo a parlarne e smettiamo di fare sì che siano solamente i reazionari a progettare i futuri possibili.

NOTE

Enrico Semprini

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