Femminismi in America Latina/3

Tra violenza patriarcale e estrattivista e interconnessione con la natura.

di Maristella Svampa (*)
Traduzione Marina Zenobio per Ecor.Network.

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7 Corpi-territori e altri femminismi possibili

Il femminismo comunitario è una proposta esperienziale che nasce da un luogo quotidiano, inteso come luogo di enunciazione, il nostro territorio corpo-terra, dato che la relazione esistente in termini cosmogonici dei corpi delle donne con gli elementi del cosmo dovrebbe essere quella di armonizzarci pienamente con la vita. Ma spesso non è così. Da un lato, i nostri corpi subiscono storicamente la violenza del legame coloniale e, allo stesso tempo, il territorio terra viene violato dal modello di sviluppo economico neoliberista, per questo abbiamo assunto la difesa del territorio terra come spazio per garantire la vita, anche se in questo territorio che difendiamo, molte di noi continuano a subire la violenza da parte di alcuni dirigenti del movimento di difesa territoriale”.

Lorena Cabnal, intervistata da Carballo (2015: 161)

All’ecologia politica dell’acqua e alle sue molteplici voci si è aggiunta una prassi e una riflessione sul “territorio-corpo” e sul “corpo come territorio”, che proviene dalle donne indigene del Centro America. L’impatto di questo linguaggio è stato tale che si è diffusa dal Guatemala al Messico, giù attraverso l’Ecuador, la Colombia, la Bolivia e persino l’Argentina. Ad introdurre questa visione sui corpi-territori è stata Lorena Cabnal, una delle pensatrici più importante della regione e referente della Rete Ancestrale delle Guaritrici del Femminismo Comunitario, Tzk’at (in lingua maya quiché). Per Cabnal il concetto di corpo-territorio permette di connettere vari tipi di violenza, patriarcale, coloniale e estrattivista. Contemporaneamente, la difesa dei corpi e dei territori apre lo spazio collettivo della guarigione, nella ricerca della rottura con il paradigma coloniale e patriarcale. Questo dichiara con grande carisma Lorena Cabnal:

Venendo da una storia di violenza sessuale tutto questo per me è politicamente molto complesso. Ecco da dove viene questa affermazione del femminismo territoriale comunitario che dice “così come difendiamo la terra difendiamo i nostri corpi”. Vedete, i compagni sono molto zelanti nella difesa del territorio, ma guardate cosa succede alle donne. Proprio qui stanno violentando ragazzine e donne. Non è stato fatto da uomini bianchi o meticci. È stato fatto da uomini indigeni. Cosa è successo? È qui che è nato il nostro primo enunciato “il mio corpo, il mio primo territorio di difesa”. Nel 2007 la lotta contro l’estrazione mineraria si è risvegliata con più forza, e abbiamo cominciato a mettere in discussione il governo indigeno dicendo: siamo incoerenti come popolo indigeno, difendiamo il territorio-terra ma non difendiamo il territorio-corpo. Perché noi donne stiamo difendendo questo territorio ma è qui che veniamo uccise. Questa è un’incoerenza cosmogonica. L’elemento vitale per iniziare a fare la decodifica comunitaria e femminista è stato prendere la simbologia cosmogonica e inserirla nel nostro contenuto femminista territoriale. Abbiamo afferrato il calendario agricolo-lunare e prese due dimensioni. Abbiamo scelto il colore rosso che rappresenta il sangue dei corpi: territorio-corpo. Dall’altra parte del calendario agricolo-lunare c’è il colore verde: territorio-terra. Abbiamo iniziato a dire che nella rete della vita tutto agisce con reciprocità, ed è qui che comincia la decodifica. Di fatto, la cosmogonia xinca emergerà anche con noi, daremo un contenuto femminista a elementi della cosmogonia xinca. Questa è l’origine del nostro enunciato xinca “Liki tuyahaki na alteper kwerpo-naní”, che sta per “recupero, difesa e guarigione del territorio corpo-terra” (Goldsman, 2019)

La guarigione “come atto personale e politico” (Cabnal, 2016), è il nome che prende la resilienza nel femminismo ecoterritoriale comunitario e decolonizzatore. Si tratta di un processo che cerca il recupero spirituale delle donne, a partire da una riconnessione con i corpi e con la natura, che riprende i saperi ancestrali, mettendo a sua volta in discussione il patriarcato nelle sue diverse modalità, compresi il capitalismo neoliberista e estrattivista. Siamo di fronte ad una prassi e una epistemologia politica che afferma che altri femminismi sono possibili, così come altre modernità sono possibili. Dalle parole di Aura Lolita, membro del Consiglio dei Popoli K’iche’s per la Difesa della Vita, Madre Natura, Terra e Territori (CPK) del Guatemala: “Sono possibili altri mondi femministi dove i patriarcati non ci sono, né i patriarcati ancestrali, né quelli occidentali, né le imprese; un mondo dove è possibile sognare che imprese transnazionali come quelle per l’estrazione idroelettrica, delle monocolture del petrolio ed altre realtà del genere sono andate via. Non ci sono più” (2016)

Dalle parole di Moira Millán, referente mapuche e leader del “Movimento di Donne Indigene per il Buon Vivere”:

Quando diciamo che siamo corpo territorio non è poesia, è la verità. Il territorio ci abita. Il territorio ha un ecosistema spirituale estremamente complesso e vasto, con una diversità di fonti diverse che abitano i nostri corpi. Allora siamo ciò che il territorio decide che sia. E’ qui che la logica antropocentrica va a farsi benedire. E non c’è modo di poter spiegare tutto questo alle strutture razionaliste di questa matrice civilizzatrice. Non saremmo mai abbastanza all’altezza: se fossimo ambientaliste non saremmo all’altezza, se fossimo femministe non saremmo all’altezza. Cosa siamo? Siamo donne indigene e proponiamo il recupero dell’ordine cosmogonico, la femminilizzazione cosmogonica, che è molto più trascendente del potere femminista: stiamo parlando di restituire la forza femminile della terra, degli spiriti della terra a tutto l’ordine sociale, politico, culturale, biologico compreso (Marcha, 2021)

Tuttavia, sebbene i femminismi eco-territoriali comunitari abbiano in comune l’affermazione di altre modernità, diverse da quella occidentale dominante, conoscono anche espressioni diverse. Parte di queste differenze si può spiegare dal modo in cui i diversi gruppi e collettivi di donne sollevano problemi sul ruolo del patriarcato nel mondo preispanico e la sua relazione con il patriarcato occidentale. All’interno dei femminismi comunitari ci sono gruppi che associano il patriarcato unicamente alla storia coloniale; altri, al contrario, evidenziano la sua “rifunzionalizzazione” (Cabnal, 2016) o la sua “relazione coloniale” (Julieta Paredes, Assemblea Femminista, Bolivia)9, nel quadro delle comunità contadine-indigene attuali. Insomma, ci sono diverse prospettive che attraversano anche il mondo accademico. Per esempio, Rita Segato riconosce l’esistenza di un patriarcato a bassa intensità nel mondo dei villaggi indigeni preispanici (2016), sotto forme comunitarie che includevano relazioni differenti a quelle della modernità occidentale, poiché permettevano una complementarietà tra uomo e donna, e una valorizzazione dell’ordine domestico e della riproduzione sociale. Ma considera che la violenza coloniale ha disarticolato questo mondo, sconvolgendo le relazioni di genere e inserendole in uno schema che inferiorizzava l’ordine domestico, sottomettendo le donne a nuovi tipi di violenza patriarcale ad alta intensità. Su questa linea si inserisce anche la lettura, in chiave di colonialismo interno, di Silvia Rivera Cusicanqui. Da parte sua María Lugones, altra riconosciuta rappresentante della prospettiva decoloniale, ha sostenuto che il patriarcato non esisteva nel mondo indigeno pre-ispanico (Segato, 2016).

Tornando ai femminismi ecoterritoriali comunitari, nella loro versione più dirompente, si tratta di una scommessa il cui punto di partenza è la denuncia della triplice violenza sui territori/corpi, cioè patriarcale, coloniale e estrattivista, e un’enfasi sulle guarigioni. La potenza di questa narrazione anticoloniale è stata tale da sfidare il campo accademico-militante femminista in contatto con le lotte territoriali. E’ così che sono nati i vari collettivi impegnati nella realizzazione di laboratori e nello sviluppo di strumenti critici per “mappare il corpo-territorio” come, per esempio, il Colectivo Miradas Críticas del Territorio desde el Feminismo (Collettivo Visioni Critiche del Territorio da una prospettiva Femminista), sorto in diversi paesi del mondo (Ecuador, Messico Spagna, Brasile, Uruguay e Perù) e il Colectivo de Geografía Crítica (Collettivo di Geografia Critica) de Ecuador. “Nella mappatura del corpo appaiono le ferite, le cicatrici, ricordi particolari, luoghi, spazi, saperi, azioni, come parte della registrazione dei loro corpi attraverso cui siamo capaci di raccontare le nostre storie personali nei vari territori”, afferma il Colectivo Miradas Críticas del Territorio desde el Feminismo (2017). Vale la pena trascrivere alcune testimonianze raccolte nei laboratori di questo collettivo:

Mi sono fatta da sola: sono una laguna, sono un altopiano, sono gli uccelli, un arcobaleno. Sono parte della natura, del territorio di cui faccio parte. Tutti gli esseri umani vivono in armonia”. Donna kichwa degli altipiani ecuadoriani. “Quando ho avuto la trombosi ho conosciuto la diga nel mio corpo”. Donna colombiana danneggiata da una diga (Colectivo Miradas Críticas del Territorio desde el Feminismo, 2017).

La possibilità di rappresentare la corporeità dei conflitti descrive la produttività di questa cartografia critica dei corpi/territori, in un contesto di sorellanza e accompagnamento tra donne di differenti occupazioni, etnie e classi sociali.

D’altro canto, da questo luogo si sono cominciati a tessere legami con i femminismi urbani, incentrati sulle lotte contro i femminicidi, sull’espansione dei diritti o sulla legalizzazione dell’aborto. Tale legame non è né immediato né scontato dato che, quei femminismi ecoterritoriali più centrati nell’idea della sostenibilità della vita, spesso sono in disaccordo con i femminismi urbani che reclamano il diritto all’aborto. Tuttavia la narrazione legata alla corporeità delle lotte e ai segni della violenza offre una maggiore possibilità di connessione tra i femminismi ecoterritoriali comunitari e i femminismi urbani, perché la denuncia della violenza è anche l’innesco per reclamare l’autonomia dei corpi.

8 Accesso alla terra e Sovranità alimentare

Mai nella storia ci eravamo rese conto del valore dei campi per la sopravvivenza dell’umanità stessa. Siamo le guardiane della terra, viviamo dove ci sono le risorse e il nostro compito è lottare per preservarla con uno sguardo verso le nuove generazioni”.

Francisca Pancha Rodríguez, ANAMURI-La Vía Campesina, 2017

La grave crisi climatica in corso, soprattutto a causa del riscaldamento globale, non si deve solo all’incremento della combustione dei combustibili fossili ma anche ai cambiamenti dell’uso della terra, alla deforestazione e all’espansione della frontiera agropecuaria. “Di tutte le terre agricole del pianeta, il 78% è utilizzato per la produzione di bestiame su vasta scala, sia per il pascolo che per la coltivazione di foraggi. Oltre il 60% dei cereali coltivati a livello mondiale è destinato all’alimentazione di animali tenuti in cattività”. (Gruppo ETC, 2014).

Questo ha due conseguenze, rispettivamente globale e territoriale. In primo luogo, a livello globale, negli ultimi decenni abbiamo assistito a uno spostamento verso un modello agroalimentare su larga scala, con enormi impatti sulla nostra salute, sulla vita degli animali, delle piante e dei campi, promosso da politiche statali, logiche di marketing e da potenti lobby commerciali che si svolgono alle spalle della società. Tale regime alimentare, costruito dalle grandi imprese agroalimentari del pianeta, è concentrato sull’alta produttività e sulla massimizzazione del beneficio economico, che si accompagna al degrado di tutti gli ecosistemi: espansione delle monocolture – come per la soia e il mais – che comporta l’annientamento della biodiversità, la tendenza ad una pesca eccessiva, inquinamento da fertilizzanti e pesticidi, sbancamenti e deforestazione, accaparramento di terre, tra i tanti fenomeni associati.

In secondo luogo, a livello territoriale, l’espansione di questi modelli agroalimentari (soia, biocombustibili, foglia di palma) hanno portato come conseguenza l’accaparramento di terre. In vari paesi del Sudamerica, per esempio, l’espansione della frontiera della soia ha comportato una riconfigurazione del mondo rurale a favore delle grandi corporazioni. Ciò ha fatto sì, come già indicato, che l’America Latina si convertisse nella regione più disuguale del mondo in termini di distribuzione della terra (Oxfam, 2016).

Le dispute per la terra e il territorio hanno potenziato la realtà delle donne in ambito rurale. Storicamente queste donne hanno avuto un ruolo cruciale nella produzione di alimenti e nella trasmissione dei saperi ancestrali, un ruolo strategico che si basa sulla divisione sessuale del lavoro. Secondo dati del 2015, nel mondo ci sono 500 milioni di famiglie che praticano l’agricoltura su piccola scala, il 70% del lavoro agricolo è svolto da donne, soprattutto nelle regioni del sud. Tuttavia, a livello globale, le donne possiedono meno del 3% delle terre e hanno grandi restrizioni per quanto riguardo la concessione di crediti (Pappuccio de Vidal, 2016). Da anni le donne della Coordinadora Latinoamericana de Organizaciones del Campo e della Via Campesina Internacional sono impegnate in un “femminismo contadino che ha, tra i suoi assi centrali, la cura dei semi nativi, la lotta per la sovranità alimentare, la riforma agraria globale e la lotta contro la violenza patriarcale” (Korol, 2016). Il concetto di sovranità alimentare – all’orizzonte da decenni come bandiera di lotta per i movimenti sociali, rurali, contadini e indigeni di tutto il mondo -, è stato creato dalla Via Campesina e portato al dibattito pubblico al Vertice Mondiale per l’Alimentazione del 1996. Propone di dare priorità alla produzione per nutrire la popolazione, comporta l’accesso alla terra (quindi la riforma agraria), il diritto dei popoli a dire cosa produrre e consumare, e il diritto a proteggersi dalle importazioni e dal dumping.

Nella testimonianza di Francisca Pancha Rodríguez, leader di ANAMURI, appare con chiarezza la difficoltà per le donne, all’interno della Via Campesina, di piantare una bandiera e sfidare gli stereotipi di genere.

Il processo di discussione e di dibattito sulla sovranità alimentare ci ha permesso il riconoscimento e la valorizzazione delle nostre attività contadine, ovvero che noi donne siamo state fondamentali per lo sviluppo dell’agricoltura e continuiamo ad essere la chiave per la produzione degli alimenti e per la loro trasformazione. Pertanto, il nostro spazio all’interno della Via Campesina non è uno spazio decorativo, abbiamo la parità di genere perché chiediamo ed eleviamo il diritto ad essere uguali se c’è uguaglianza nel lavoro dei campi, uguali anche nella guida del movimento. Per questo noi donne facciamo sempre un’assemblea prima della conferenza, dove parliamo dei nostri problemi, guardiamo al nostro agire e facciamo proposte al movimento (rivista Pueblos, 2017).

Esistono così sempre più esperienze comunitarie che illustrano la relazione tra femminismi popolari, contadini e indigeni, e l’agroecologia, mettendo al tempo stesso in discussione la presenza di una forte cultura patriarcale nei campi. Dalle parole di Rosario Pellegrini, referente dell’Unión de Trabajadores de la Tierra, Argentina:

Ci siamo rese conto che dal modello di produzione imperante delle aziende agricole, quello dell’agrobusiness e della dipendenza, dei pesticidi e dei prodotti agrotossici, noi donne eravamo escluse. Lavoriamo più di 12 ore nell’azienda agricola, poi continuiamo a lavorare a casa, tuttavia non facciamo parte dello spazio dove si prendono le decisione su cosa comprare, coltivare, che semi usare, [questo] si è trasformato in un territorio di uomini. [Su questa linea] l’agroecologia deve marciare unita ad un recupero del ruolo delle donne come custodi della terra, del pianeta, della famiglia, mentre gli uomini imparano a condividere i lavori di cura. Dobbiamo capire che la violenza che facciamo alla terra con il modello agroindustriale è quella stessa violenza che subiamo noi donne sul nostro corpo. (Intervistata da Castro, 2020).

In altre parole sono le donne le principali protagoniste delle resistenze ai disboscamenti, che mettono i propri corpi davanti alla ruspe e denunciano la contaminazione da agrotossici. Sono sempre loro a rafforzare l’impegno in favore di una economia contadina-indigena, sociale e solidale, promuovendo il modello agroecologico quale paradigma contrapposto all’agrobusiness. Sono loro che difendono la terra e la natura fuori dalla logica mercantile. Come suggerisce Rocio Silva-Santiesteban analizzando il caso peruviano: “l’acqua, la coltivazione e la terra sono, per le donne contadine, molto più importanti del denaro o di una casa in città, perché questa visione economicistica non ha preso in considerazione la performatività identitaria delle donne contadine e comunitarie” (Silva-Santiesteban, 2017: 40). Sono le donne che riprendendo la cura dei semi e dei saperi ancestrali creano spazi di re-esistenza, dove l’agroecologia gioca un ruolo sempre più importante. Dalle parole di Alicia Amarilla, della Coordinadora de Mujeres Campesinas e Indígenas de Paraguay, CONAMURI:

Le nostre proposte sono sempre state la lotta frontale contro l’agrobusiness e l’accaparramento delle terre, cosa che va di pari passo con la lotta contro le agrotossine che stanno avvelenando intere popolazioni nei campi, la lotta contro la contaminazione delle nostre sementi native e creole, contro la distruzione dell’habitat, dei territori e della biodiversità. Siamo impegnate nella formazione politica e nell’elevazione della coscienza delle basi, che sono le cellule, la materia prima dell’organizzazione. Alle basi ci sono le donne e gli uomini che lavorano quotidianamente la terra per produrre alimenti sani, frutto di un modello organico e agroecologico. Ci sono quelli e quelle che lottano per un pezzo di terra dove poter vedere crescere i figli e le figlie, e immaginare per loro un futuro meno cupo, un futuro che eviti loro lo sradicamento e la migrazione forzata verso la città o altri paesi, dove l’essenza e l’identità contadina e indigena si possono perdere facilmente. Facciamo affidamento ad un piano strategico che contempla questi obiettivi. Costa molto avanzare ma il processo, anche con alti e bassi, non si fermerà.

Un caso molto interessante di femminismo contadino è la lotta nella Riserva di Tariquía in Bolivia. Nel 2015, il governo di Evo Morales ha cercato di consentire l’ingresso di attività idrocarburifere attraverso una variazione d’uso illegale delle aree interessate. Le comunità sono riuscite a mobilitarsi per impedire l’ingresso delle compagnie petrolifere. Sono state le donne che, dal 2016, hanno mantenuto una lotta continua, opponendosi alla spoliazione delle loro condizioni di vita attraverso la difesa della produzione agroecologica, della pesca e dell’apicoltura. Lo sforzo alla “decertificazione” da parte dei sindacati agrari, ha aggiornato altre chiavi di lettura per la difesa della riserva (“l’organico”), in nome dei beni comuni, delle famiglie, dell’acqua e di tutta la flora e la fauna di Tariquía (López Pardo y Chávez León, 2019: 86-91). Secondo la leader boliviana Bernanda Benítez10, si tratta di una lotta che manifesta “un vincolo con la natura ad di fuori di una visione mercantile della terra”.

Altra esperienza organizzativa differente, guidata da donne, è la cooperativa La Verdecita, una fattoria agroecologica attiva dal 2002 nella provincia di Santa Fe, Argentina. Il suo documento costitutivo ha come obiettivo la lotta contro la fame e l’esclusione, per l’esercizio dei diritti all’alimentazione e alla salute, e alla creazione di una cintura orticola nella città di Santa Fe, accompagnandone la transizione verso l’agroecologia. Si tratta di un’esperienza nata in un territorio circondato dall’agrobusiness, e molti dei suoi membri sono migrati da altre province e paesi limitrofi. Così come dal 2010 è attiva la Escuela Vocacional Agroecologica (EVA), una proposta formativa non formale e aperta alla comunità (Papuccio de Vidal, 2020).

Anche in paesi dell’America Centrale, come il Costa Rica e il Nicaragua, troviamo numerose esperienze di femminismi agroecologici che sfidano gli stereotipi di genere, portate avanti da donne indigene, afrodiscendenti, donne di ogni età che cercano di realizzare un lavoro di risanamento contro le conseguenze della guerra, contro la siccità e le conseguenze del cambiamento climatico (La Agroecóloga, 2020).

In breve, la denuncia della violenza corporativa e ambientale, – la cui faccia crudele è l’agrobusiness che avanza attraverso la deforestazione, le ruspe, gli sgomberi forzati e la mercificazione della terra – ha come controparte un discorso e una prassi rigeneratrice, attraverso la creazione di spazi di re-esistenza caratterizzati dalla cura dei semi e della terra, la valorizzazione dei saperi ancentrali e agroecologici, e il salvataggio delle piante medicinali in nome della sovranità alimentare. Ciò è anche accompagnato dalla denuncia del machismo e del modello patriarcale, non solo al di fuori ma anche all’interno della comunità, in linea con un modello di abitare il territorio che comprende la democratizzazione di genere in termini di accesso alla terra.

9 Territori mascolinizzati, estrattivismo e catene della violenza

Il patriarcato fa ai nostri corpi ciò che le economie estrattiviste e capitaliste fanno ai nostri territori”. XIII Encuentro Feminista Latinoamericano e del Caribe, Perú, 2015

Insieme all’espansione dei conflitti territoriali e socio-ambientali, la violenza estrattiva si è intensificata. Il rapporto di Global Witness pubblicato nel settembre 2021 rivela che tre quarti delle uccisioni registrate di attivisti ambientali nel 2020 hanno avuto luogo in America Latina: 165 persone sono state uccise per aver difeso la loro terra e il pianeta. A livello globale, sono stati registrati 227 attacchi letali, un aumento delle cifre storiche per il secondo anno di fila. La Colombia è stata di nuovo il paese più colpito al mondo, con 65 omicidi registrati e il Nicaragua, con 12 morti, è risultato il luogo più pericoloso per gli attivisti (Global Witness, 2021).

In questo contesto, il neo-estrattivismo, specialmente quando si esprime attraverso economie di enclave, ha portato ad un aggravamento delle catene della violenza, in particolar modo contro le donne. Certamente, laddove si introducono attività estrattive come quelle minerarie e petrolifere – caratterizzate dalla “mascolinizzazione dei territori” (Fondo de Acción Urgente-FAU, 2016) e dal profitto straordinario – non è un caso che si intensifichino e si esacerbino diversi problemi sociali e forme di violenza, già presenti nel resto della società. Ciò colpisce con forza il posto delle donne. Da un lato, in un contesto di marcate asimmetrie salariali, si accentuano le disuguaglianze di genere e si rafforza il suo ruolo tradizionale. Dall’altro, assistiamo all’indebolimento dei ruoli comunitari e ancestrali delle donne, poiché l’arrivo delle imprese estrattive tendono a rompere il tessuto comunitario preesistente, producendo uno spostamento di attività e persino di popolazioni. Aumenta lo sfruttamento sessuale e la violenza verso le donne (tratta, prostituzione, femminicidi). Così alla fine si aggravano anche le catene della violenza – fisica e sessuale – contro le attiviste ambientali.

L’assassinio di Berta Cáceres, e quelli venuti dopo, mostrano che il suo femminicidio non è stato un fatto isolato. “Nel tributo alle donne sostenitrici dei diritti umani dell’Associazione per i Diritti delle Donne e dello Sviluppo (Association for Women’s Rights in Development’s, AWID nell’acronimo inglese), si dà notizia dell’assassinio di 87 donne impegnate in tutto il mondo, di cui almeno 17 erano attiviste ambientali e sostenitrici dei diritti delle loro comunità” (Mazzuca, Mingorria, Navas y Del Bene, 2017). La maggior parte delle aggressioni a donne sono avvenute durante sgomberi forzati, violentate fisicamente e sessualmente dalle forze di polizia o da gruppi paramilitari (FAU, 2015). Già abbiamo fatto riferimento alle aggressioni contro Máxima Acuña, impegnata nella difesa delle lagune in Cajamarca. La persecuzione può prendere anche forma di abuso giudiziario, come nel caso della guatemalteca Aura Lolita Chávez Ixcaquic, e anche di minacce costanti di cui è stata vittima e per le quali, nel 2005, la Commissione Interamericana dei Diritti Umani ha ordinato misure di protezione a suo favore.

In un lavoro del 2019 che di seguito riassumo, la ricercatrice Mina Navarra ha pubblicato una lista scioccante di donne attiviste dei territori assassinate in Messico. Tra i casi più noti di violenza estrema contro le donne, legate ad alcune lotte per la difesa del territorio, troviamo quello di Alberta “Bety” Cariño, assassinata nel 2010. Nel 2012, Fabiola Osorio Bernáldez, che faceva parte dell’organizzazione Guerreros Verdes, è stata assassinata da un gruppo di uomini armati che si sono presentati a casa sua e le hanno sparato, insieme ad una vicina che in quel momento si trovava da lei. Fabiola si opponeva alla costruzione del progetto turistico. Ancora nel 2012, Juventina Villa Mojica – dirigente dell’Organización de Campesinos Ecologistas de Petatlán y Coyuca de Catalán, Stato di Guerrero – è stata assassinata insieme a suo figlio di 17 anni da un gruppo di 30-40 uomini armati. A gennaio del 2018 è avvenuto il femminicidio di María Guadalupe Campanur Tapia, della comunità di Cherán e partecipante attiva nella sicurezza e ricostruzione del territorio della comunità purépecha, che dal 2011 ha conquistato la sua autonomia politica per governarsi in base ai propri usi e costumi (Navarro Truillo, 2019: 7-8).

In breve, in tempi in cui il femminicidio e altri tipi di violenza e crudeltà sui corpi delle donne assumono una orribile centralità, si constata una nuova articolazione tra una redditività straordinaria e una sovra-appropriazione accelerata, con forti strutture di disuguaglianza. Seguendo la rotta mineraria e petrolifera, nel fervore dell’estrattivismo del XXI secolo, è possibile vedere come si espande la tratta, la prostituzione, la violenza fisica contro le donne, portando alla luce la riattivazione di una matrice di dominazione che, nella sua intersezione, mostra l’esacerbazione di meccanismi di sottomissione ed espropriazione legati alle forme più tradizionali del patriarcato.

10 A mo’ di chiusura. “Me lo ha detto il fiume”

Viviamo tempi in cui la pluralità ontologica si fonda nell’idea di una molteplicità di mondi, di un “pluriverso” che si alimenta dell’interculturalità, del rispetto verso altri modi di comprendere la cultura e di organizzare la vita. I femminismi ecoterritoriali latinoamericani uniscono agli ecofemminismi già esistenti una prassi e una narrazione incentrata sulla difesa dell’acqua, dei corpi-territori, della sovranità alimentare, della giustizia ambientale come giustizia sociale e di genere, in associazione con la spiritualità e l’emozione, che disegna una interconnessione con la Terra e la vita intera, in opposizione alla narrazione dominante.

La pandemia da Covid-19 e il collasso ambientale che stiamo vivendo stanno mostrando quanto sia necessario trasformare la relazione tra società e natura, superando il paradigma dualista e antropocentrico, concezione e legame che sono all’origine dei modelli di sottosviluppo che sostengono l’idea della crescita illimitata e l’espansione delle frontiere di mercificazione della vita. La pandemia ha anche reso visibile l’importanza delle cure, nelle loro molteplici dimensioni. In tempo di pandemia nella regione latinoamericana abbiamo assistito a una vera esplosione di workshop e conferenze sulla cura, guidati da leader, attiviste e organizzazioni di diverse correnti femministe ecoterritoriali e comunitarie. Non solo sulla cura ma anche sull’aumento della violenza patriarcale e coloniale, in piena crisi economica e di accelerazione estrattivista. Più che mai la crisi sanitaria e le sue ripercussioni sull’economia hanno messo in evidenza l’insostenibilità dell’attuale organizzazione delle cure e dei compiti di autogestione comunitaria, che ricade sulle donne, soprattutto sulle donne più povere. Anche prima della pandemia, “le donne dedicavano il triplo del tempo rispetto agli uomini nel lavoro di cura non retribuito, situazione che si è aggravata per la crescente domanda di cure e la riduzione dell’offerta di servizi causata dalle misure di confinamento e distanziamento sociale adottate per frenare la crisi sanitaria” (CEPAL, 2020). Pertanto, qualsiasi discussione sulle cure come diritto umano passa più che mai per la sua democratizzazione e universalizzazione. In altri termini, pensare a politiche pubbliche attive attraverso sistemi integrali delle cure, che concepiscano la cura come un diritto (Pautassi, 2017) e riducano il divario di genere, è la chiave per la ripresta post-pandemica.

Vale anche la pena segnalare il cambiamento epocale in termini di protagonismo sociale, ora incentrato su donne e giovani. Se all’inizio dell’ascesa dei governi progressisti – con il boom delle materie prime (2000) e la messa in discussione del neoliberalismo -, il protagonismo delle lotte e l’elaborazione di un linguaggio emancipatore apparteneva ai popoli indigeni (Buon Vivere, Diritti della Natura, Autonomia, Stato Plurinazionale), alla fine del ciclo progressista (2015) – e l’inizio di una nuova era segnata dall’aggravarsi della crisi socio-ecologica e dall’ascesa di nuove destre autoritarie – il protagonismo sarà delle donne, attraverso i diversi femminismi ecoterritoriali e urbani, con una significativa presenza di giovani donne di diversa provenienza sociale ed etnica. Siamo di fronte alla configurazione di un nuovo spazio ecofemminista, plurale e diverso, con vari strati e trame che si intrecciano: Giustizia ambientale e zone di sacrificio (grammatica del riconoscimento e dell’accesso ai diritti fondamentali), Acqua per la vita (grammatica dei beni comuni e della sostenibilità della vita), fiumi e foreste come entità senzienti (Diritti di Madre Terra, Diritti della Natura), denuncia della violenza patriarcale ed estrattivista, difesa del corpo-territorio (Autonomia e Guarigione, contro-mappatura del corpo-territorio), accesso alla terra, cura dei semi e trasmissione dei saperi ancestrali (Sovranità alimentare e agroecologia).

In altri termini, tra il 2000 e il 2015, siamo passate dal “movimento indianista” al “movimento femminista”, una tendenza che accompagna e somma, alla narrazione del Buon Vivere e dei Diritti della Natura, il linguaggio ecofemminista della difesa del corpo come territorio contro ogni tipo di violenza, della difesa dell’acqua per la vita, della convinzione che le donne stanno diventando sempre più guardiane della terra. Si tratta, infine, di una epistemologia ecofemminista sempre più politica, che dialoga con altre tradizioni (ecofemminismo classico, economia femminista e femminismi urbani), che punta a costruire altri orizzonti di vita, più giusti, democratici e resilienti di fronte al collasso dell’ambientale e della civiltà. Detto questo, non bisogna dimenticare che l’emergere di nuove donne leader e di attiviste per la terra e il territorio ha avuto, nel contesto di territori mascolinizzati e come correlato, un aumento della violenza estrattiva e il rafforzamento dei legami patriarcali.

D’altro canto è noto che, in ambito urbano, la marea verde femminista ha portato con sé importanti cambiamenti culturali nelle società di vari paesi latinomericani (Argentina, Uruguay, Cile e Ecuador tra gli altri). Cambiamenti visibili nel processo di decostruzione della mascolinità dominante e nella potenziale emergenza di un nuovo ethos femminista, che si traduce nella denaturalizzazione del potere patriarcale, a partire dalla richiesta di una legislazione che ampli e generi diritti (come il diritto all’interruzione legale della gravidanza). In tal senso, il dialogo tra i femminismi urbani, che chiedono l’autonomia dei corpi, e i femminismi ecoterritoriali, che difendono l’acqua e i territori, non è né evidente né lineare. Così come esiste un linguaggio di valorizzazione che colloca la sostenibilità della vita al centro non accettando la discussione su certi temi, come la legalizzazione dell’aborto, esiste anche un femminismo urbano autocentrato, indifferente alle lotte delle donne contro l’estrattivismo e le grandi corporazioni. Tuttavia, dobbiamo far sì che da quei femminismi ecoterritoriali – che pongono come punto di partenza l’associazione tra violenza patriarcale, estrattiva e coloniale, dove il corpo appare come il primo territorio da difendere -, sia possibile costruire ponti con i femminismi urbani. In altre parole, l’intreccio delle diverse forme di violenza – patriarcale, capitalista ed estrattiva – permette un dialogo più aperto, forse più libero da pregiudizi e tensioni in questo spazio a geometria variabile dove si inseriscono oggi le lotte delle donne nella regione latinoamericana. Perché “se il corpo è territorio, allora intendiamo la lotta per la depenalizzazione dell’aborto come una lotta territoriale”, afferma il collettivo Geografia dell’Ecuador (2018: 22), il cui obiettivo non è altro che stabilire ponti tra le diverse correnti dei femminismi latinoamericani.

Così, al momento di ripensare il nostro vincolo con la natura in un contesto di crisi ambientale e di civiltà, il contributo dei femminismi econterritoriali de sud risultano essere tanto necessari quanto vitali. Ciò contribuisce a riformulare i legami tra l’umano e il non-umano, a mettere in discussione la falsa autonomia o esteriorità riguardo la natura e il ruolo negativo dell’androcentrismo, fatti che sono alla base della nostra moderna concezione del mondo, della scienza e della tecnologia al servizio delle corporazioni, del credere in una crescita illimitata. I contributi dei femminismi eco-territoriali sono fondamentali ed essenziali sia nel tentativo di costruire un movimento transambientale e intersezionale – di natura anticapitalista e anti-patriarcale che pone al centro l’opposizione tra vita e capitale – sia quando si discute su cosa si intende per una giusta transizione ecosociale, a partire dal Sud globale.

Insomma, nella lotta concertata per la difesa della terra e dei territori, le donne si sentono e si vivono come “guardiane della natura”, ma lungi dal cadere in una sorta di ecofemminismo essenzialista, questa convinzione sta articolando una narrazione che mette in discussione il capitalismo e il patriarcato, mentre plasma al contempo un’epistemologia degli affetti e delle emozioni, in contatto spirituale e materiale con altri esseri senzienti, non umani, come l’acqua, le colline e le montagne, i semi e le piante. Questa interconnessione e spiritualità si riflette nella breve e concisa frase della grande attivista honduregna Berta Cáceres: “Me lo ha detto il fiume”. Una frase che sembra detta di sfuggita, ma che segna una prassi politica situata e l’orizzonte di un’epistemologia ecofemminista relazionale, che insiste nel ricordarci che siamo parte di un tutto interconnesso che si chiama indistintamente Pacha, Madre Terra, Natura.

(3. Fine)

* Sociologa, scrittrice e ricercatrice presso il Consiglio Nazionale della

 Ricerca Scientifica e Tecnica (CONICET), Argentina. Docente all’Università Nazionale di La Plata. Si è laureata in filosofia all’Università Nazionale di Cordoba e ha conseguito un dottorato in sociologia all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales (EHESS) di Parigi. Ha ricevuto diversi premi e riconoscimenti, tra cui il Platinum Konex Award in Sociologia (2016) e il National Sociological Essay Award per il suo libro Debates latinoamericanos. Indianismo, Desarrollo, Dependencia y Populismo (2018). Nel settembre 2020 ha pubblicato El colapso ecológico ya llegó. Una brújula para salir del (mal)desarrollo, insieme a Enrique Viale, pubblicato da Siglo XXI (www.maristellasvampa.net).  maristellasvampa@yahoo.com


NOTE:

9) Paredes proviene dal collettivo Mujeres Creando, che è nato negli anni ’90 e riunisce femministe indigene e non. Questo collettivo divenne noto a livello continentale per i suoi graffiti provocatori, così come per la rivendicazione del lesbismo. Tra i suoi membri, oltre a Paredes, c’è María Galindo. Il gruppo subì una rottura con la partenza di Paredes, che andò a creare l’Assemblea Femminista. “Eva non uscirà dalla costola di Evo”, ha scritto in un’occasione María Galindo, diventata molto critica nei confronti del governo di Evo Morales. Insieme a Sonia Sánchez, nota leader argentina dell’AMMAR, ha pubblicato Ninguna mujer nace para puta (Nessuna donna nasce puttana, 2007). Da parte sua, Julieta Paredes ha partecipato all’elaborazione del Piano delle donne per il Buon Vivere, nel 2008, che il governo Morales ha rinominato come Piano delle Pari Opportunità.

10) Appunti tratti dalla conferenza tenuta dal Fondo de Mujeres del Sur il 29/09/2021, alla quale ho partecipato insieme a donne leader territoriali di Bolivia, Paraguay e Argentina. Bernarda Benítez è una leader contadina che rappresenta la Asociación de Mujeres de la Provincia O’Connor (AMPRO), di Tarija, Bolivia.

alexik

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