“Witness to the Hellfire of Genocide” di Wasim Said documenta un Genocidio che continua a svolgersi. È una testimonianza di ciò che il mondo ha permesso che accadesse e di ciò che continuerà a permettere se non lo fermeremo.
di Shatha Mahmoud

La testimonianza di Wasim Said “
Witness to the Hellfire of Genocide: a Testimony from Gaza” è un testo nato sotto i droni, tra il fragore delle bombe, tra la fame e gli sfollati, tra le rovine e le macerie della Striscia di Gaza. Pubblicato da 1804 Books, è una delle prime testimonianze scritte emerse dalla Striscia mentre il Genocidio che documenta continua a consumarsi.
Said è uno studente di fisica di 24 anni di Beit Hanoun, nel Nord di Gaza, una città che ha subito alcuni dei massimi livelli di distruzione nelle fasi iniziali del Genocidio. Said ha iniziato a scrivere durante il breve cessate il fuoco del gennaio 2025, sperando che segnasse l’inizio del ritorno e della ripresa.Ma prima che potesse terminare il suo primo capitolo, Israele ha violato il cessate il fuoco e la sua scrittura si è trasformata da riflessione a testimonianza vivente di sfollamenti, fame e bombardamenti.
Leggere “
Witness to the Hellfire of Genocide: a Testimony from Gaza” di Wasim Said sembra un’impresa impossibile, non perché sia difficile da comprendere, ma perché comprenderlo richiede un confronto morale. È un libro che rifiuta rifugio.
Un libro che chiarisce fin dalla prima pagina che non si tratta di un esercizio letterario, ma di una presa di posizione politica e morale.
Nell’introduzione, Said dichiara lo scopo della sua testimonianza e la richiesta che pone al lettore:
“Non l’ho scritto per farvi piangere.
Lo scrivo perché possiate appendere queste parole al collo, per farvi assumere la responsabilità della mia prospettiva, la responsabilità di sapere, la responsabilità di essere un testimone“.
Segue un silenzio, il silenzio del confronto. Leggere questo libro significa confrontarsi con la nostra partecipazione al mondo che l’ha reso possibile. Ci costringe a vedere il Genocidio non come una rottura nell’ordine delle cose, ma come il suo compimento.
Non una “crisi“, ma un sistema, amministrato, finanziato, normalizzato e reso invisibile dalla complicità globale.
Una volta lette queste parole, non è più possibile tornare alla distanza di sicurezza costruita tra sé e le immagini di morte e decadenza che si scorrono sui social media.
La distanza è scomparsa. Si è dentro l’inquadratura.
Wasim rifiuta il ruolo di spettatore del lettore. La sua testimonianza, scritta dall’interno del Genocidio, durante i bombardamenti, la fame e gli sfollamenti, rende la stessa condizione di spettatore insopportabile. Le sue parole accusano non solo i responsabili, ma anche l’opinione pubblica globale, il cui silenzio alimenta le condizioni del Genocidio.
Non stiamo leggendo dall’esterno dell’evento.
Stiamo leggendo come partecipanti alla sua costruzione.
Ogni governo che ha armato l’entità Sionista, ogni impresa che ha tratto profitto dal suo Massacro, ogni istituzione che ha dato credibilità alla sua Barbarie, ogni redazione che ha interferito e insabbiato i suoi massacri, e ogni spettatore che è rimasto a guardare mentre Gaza moriva di fame: ognuno di loro è un filo intrecciato nel tessuto del Genocidio.
È un tessuto che indossiamo ancora.
Wasim scrive dal cuore del collasso morale dell’Impero e, così facendo, lascia il lettore con una domanda: cosa facciamo del peso della testimonianza?
IMPORTANZA DELLA DOCUMENTAZIONE: LA SCRITTURA COME RIFIUTO
Wasim Said ha abbozzato i suoi capitoli nell’oscurità della notte, in tende improvvisate, che descrive come “fatte di assi di legno e barre di ferro ricoperte di stoffa o teli di plastica“, guidato dal debole fascio di luce di una torcia elettrica del telefono che doveva razionare tra scrittura e sopravvivenza. Non si tratta di uno scrittore che riflette o ritorna alla memoria; è uno scrittore che documenta il mondo che si deteriora intorno a lui. Questo libro non è un ricordo; è una testimonianza in tempo reale.
In Palestina, la scrittura è sempre stata intrecciata con la sopravvivenza. Per un popolo espulso dalla propria terra, privato della cittadinanza e reso superfluo dal consenso globale, l’atto di registrare diventa un atto di rifiuto. È un mezzo per rifiutare la scomparsa. È il modo in cui un popolo a cui è stata negata una storia insiste sulla propria esistenza.
La scrittura palestinese è sempre emersa dall’interno della lotta. Ghassan Kanafani scrisse durante l’esilio, durante la Pulizia Etnica di Massa del 1948, mappando la memoria su una geografia che gli veniva sistematicamente rubata.
Walid Daqqah trafugò le sue opere dall’interno di una prigione israeliana, scrivendo attraverso le sbarre di ferro.
Wisam Rafeedie compose “Trinità dei Fondamenti” dall’isolamento, ogni pagina trafugata attraverso i suoi compagni. Refaat Alareer curò e insegnò letteratura a Gaza fino alla settimana in cui fu assassinato da un attacco israeliano, rifiutandosi di cedere il suo lavoro all’occupante.
Tutti questi scrittori scrissero le loro opere mentre la violenza era ancora in corso, non dopo la sua fine. Non aspettarono sicurezza, distanza o riconoscimento. Scrissero sotto il coprifuoco, sotto assedio, in celle di prigione e sotto i bombardamenti.
Wasim appartiene a questa stirpe. Scrive sotto il telo di una tenda da sfollati, mentre l’acqua scorre e l’odore della morte aleggia pesante nell’aria. Ogni frase che scrive è composta all’ombra di un drone.
“Scrivo mentre respiro affannosamente tra i proiettili; scrivo, e ogni parola potrebbe essere l’ultima“.
Un documento prodotto non al passato della tragedia, ma al presente dell’annientamento. Questa distinzione è importante perché la maggior parte della letteratura sul Genocidio che conosciamo oggi è post-evento: scritta dall’esilio, dalla memoria o dalla sopravvivenza.
Ma la testimonianza di Wasim non ha conseguenze su cui riflettere.
Scrive dal centro della storia e la struttura del libro segue la sua traiettoria attraverso il Genocidio. Inizia con la sua espulsione da Beit Hanoun, i ripetuti tentativi suoi e della sua famiglia di trovare rifugio e la fame che soffoca e governa ciò che resta della vita nella Striscia.
Condivide il suo racconto della caccia alla farina, dei massacri nei cosiddetti centri di soccorso e delle file di persone in attesa di una briciola di pane sotto il ronzio dei droni. Said poi racconta storie dal Nord, la Regione che Israele ha deliberatamente ridotto alla fame e isolato dal resto della Striscia, e che ha dovuto affrontare i massimi livelli di carestia e morti di massa.
Alla fine, il libro si addentra in una sezione intitolata “Martiri Senza Testimoni”, dove documenta ciò che il mondo si rifiuta di vedere: bambini bruciati vivi nelle aule, ospedali sotto assedio, famiglie costrette a conservare il corpo della madre in un frigorifero perché i cecchini davano la caccia anche ai morti. La sua organizzazione è un atto d’accusa; ogni capitolo rivela un ulteriore strato di un Genocidio orchestrato per non lasciare nessuno a ricordare, nessuno a parlare e nessuno a testimoniare.
La documentazione, per Wasim, non è memoria; è continuità. Impedisce al processo di annientamento di completarsi. Registrando, nega all’Impero l’ultima parola.
Finché queste parole esisteranno, Gaza non potrà essere Cancellata.
SCRIVERE NELLA MORTE: LE CONDIZIONI MATERIALI DEL GENOCIDIO
Wasim Said non scrive ai margini della catastrofe; scrive dal centro di un progetto globale che si sta sviluppando da decenni, ben prima del 7 ottobre.
Dall’inizio dell’assedio soffocante nel 2007, Israele, con il pieno sostegno del mondo occidentale, ha trasformato Gaza in un luogo progettato per la Morte di Massa.
Un laboratorio dove ogni metodo di controllo, sorveglianza, controllo della popolazione e guerriglia urbana viene testato sui palestinesi prima di essere esportato nel mondo. Queste sono le condizioni in cui è scritta ogni pagina di questo libro.
Il Genocidio a Gaza non è caos. Ciò che Wasim documenta non è una distruzione spontanea, ma la deliberata orchestrazione dell’annientamento.
L’assedio che lo intrappola, e che plasma ogni frase di questo libro, è uno dei progetti di sofferenza di massa più organizzati della storia moderna.
Quando gli ospedali vengono bombardati, non si tratta di un incidente militare.
È la distruzione della capacità di vivere di una popolazione. Quando vengono presi di mira panifici, impianti di depurazione e pannelli solari, non si tratta di danni collaterali.
Si tratta dell’eliminazione delle infrastrutture civili che sostengono la vita.
Vengono annunciate “zone umanitarie”, che poi si trasformano in fosse comuni. Gli “ordini di evacuazione” si traducono in sfollamenti forzati. Le “zone sicure” vengono bombardate ore dopo la loro dichiarazione.
Anche la fame è una politica. Israele ha perfezionato quella che chiama “Falciare l’Erba”, una Dottrina di Annientamento Sistematico che rende Gaza perennemente inabitabile. L’assedio interrompe cibo, carburante e medicine; controlla l’apporto calorico di due milioni di persone; decide chi può mangiare, chi può vivere e chi deve morire.
Quando Wasim descrive persone che fanno bollire le foglie per procurarsi il cibo o che raccolgono l’acqua di scarico per bere, non sta solo descrivendo la Carestia, sta descrivendo una Politica.
Queste politiche sono l’architettura del genocidio, il progetto di un’impresa coloniale di insediamento che sopravvive attraverso lo Sterminio del popolo palestinese.
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SMASCHERARE I FACILITATORI: IL GENOCIDIO COME STRUTTURA GLOBALE
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Wasim non descrive le armi che polverizzano Gaza come macchinari distanti o anonimi; ne parla attraverso la lente di chi le subisce. Quando gli aerei sganciano bombe a grappolo sulle famiglie sfollate che dormono nelle aule, le descrive come ne è stato testimone: prodotti “fatti nella terra della ‘Libertà e della Democrazia’”.
Enuncia ciò che i Facilitatori del Genocidio nel mondo preferiscono nascondere: che ogni esplosione, ogni missile, ogni colpo di cecchino non è una lontana raffica di violenza nel cielo di Gaza, ma l’implicazione materiale di un ordine globale che trae profitto dal suo fuoco. La testimonianza di Wasim chiarisce che le armi non arrivano semplicemente a Gaza: vengono inviate.
Le bombe sganciate su Gaza non sono state fabbricate lì. Le armi che hanno raso al suolo intere città non sono state assemblate a Rafah o a Khan Younis. Sono stati prodotti negli Stati Uniti, finanziati con i soldi dei contribuenti e assemblati attraverso una catena di fornitura transnazionale che collega aziende, Stati e finanziatori dal Canada ai Paesi Bassi e al Regno Unito. Il principale bombardiere israeliano, l’F-35I “Adir”, è prodotto con componenti e una catena di fornitura che si estende in tutto il mondo.
La seconda compagnia di trasporto marittimo al mondo, Maersk, è stata smascherata nel 2024 per aver trasportato milioni di libbre di carichi militari dagli Stati Uniti a Israele.
Persino l’infrastruttura digitale del genocidio è esternalizzata. Il Progetto Nimbus di Google e Amazon alimenta i sistemi di dati dell’esercito israeliano, fornendo la capacità di sorveglianza e Intelligenza Artificiale che guida le operazioni di individuazione. Le banche occidentali investono in produttori di armi come Elbit Systems e Lockheed Martin, aziende i cui profitti aumentano a ogni Massacro. La distruzione di Gaza non è solo sostenuta militarmente; è incentivata economicamente.
Questo è il mondo che le parole di Wasim ci costringono ad affrontare: un mondo in cui il Genocidio non è l’atto di un singolo Stato, ma una divisione globale del lavoro, una collaborazione internazionale.
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MEMORIA VIVA, RESPONSABILITÀ ATTIVA
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Questa non è una recensione. È una resa dei conti.
Ciò che Wasim ci offre è un atto d’accusa e un invito. Non un invito a commemorare, ma a impegnarsi. Una volta entrati in questo libro, una volta che ne avete fatto vostre le parole, non potete fingere di essere fuori dalla storia. Ci siete dentro.
Leggere “Testimone del Fuoco Infernale del Genocidio” significa capire che Gaza ci sta insegnando qualcosa sul mondo. È una testimonianza di ciò che il mondo ha permesso che accadesse. E di ciò che il mondo continuerà a permettere se non agiamo.
Questo libro ci lascia con una responsabilità che non possiamo portare da soli, una responsabilità dei vivi verso i vivi.
Responsabilità verso le persone che ancora respirano sotto assedio.
Verso la bambina che si trova dove un tempo c’era la sua scuola.
Verso il prigioniero ancora detenuto nelle segrete dell’Occupazione.
Verso le famiglie che hanno memorizzato i volti dei loro figli per paura che i loro corpi non vengano ritrovati.
A coloro che si sono rifiutati di morire in silenzio: i nostri martiri.
I nostri martiri, i cui corpi tornano alla terra che non li ha mai liberati, che tornano alla terra che ha custodito i loro nomi e coloro che li hanno preceduti, il cui sacrificio non sarà mai dimenticato: non un ricordo da custodire, ma una responsabilità da portare con sé.
La nostra responsabilità non è quella di sentirci devastati. È quella di devastare i sistemi che hanno reso possibile questo libro.
Non siamo indifesi. Siamo posizionati.
Non siamo distanti. Siamo coinvolti.
E quindi la domanda finale non è: cosa vi ha fatto provare questo libro?
La domanda è: cosa vi farà fare questo libro?
Tratto da
Mondoweiss.
Traduzione: La Zona Grigia.
Shatha Mahmoud è un’organizzatrice del Movimento Giovanile Palestinese.
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