Il problema dell’Iran è la siccità

di Marina Forti (*)

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Qualcosa è sfuggito, nei resoconti della visita del presidente iraniano Hasan Rohani in Italia e Francia. Un accenno fatto proprio dal presidente, quando ha parlato di investimenti e di stringere le relazioni economiche, che poi sono state al centro della visita. Parlando di sviluppo e di occupazione, l’agricoltura è la prima cosa che ha citato: «L’agricoltura è una questione umanitaria. L’acqua, le tecnologie di irrigazione sono una questione fondamentale, visto che l’agricoltura assorbe circa il 90 per cento dell’acqua disponibile nel Paese».

Rohani stava parlando a un forum della Confindustria, e ha proseguito elencando: energia, idrocarburi, petrolchimico, industria automobilistica, farmaceutico, settori a cui l’uditorio era certamente più sensibile.

In cima alla lista però il presidente ha messo l’agricoltura, e più precisamente l’acqua. E l’ha chiamata «questione umanitaria», non nel senso che gli iraniani siano alla fame ma (suppongo) che è una questione che riguarda il benessere, la sostenibilità, la capacità futura di produrre cibo, la salute dell’ambiente naturale. Insomma, era un accenno a una delle crisi più gravi che l’Iran deve affrontare, in prospettiva forse la più grave di tutte.

Da sette anni ormai l’Iran soffre di siccità (e non è solo: un’ampia regione del Medio Oriente, dalla Siria a tutta la “mezzaluna” del Tigri ed Eufrate, è in situazione analoga). E la siccità sta aggravando una crisi ambientale acuta.

La parte centrale dell’Iran è un grande altopiano chiuso da montagne, dal clima semi-arido, ma coltivato da millenni grazie all’acqua che ogni primavera scende dalle sue montagne allo sciogliersi delle nevi e va a riempire falde e reservoir sotterranei (nell’antichità gli abitanti dell’altopiano hanno sviluppato sistemi ingegnosi per conservare e trasportare l’acqua in clima arido, come i tunnel sotterranei chiamati qanat che sfruttano la forza di gravità, o i sistemi per conservate l’acqua piovana). Abbastanza acqua da alimentare anche fiumi come lo Zayandeh, quello che bagna Isfahan, forse la più bella città del paese, famosa tra l’altro per i suoi magnifici ponti.

Isfahan, il fiume Zayandeh a secco

Ebbene, le foto di quei ponti illustrano bene la crisi. Da qualche anno ormai l’acqua dello Zayandeh è ridotta a un rigagnolo, d’inverno, per poi scomparire ai primi caldi quando le dighe a monte vengono chiuse e la poca acqua disponibile deviata verso i distretti agricoli. Se a Isfahan stringe il cuore vedere quel letto fluviale secco e screpolato, a valle la situazione è più drammatica: gli agricoltori stentano a irrigare i loro campi, le coltivazioni sono decimate. Nella provincia di Kerman, principale area di produzione dei famosi pistacchi iraniani, circa il 15 per cento degli oltre 60mila ettari di alberi di pistacchio sono morti di sete nell’ultimo decennio.

Le poche piogge non bastano a rigenerare le falde; sembra che il Paese abbia consumato ormai buona parte delle sue riserve. A questo ovviamente concorrono cattiva gestione, sprechi, tecniche di irrigazione datate. E una pluridecennale politica di sussidi che incoraggia lo spreco di acqua e di energia, che infatti costano pochissimo.

Alla siccità sono legate anche le sempre più frequenti tempeste di sabbia che arrivano in Iran da occidente e aggravano l’inquinamento urbano già a livelli di guardia – perché i veicoli in circolazione aumentano, i carburanti sono “sporchi”, le case surriscaldate (o d’estate raffreddate a palla) e ben pochi investimenti sono mai stati rivolti all’efficienza energetica, nelle costruzioni e nell’industria.

La crisi ambientale sta raggiungendo livelli di guardia, ormai anche i dirigenti iraniani hanno preso nota. Tanto che novembre scorso l’ayatollah Khamenei, prima autorità dello Stato, ha diffuso un documento in 15 punti proprio sulle «Politiche generali per l’ambiente».

Indirizzato al presidente della repubblica, al presidente del parlamento e al capo della magistratura, il documento elenca le linee-guida che dovrebbero ispirare le iniziative di governo. Sottolinea l’urgenza di «gestire il cambiamento del clima e minacce ambientali come la desertificazione, l’inquinamento da polveri e la siccità». Dice che un fattore chiave nel degrado ambientale è stata la deforestazione. Evoca una «green economy», sottolinea la necessità di sviluppare un’industria a basso contenuto di carbonio, di usare energie pulite, promuovere l’efficienza energetica. Parla di migliorare le pratiche agricole, indirizzarle verso un’agricoltura biologica, e poi di gestione dei reflui. Aggiunge che è urgente sviluppare il trasporto pubblico e diminuire la dipendenza dai combustibili fossili, sopratutto nelle grandi città. C’è un capitolo sugli investimenti «eco-compatibili» e sulle politiche di incentivi, e un sistema di sanzioni per i “reati ambientali”.

Insomma, la crisi ambientale è diventata un’urgenza. L’accenno del presidente Rohani ad agricoltura e acqua lo conferma.

(*) Ripreso dal bel blog di Marina Forti: http://www.terraterraonline.org/blog/ ovvero «Terra Terra – cronache da un pianeta in bilico»

 

 

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