Il senso della vita
L’astrofilosofo – all’anagrafe Fabrizio Melodia – nella 128esima puntata di «Ci manca(va) un Venerdì» mette l’un contro l’altro Baricco, Buber, Kierkegaard, Musul, Pessoa, Rice, Socrate, Wittgenstein e Zenone (uno dei). Chi vincerà? Forse un proverbio cinese.
«Ricordate che non c’è nulla di stabile nelle vicende umane, quindi evitate l’euforia eccessiva nella prosperità e la tristezza inutile nelle avversità» tranquillazava il filosofo Socrate, prima di bere in modo serafico la cicuta.
Fin dai tempi più remoti, i filosofi si sono interrogati sul fine ultimo della vita, identificandola nei modi più disparati e a volte disperati.
Soren Kierkegaard affermava: «Chi scorge nel godimento il senso e lo scopo della vita, sottopone sempre la sua vita a una condizione che o sta al di fuori dell’individuo o è nell’individuo ma in modo da non essere posta per opera dell’individuo stesso»; a significare che, in quanto “cosa” proveniente dall’esterno, pur con un effetto interno, il godimento non può essere il vero scopo in quanto non appartenente per natura all’individuo.
«La nostra autentica missione in questo mondo in cui siamo stati posti non può essere in alcun caso quella di voltare le spalle alle cose e agli esseri che incontriamo e che attirano il nostro cuor e; al contrario, è proprio quella di entrare in contatto, attraverso la santificazione del legame che ci unisce a loro, con ciò che in essi si manifesta come bellezza, sensazione di benessere, godimento»: così invece Martin Buber, il quale identificava nell’amore verso il prossimo il fine ultimo di ogni azione e godimento umano, un insegnamento di Ragione contro ogni amore dato per fideismo.
«Pregare è il fine ultimo della vita» diceva invece il filosofo e matematico Ludwig Wittgenstein, un uomo che aveva fatto dell’esperienza personale nei riguardi del limite del linguaggio il senso ultimo del naufragio della Ragione. Ognuno di noi è chiamato a sperimentare personalmente i limiti del proprio linguaggio per poi gettare via la scala logica, giungendo a una sorta di misticismo ben diverso dall’essere staccati dal reale, pur non potendo parlare delle questioni fondamentali.
«Lo scopo della vita è di vivere in accordo con la natura» ricordava Zenone di Cizio, ovvero secondo la ragione immanente delle cose, a cui tutta la materia deve uniformarsi per essere felici e in pace.
Il poeta e un po’ filosofo Fernando Pessoa ha qualcosa da obiettare: «Vivere e morire sono la medesima cosa. Ma vivere è appartenere a un altro dal di fuori, e morire è appartenere a un altro dal di dentro. Le due cose si assomigliano, ma la vita è il lato di fuori della morte. Perciò la vita è la vita, e la morte la morte, perché il lato di fuori è sempre più vero del lato di dentro, tanto che è il lato di uori che si vede». Ad affermare insomma che in sostanza vita e morte non sono differenti ma il senso “esterno” attira di più verso il baratro perché è visibile, duro e tangibile mentre la vita è impalpabile e difficile da scorgere, se non per contrasto.
In questo contrasto dobbiamo ricercare la vera essenza della felicità?
«C’è un solo e unico scopo nella vita: testimoniare e comprendere per quanto possibile la complessità del mondo, la sua bellezza, i suoi misteri, i suoi interrogativi. Più si cerca di capire, più s’indaga, e più si apprezza la vita e ci si sente in pace col mondo. È questa la sostanza della vita. Tutto il resto si riduce a vacui passatempi. Se un’attività non si basa sull’amore o sulla conoscenza, non ha alcun valore. […] Ci si può chiedere perché bisogna amare e imparare o perché sarebbe questo lo scopo della vita: voglio dire, come mai è stato deciso fare solo queste cose e con la massima dedizione? Una domanda stupida, non importa perché sia così. È così: lo scopo della vita è amare ed imparare» chiosa la scrittrice “vampirica” Anne Rice, che di mortale-immortale se ne intende.
Qualcun altro sembra saperla ancora più lunga: «A me risulta che la ricerca del senso è una sorta di partita a scacchi, molto dura e solitaria, e che non la si vince alzandosi dalla scacchiera e andando di là a preparare il pranzo per tutti. È ovvio che occuparsi degli altri fa bene, ed è un gesto così dannatamente giusto, e anche inevitabile, necessario: ma non mi è mai venuto da pensare che potesse entrarci davvero con il senso della vita. Temo che il senso della vita sia estorcere la felicità a se stessi, tutto il resto è una forma di lusso dell’animo, o di miseria, dipende dai casi. Peraltro, è anche possibile che mi sbagli. È giusto un pensiero istintivo – un certo modo di vedere il mondo» scrive Alessandro Baricco, quasi a sottolineare che l’indagine universale della Ragione alla fine debba necessariamente lasciare il posto a quell’istinto per la vita che è proprio di ogni essere vivente, e che solo ciascuno di noi può trovare in fondo al viale della vita.
Robert Musil – scrittore “maledetto” – affermava con ironia: «Proprio per questo mio essere legato a tutte le idee o a nessuna, ho disimparato a prendere sul serio la vita. In fondo mi emoziona molto di più leggerla in un romanzo, dove c’è una concezione a sostenerla […]. Il nostro tempo si guarda bene dal prendere sul serio gli avvenimenti e le avventure di cui è pieno».
In chiusura un vecchio proverbio cinese: «Mangiare è uno dei quattro scopi della vita… Quali siano gli altri tre nessuno lo ha mai saputo». Buon appetito!
La prima immagine è la locandina del film «Il senso della vita (Monty Python’s – the Meaning of Life)» del 1983. La seconda è il quadro «La vita e la morte» (1889) di Paul Gauguin,
Sto con Buber